Il Femminismo: dalla storia alla cronaca

Femminismo: di cosa si tratta

Il femminismo è un movimento composto prevalentemente da donne, che tende a realizzare l’uguaglianza sociale, economica e politica dei sessi. Benché largamente originario dell’Occidente, il femminismo si è manifestato in tutto il mondo, a favore dei diritti e degli interessi delle donne.

Cause che lo hanno determinato

Quasi tutte le società del mondo, secondo le femministe, si sono basate sul patriarcato, a cominciare dalla prima donna, Eva, che fu posta da Dio sotto l’autorità di Adamo. La donna è sempre stata un possesso: prima del padre e poi del marito, senza alcun diritto giuridico sulla sua persona, sui figli, sui beni, che venivano tramandati per discendenza maschile. Alla base dell’ideale femminista vi è invece la convinzione che i diritti sociali e politici del cittadino prescindano totalmente dal genere sessuale cui si appartiene.

Il termine “femminismo”

Il termine “femminismo” sembra sia stato coniato dal socialista Charles Fourie nel 1837, ma fu spesso usato in senso spregiativo, per mettere in ridicolo le donne che rivendicavano la parità dei diritti.

STORIA DELLA CONDIZIONE FEMMINILE E NASCITA DEL FEMMINISMO

Mondo antico

Ci sono poche prove di proteste organizzate dalle donne del mondo antico sin dal III secolo A.C. , quando le donne romane riempirono il Campidoglio e bloccarono ogni ingresso al Foro perché Marco Porcio Catone si rifiutava di abrogare le leggi che limitavano l’uso da parte delle donne di beni costosi. “Se vincono adesso, cosa non tenteranno?” Gridò Catone. “Non appena inizieranno a essere tuoi pari, diventeranno i tuoi superiori”.
Quella ribellione, in ogni caso, fu un’eccezione, non la regola.

Europa medievale

Nell’Europa medievale, alle donne era negato il diritto di possedere proprietà, di studiare o di partecipare alla vita pubblica. Alla fine del XIX in molti Paesi, fra cui la Francia e l’Italia, le donne erano ancora costrette a coprirsi la testa in pubblico, e, in alcune parti della Germania, un marito aveva ancora il diritto di vendere la moglie, considerata come un bene di cui poteva disporre, al pari del bestiame.

XIV-XV Secolo

La storia registra solo voci isolate contro lo stato di inferiorità in cui veniva tenuta la donna, almeno fino alla fine del XIV e l’inizio del XV secolo in Francia, quando la prima filosofa femminista, di origine italiana, Christine de Pizan, sfidò gli atteggiamenti prevalenti nei confronti delle donne con un audace appello all’educazione femminile. Il suo credo fu ripreso più tardi da Laura Cereta, una donna veneziana del XV secolo che pubblicò Epistolae familiares (1488; “Lettere personali” ad altri intellettuali della sua epoca). Nel libro la Cereta lamenta le condizioni in cui le donne dovevano vivere, parla della impossibilità di accedere all’istruzione e dell’oppressione matrimoniale.

I difensori dello status quo dipingevano le donne come superficiali e intrinsecamente immorali, ma queste prime femministe cercarono in tutti i modi di dimostrare che le donne sarebbero state pari agli uomini se avessero avuto uguale accesso all’istruzione.

XVI Secolo

Nel XVI secolo, Jane Anger, scrisse un libro tutto a difesa delle donne: Protection for Women (1589).  Un’altra femminista ante litteram fu l’inglese Mary Astell, la quale scrisse Una proposta saggia alle signore (1694, 1697), un libro in due volumi in cui suggeriva alle donne che non si sentivano portate né per il matrimonio né per la vocazione religiosa, a creare conventi secolari dove poter vivere, studiare, e insegnare.

Illuminismo

Con l’Illuminismo, le donne iniziarono a chiedere che le riforme sulla libertà, l’uguaglianza e i diritti naturali fossero applicate ad entrambi i sessi. I filosofi illuministi infatti si erano concentrati sulle ingiustizie relative alla classe sociale, ma non presero in considerazione le ingiustizie sociali relative al genere sessuale. Il filosofo Jean-Jacques Rousseau, ad esempio, raffigurava le donne come creature sciocche e frivole, nate per essere subordinate agli uomini. Inoltre, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, che definì la costituzione francese dopo la rivoluzione del 1789, non riuscì a correggere lo status legale delle donne.

