Il significato del lavoro, quando c’è e quando non c’è

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Lavoro: leggo che per ben 6 italiani su 10 la vera emergenza nazionale non sono le tasse, ma il lavoro.

Il dato non stupisce, visto che il lavoro è alla base di una molteplicità di cose: consente la sussistenza primaria, permette decenti condizioni di vita, soddisfa il desiderio di acquistare beni voluttuari, o di concedersi piaceri vari e svaghi… Perché no, il denaro permette anche di pagare le tasse, per avere intorno a sé un sistema di protezione sociale che si interessa dei cittadini e che li soccorre nei momenti di difficoltà, migliorando la qualità della loro vita.

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Il lavoro, a livello personale, rappresenta comunque qualcosa di ancor più importante di tutto ciò. Per l’essere umano il lavoro è un istinto, una pulsione, un bisogno, quasi come il mangiare, il bere, il fare l’amore. Vivendo in gruppo, ciascuno è portato ad esercitare le proprie capacità, le proprie competenze, al fine di raggiungere qualcosa di apprezzabile, a livello personale, ma soprattutto sociale.

L’apprezzamento sociale è infatti fondamentale, perché è in gran parte attraverso di esso che la persona costruisce la sua autostima (se non tenesse conto del giudizio degli altri, ma solo delle sue autovalutazioni, saremmo infatti di fronte ad una sorta di delirio). Cosa è, se non il lavoro, ciò che ci lega alla realtà, che ci dà il senso dell’ identità personale (“sono un insegnante, un fabbro, un medico”, ecc.), che conferisce valore alle nostre capacità, alla nostra appartenenza sociale? E’ per questo che, in una parola, il lavoro dà la dignità. Sentirsi capaci di fare qualcosa che gli altri apprezzano riempe di significato la propria vita, permette alla persona di avere considerazione di sé e induce a mettere in atto dei comportamenti responsabili, misurati, equilibrati.

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Il lavoratore, in forza della sua appartenenza sociale e del reddito che gli procura il lavoro, può fare progetti, programmi per il futuro, che gli permettono perfino di superare il peso delle eventuali contingenze sfavorevoli che talvolta si trova ad attraversare, perché attraverso il lavoro può sperare di migliorare le proprie competenze, approfondire e allargare la sua rete di supporto sociale e magari aspirare ad un cambiamento del lavoro stesso (ad esempio mettendosi in proprio, trovando un lavoro meglio retribuito, ottenendo un avanzamento di carriera, o un miglioramento della vita, per il fatto di poter lavorare più vicino alla propria abitazione, o di potersi dedicare, lavorando, ai propri interessi).

E’ il lavoro dunque che ci permette di diventare chi siamo, che contribuisce a migliorare la nostra vita e, quando il lavoro che svolgiamo ci piace, il che accade molto più frequentemente di quanto non si pensi, esso diventa anche una delle componenti più importanti della nostra felicità. Ricordo lo psicologo umanista Maslow, quando diceva:

“Un musicista deve fare musica, un artista deve dipingere, un poeta deve scrivere, se vuole essere in pace con sé stesso. Ciò che un uomo può essere, deve essere. Deve essere fedele alla propria natura. Questa necessità si può chiamare l’auto-realizzazione”.

Erich Fromm (“I cosiddetti sani, Mondadori, 1996) diceva che il lavoro è il grande emancipatore dell’uomo. Secondo lo psicoanalista e sociologo tedesco, la storia dell’umanità inizia solo nel momento in cui l’uomo comincia a lavorare, poiché è solo allora che egli si separa dall’originaria unità con la natura. In questo processo di separazione e di manipolazione della natura, l’uomo modifica anche sé stesso: anziché essere parte della natura, egli ne diventa sempre più il creatore, sviluppando facoltà intellettuali e artistiche, e cominciando ad esercitare il proprio potere sulla natura. In questo processo l’essere umano si trasforma in un individuo.

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Per tutto questo, secondo Fromm, l’evoluzione umana deve considerarsi fondata sul lavoro, in quanto forza liberatrice, emancipatrice, di incentivo allo sviluppo. Il successo nel lavoro consente infatti uno stato di grazia e sancisce la propria appartenenza alla schiera degli “eletti”.