Olympe de Gouges, nota drammaturga, pubblicò la Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne (1791), dichiarando che le donne non solo erano uguali all’uomo, ma sue partner. Finì ghigliottinata. L’anno successivo Mary Wollstonecraft pubblicò A Vindication of the Rights of Woman (1792), sfidando l’idea che le donne esistessero solo per compiacere gli uomini e proponendo che alle donne e agli uomini fossero offerte pari opportunità nell’istruzione, nel lavoro e nella politica. Le donne, scrisse, sono naturalmente razionali come gli uomini. Se sono sciocche, è solo perché la società le educa ad essere esseri irrilevanti. I suoi scritti furono un altro insuccesso.

XIX Secolo

Nel 1848 e le femministe parigine iniziarono a pubblicare un quotidiano dal titolo La Voix des femmes (” La voce delle donne “) e Luise Dittmar, una scrittrice tedesca, ne seguì l’esempio un anno dopo con il suo giornale, Soziale Reform. Negli Stati Uniti, l’attivismo femminista mise radici verso la metà del XIX secolo, quando le questioni che riguardavano la condizione della donna si erano aggiunte alle lotte per il cambiamento sociale, con un proficuo scambio di idee tra Europa e Nord America. Nel 1843 fu redatto il primo vero e proprio manifesto femminista, da parte di Margaret Fuller. Il manifesto fu pubblicato dapprima come saggio, dal titolo “L’uomo contro gli uomini – La donna contro le donne”, all’interno della rivista The dial (nel 1845 esso fu rielaborato ed apparve nuovamente col nuovo titolo La donna nel XIX secolo). La nascita del movimento femminista vero e proprio tuttavia si fa risalire in genere alla prima Women’s Rights Convention a Seneca Falls, New York, nel luglio 1848.

Tutto nacque da un’iniziativa di Lucrezia Mott, una predicatrice quacchera e attivista sociale, Martha Wright (sorella della Mott), Mary Ann McClintock, Jane Hunt e Elizabeth Cady Stanton, moglie di un abolizionista e unica non-quacchera del gruppo. La conferenza fu programmata con un preavviso di cinque giorni e pubblicizzata solo da un breve annuncio su un giornale locale.

Sebbene Seneca Falls fosse stata seguita da altre conferenze sui diritti delle donne in altri stati, l’interesse suscitato da quei primi momenti di organizzazione svanì rapidamente. Negli Stati Uniti stava per divampare la guerra civile, mentre in Europa il riformismo degli anni ’40 del secolo scorso lasciava il posto alla repressione della fine degli anni ’50. Dopo la guerra civile, le femministe americane speravano che il suffragio femminile sarebbe stato incluso nel Quindicesimo emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti, che proibiva la discriminazione sulla base della razza. Invece, anche i principali abolizionisti della schiavitù si rifiutavano di sostenere tale inclusione. Questo spinse la Stanton e Susan B. Anthony, a formare l’Associazione nazionale per il suffragio femminile, nel 1869. La Stanton usò la Dichiarazione di Indipendenza come guida per proclamare che “tutti gli uomini e le donne sono stati creati uguali”; redasse 11 risoluzioni, compresa la richiesta più radicale: il diritto al voto. Inizialmente dunque l’unica richiesta femminista americana era il diritto al voto, sul principio illuminista della legge naturale, invocando il concetto dei diritti umani inalienabili concessi a tutti gli americani con la Dichiarazione di Indipendenza.

La passione americana per principi come quello dell’uguaglianza tuttavia fu smorzata da un’ondata di immigrazione proveniente dall’Europa e dalla crescita delle baraccopoli urbane. Le suffragette a quel punto, prendendo atto di questo cambiamento di atteggiamento, iniziarono a fare appello per il voto basandosi  non più sul principio di giustizia, o sull’umanità comune di uomini e donne, ma su basi razziste e nativiste.

Già nel 1894, Carrie Chapman Catt dichiarò che i voti delle donne alfabetizzate e borghesi avrebbero bilanciato i voti degli stranieri. Questa inclinazione elitaria allargò il divario tra le femministe e le masse di donne americane che vivevano in quelle baraccopoli, o parlavano con accenti stranieri. Di conseguenza, le donne della classe operaia, preoccupate per gli stipendi e il lavoro, parteciparono più al movimento sindacale che a quello femminista.

Emma Goldman, anarchica e femminista, pensava che il diritto al voto fosse una battaglia secondaria per le donne. Quello che contava era “rifiutare il diritto a chiunque di agire sul tuo corpo … Rifiutare di essere un servitore di Dio, dello stato, della società, del marito, della famiglia, ecc., rendendo la propria vita più semplice ma più profonda e ricca.” Allo stesso modo, Charlotte Perkins Gilman, in Women and Economics (1898),  insisteva sul fatto che le donne non sarebbero state liberate fino a quando non si fossero liberate della “mitologia domestica” della casa e della famiglia, che le manteneva dipendenti dagli uomini.

Il primo diritto rivendicato dalle donne italiane fu invece quello dell’istruzione. Non sarebbe mai stato possibile infatti uscire dalle mura domestiche, trovare un lavoro esterno, accedere ai diritti politici e di cittadinanza, se le donne non avessero avuto accesso alla scuola pubblica. Pioniere del movimento per i diritti della donna in Italia furono, tra le altre, Cristina Trivulzio principessa di Belgiojoso, Matilde Calandrini, Emilia Peruzzi, Alessandrina Ravizza, Laura Mantegazza, Clara Maffei, Anna Maria Mozzoni, Sibilla Aleramo ed Anna Kuliscioff. Bianca Milesi, dopo aver studiato in Austria e in Svizzera, provò a diffondere anche in Italia la creazione di scuole popolari di mutuo insegnamento, dando vita anche ad una sezione femminile della carboneria per la diffusione delle idee mazziniane. Le femministe italiane di fine secolo erano perlopiù donne senza figli, animate da ideali romantici e populisti, vicine agli ambienti socialisti e anarchici.

Per la cronaca, il tanto auspicato diritto al voto fu concesso per la prima volta in Nuova Zelanda, nel 1893. In Europa a votare per prime furono le donne finlandesi: grazie ad una Legge del 1906 esse divennero ufficialmente eleggibili ed elettrici. Nelle altre parti d’Europa il diritto di voto per le donne fu ottenuto solo dopo la prima guerra mondiale, fra il 1918 ed il 1919, anche come riconoscimento del loro valore, per essere rimaste a presidiare i luoghi di lavoro e le loro famiglie, mentre i mariti erano in guerra e per essersi prestate come crocerossine nei campi di battaglia. Le francesi e le italiane dovettero attendere la fine della seconda guerra mondiale per ottenere il diritto di voto. La relativa legge italiana è infatti del 1946.

XX Secolo

Ancora agli inizi del XX secolo, le donne non potevano né votare né esercitare incarichi elettivi in ​​Europa e nella maggior parte degli Stati Uniti. Alle donne era impedito di condurre affari senza un rappresentante maschile (poteva essere il fratello, il padre, il marito, o anche un figlio).  Le donne sposate non potevano esercitare il controllo sui propri figli senza il permesso dei loro mariti. Inoltre, le donne avevano scarso accesso all’istruzione ed erano escluse dalla maggior parte delle professioni. In alcune parti del mondo, tali restrizioni sulle donne continuano ancora oggi.

Alice Paul riaccese il movimento per il suffragio delle donne negli Stati Uniti copiando le attiviste inglesi, guidate dalla National Union of Woman Suffrage Societies, le quali avevano inizialmente affrontato la loro lotta in modo educato, con un lobbismo “da signora”. Nel 1903 tuttavia una fazione dissidente, guidata da Emmeline Pankhurst iniziò una serie di boicottaggi, attentati  e picchetti. La loro tattica incendiò la nazione e nel 1918 il Parlamento britannico estese il voto alle donne titolari di una casa, alle mogli di capofamiglia e alle donne laureate che avevano compiuto 30 anni.

Nel 1920 anche il femminismo americano rivendicò il suo primo grande trionfo con l’approvazione del Diciannovesimo Emendamento della Costituzione.

Una volta raggiunto l’obiettivo cruciale del suffragio tuttavia, il movimento femminista praticamente crollò in Europa e negli Stati Uniti. Mancando un’ideologia, al di là del raggiungimento del voto, il femminismo si divise in una decina di gruppi frammentati, che lottavano chi per l’educazione e l’assistenza alla salute materna e infantile, chi per la protezione delle donne sul lavoro, ecc. Ognuno di questi gruppi offriva un contributo sul piano dei diritti sociali, ma nessuno era specificamente di natura femminista.

Suzanne LaFollette, una femminista radicale, affermò imprudentemente, nel 1926, che gli obiettivi delle donne erano stati “largamente conquistati”. Prima che qualsiasi errore in quella dichiarazione potesse essere discusso, gli Stati Uniti e il mondo precipitarono nella Grande Depressione. Successivamente, la seconda guerra mondiale cancellò completamente l’attivismo femminista, in qualsiasi continente.

La guerra aprì opportunità lavorative per le donne, visto che gli uomini erano impegnati nella guerra. Dopo la guerra tuttavia, gli uomini ripresero il loro posto in fabbrica e le donne tornarono nelle case. Niente però poteva ormai essere come prima.

Nel 1949 uscì il libro Il secondo sesso di Simone de Beauvoir nel quale l’autrice faceva una lucida analisi della condizione femminile. La de Beauvoir affermava che conoscere se stessa era, per una donna, un percorso veramente difficile: tutte le identità che le venivano proposte dalla cultura ufficiale infatti erano identità alienanti, che la mortificavano, che registravano il suo stato di assenza culturale, di minorità sociale. La donna doveva rifiutare di essere l’Altro dell’identità maschile e pagare il prezzo che questa scelta comportava. Nella storia della specie umana, diceva ancora la Beauvoir, la preminenza era stata accordata non al sesso capace di generare, ma al sesso che uccide, e su questi valori si era costituita qualsiasi civiltà. Di fronte a questa situazione, la donna non aveva mai opposto dei “valori femminili”, limitandosi a modificare la propria posizione in seno alla coppia e alla famiglia. La donna, diceva l’intellettuale francese, doveva finalmente cercare la strada per la sua libertà: alla donna , e solo a lei, spettava finalmente di decidere che cos’è veramente una donna.

Nel 1960 la percentuale delle donne che lavoravano fuori casa era ancora inferiore, rispetto alle cifre del 1930.

Il movimento femminile degli anni ’60 e ’70 costituì la cosiddetta “seconda ondata” del femminismo: in questa le donne si batterono per la conquista dei diritti civili.

In America John Kennedy, nel 1961, creò la President’s Commission on the Status of Women e nominò Eleanor Roosevelt a guidarla. Il suo rapporto, pubblicato nel 1963, sosteneva fermamente la famiglia nucleare e preparava le donne alla maternità, ma documentava anche uno stato di discriminazione sul lavoro, la disparità salariale e legale, gli scarsi mezzi di sostegno alle donne lavoratrici.

La nuova scintilla femminista risale al 1963 con l’uscita, negli Stati Uniti, del libro di Betty Friedan, Mistica della femminilità, nel quale l’autrice denunciava il ruolo coatto di “sposa” e “madre” della donna americana, e rivendicava l’uguaglianza della donna all’uomo nel campo professionale, culturale e politico.

Nel 1966 la Friedan, insieme ad Aileen Hernandez e Pauli Murray, fondò il “National Organization for Women” (NOW) rivendicando i diritti civili delle donne. Le lotte riguardavano il diritto di contraccezione e di aborto e l’uguaglianza all’interno della coppia. Un altro libro fondamentale per le lotte femministe fu La politica del sesso, di Kate Millet (1969). «Il privato è politico» affermavano le femministe, invitando le donne ad affrancarsi dai rapporti di potere che il patriarcato rappresentava, attraverso un atavico sistema di oppressione sulle donne. « Lavoratori di tutto il mondo, chi vi lava i calzini? » scandivano per le strade di Parigi le manifestanti negli anni settanta.

Shulamith Firestone, una delle fondatrici delle gruppo di femministe radicali di New York, pubblicò la Dialettica dei sessi, insistendo sui legami malati che molte donne stringevano con uomini che erano poi anche i loro oppressori.  Germaine Greer, una australiana che viveva a Londra, pubblicò L’Eunuco Femmina, in cui sosteneva che la repressione sessuale delle donne le separava dall’energia creativa di cui esse avevano bisogno per essere indipendenti e auto-realizzate.

A differenza della prima ondata, che puntava solo al diritto di voto, il femminismo della seconda ondata provocò un’ampia discussione teorica sulle origini dell’oppressione delle donne, sulla natura del genere e sul ruolo della famiglia.

Il femminismo divenne a questo punto un mare di vortici e correnti fra loro in competizione: l’unica cosa comune era la guida del movimento, affidato soprattutto a donne bianche della classe media, istruite, che avevano adattato le lotte femministe alla loro concezione della vita e alle loro esperienze. Questo aveva creato un rapporto ambivalente, se non controverso, con donne di altre classi sociali e etnie.

In America le donne di colore non si riconoscevano nel movimento: esse dovevano confrontarsi, oltre che sulle questioni di genere, anche sul razzismo (anche da parte delle donne bianche).  Tali questioni sono state affrontate da femministe nere tra cui Michele Wallace, Mary Ann Weathers,  Alice Walker e Bettina Aptheker.

L’appello delle femministe bianche per l’unità e la solidarietà era basato sulla loro convinzione che le donne costituissero una classe o una casta di genere che era caratterizzata dall’oppressione comune. Molte donne di colore tuttavia avevano difficoltà a vedere le donne bianche come loro sorelle femministe; agli occhi di molte afroamericane, dopo tutto, le donne bianche erano simili ai loro mariti, nell’opprimere le persone non bianche. “Quanto sono rilevanti le verità, le esperienze, i risultati delle donne bianche rispetto alle donne nere?”, si chiedeva Toni Cade Bambara in The Black Woman: An Anthology (1970). Le femministe nere pensavano che le femministe bianche fossero incapaci di comprendere le loro preoccupazioni.

Durante la prima conferenza della National Black Feminist Organization, tenutasi a New York City nel 1973
le attiviste di colore riconobbero che molti degli obiettivi centrali per il movimento femminista erano fondamentali anche per loro: aborto, congedo di maternità, violenza domestica. Su questioni specifiche, quindi, le femministe afroamericane e le femministe bianche potevano costruire un rapporto di lavoro efficace. Su questa base è nata la terza ondata del femminismo.

La parità fra i sessi, che era già contemplata nella Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, fu riaffermata nel 1979 dalla Convenzione internazionale per l’abolizione di tutte le forme di discriminazione contro le donne. I figli dovevano venire al mondo solo quando erano desiderati, le donne dovevano entrare nelle istituzioni e discutere insieme agli uomini le decisioni da prendere per guidare la società, composta da uomini e donne. Nel 1975 le Nazioni Unite dichiararono quello «l’anno della donna» ed organizzarono in Messico la prima conferenza mondiale dedicata al problema femminile.

In Italia, grazie alle lotte femministe, negli anni Settanta venne istituito il divorzio (1970), fu modificato il diritto di famiglia (1975), furono istituiti i consultori familiari, promulgata la legge sulle pari opportunità, liberata la vendita e il consumo di contraccettivi, approvata la legge che regola l’aborto (1978), costituiti i Centri antiviolenza e le Case delle donne, per accogliere le donne maltrattate.

Alla fine del XX secolo, le femministe europee e americane iniziarono a interagire con i nascenti movimenti femministi di Asia, Africa e America Latina. Le donne dei paesi sviluppati, in particolare le intellettuali, inorridirono nello scoprire che le donne in alcuni paesi dovevano indossare il velo in pubblico o sopportare matrimoni forzati, infanticidi femminili,  o mutilazioni genitali. Molte femministe occidentali ben presto si percepirono come una sorta di salvatrici per le donne del Terzo Mondo, non rendendosi conto che le loro percezioni e soluzioni ai problemi sociali erano spesso in contrasto con le preoccupazioni reali delle donne che vivevano in queste regioni. In molte parti dell’Africa, ad esempio, l’idea che il patriarcato fosse il problema principale – e non  l’imperialismo europeo – sembrava assurdo.

Durante la Conferenza internazionale sulla popolazione e lo sviluppo del 1994, al Cairo, le donne del terzo mondo protestarono perché credevano che l’ordine del giorno fosse stato modificato dalle donne europee e americane. Le manifestanti si aspettavano di parlare dei modi in cui il sottosviluppo opprimeva le donne. Invece, le organizzatrici della conferenza avevano scelto di concentrarsi sulla contraccezione e sull’aborto.
Le donne del terzo mondo sostenevano che non potevano preoccuparsi di altre questioni, quando i loro figli morivano di sete, fame o guerra. La conferenza si era invece incentrata sulla riduzione del numero dei neonati del Terzo Mondo, al fine di preservare le risorse della terra, nonostante fosse chiaro che a consumare queste risorse fosse il Primo, non il Terzo mondo. A Pechino, alla Quarta Conferenza mondiale sulle donne del 1995, le donne del Terzo Mondo criticarono nuovamente le priorità delle donne americane ed europee nel parlare dei diritti riproduttivi e delle discriminazioni sulla base dell’orientamento sessuale e del loro disinteresse per la proposta di piattaforma più importante per le nazioni meno sviluppate, cioè quella della ristrutturazione del debito internazionale.

Negli anni Ottanta e Novanta il femminismo, come movimento, si è praticamente spento, per riaccendersi in questo ultimo anno, in seguito alla nascita del movimento #MeToo, che lotta contro le molestie sessuali. Tutto è nato da un articolo pubblicato sul New York Times, il 5 Ottobre del 2017, nel quale numerose attrici denunciavano le sgradite avances sessuali di Harvey Weinstein, un famoso produttore di Hollywood. Il resto è cronaca.

Giuliana Proietti

Fonte principale:
Enciclopedia Britannica

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