Certamente Fromm, con queste parole, si riferisce al lavoro di soggetti appartenenti ai ceti più elevati, in quanto chi svolge lavori umili e scarsamente qualificati, in tutte le epoche della storia, ha sempre sentito il lavoro soprattutto come un dovere, una inevitabile fatica, per consentire la sopravvivenza a sé stesso e ai propri cari.

Il lavoro ha perso questa connotazione di schiavitù quando si sono fatte, all’inizio del secolo scorso, le prime fondamentali riforme: a partire dal principio secondo il quale deve esistere un tempo di lavoro e un tempo di riposo per il lavoratore, in modo che egli/ella possa ricaricare le sue energie (lavoro di massimo 8 ore al giorno, riposi settimanali, ferie).

Tutto questo ha contribuito a far superare l’idea che il lavoro fosse solo una fonte di privazione (sebbene in alcune parti di Italia, come ad esempio nella zona dove vivo, nelle Marche, sia ancora diffusa l’espressione “vado a faticare”, anziché “a lavorare”, sottolineando il legame fra lavoro e sforzo; il lavoro che procura stanchezza, spossatezza, calo delle capacità psicofisiche di resistenza). Eppure il lavoro non è solo sforzo fisico o intellettuale: è anche un modo per sviluppare le proprie capacità cognitive, è un modo per diventare una persona migliore, per conoscere sé stessi, per sviluppare i propri punti di forza.

Un altra cosa cui non si pensa spesso è che il lavoro è ciò che occupa, più di ogni altra cosa, le nostre giornate, i nostri pensieri, la nostra creatività ed è dunque un impegno che ci tiene lontani dai pensieri più distruttivi, dalle paure, dalle angosce: esso, dimostrandoci la nostra esistenza, la nostra capacità e utilità sociale, ci permette di essere più forti e di superare molte delle nostre paure, fra cui quella della morte. Che cosa infatti, oltre il lavoro, è capace di trascendere la propria morte e lasciare tracce della propria esistenza in vita?

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Recentemente, un parroco mi chiedeva cosa dire di una persona di cui si apprestava a pronunciare l’orazione funebre, ma di cui non sapeva nulla, in quanto era ateo e non frequentava la chiesa. La prima cosa che mi è venuta in mente di suggerirgli, da collegare al suo discorso religioso, è stato proprio questo: ricordare quello che quella persona lasciava di sé stesso (che sarebbe scomparso anche fisicamente, visto che voleva essere cremato): il suo lavoro. Faceva infatti il fabbro ed aveva iniziato a lavorare giovanissimo. La nostra città era piena dei suoi lavori: le sue cancellate, le sue inferriate, i corrimani, le grondaie, tutti oggetti che gli sarebbero sopravvissuti a testimonianza del suo ingegno, delle sue capacità. Fu bello sentire poi in chiesa quelle parole e riconoscere che furono utili ad alleviare il dolore di quella “scomparsa”.

Dopo tutto quello che si detto, è facile capire come possa sentirsi una persona che il lavoro non riesce a trovarlo, così come i vissuti di chi l’ha perduto, oltre tutto in un contesto, come in questa lunghissima crisi internazionale, in cui non sembrano esserci prospettive e ci si sente nel buio asfissiante di un tunnel senza uscita.

Questa mancanza di possibilità anche solo di concepire la speranza fece teorizzare qualche tempo fa a due studiosi (Abramson, Lyn Y.; Metalsky, Gerald I.; Alloy, Lauren B., 1989) l’esistenza di una particolare sindrome, la Hopelessness Depression, una depressione profonda di chi ritiene di non essere in grado di far nulla per modificare la sua situazione, non pensa che gli eventi desiderati possano verificarsi, mentre è certo che gli eventi considerati più negativi si presenteranno e che non vi sarà alcun modo per evitarli. Il termine “hopeless” in inglese significa proprio questo: “mancanza di speranza”. Non stupiscono i sintomi osservati: aspettative negative riguardo al futuro, mancanza di energie, apatia, rallentamento psicomotorio, mancanza di motivazione ad agire, disturbi del sonno, difficoltà di concentrazione, bassa autostima, tendenza alla dipendenza, ideazione suicidaria e tentativi di suicidio.

Ecco allora perché è importante, in questo periodo di crisi, che non solo si creino tutti i posti di lavoro possibili, ma anche che si riesca ad accendere delle speranze, che si percepisca l’impegno comune, dei ricchi e dei meno ricchi, dei potenti e dei meno potenti, dei lavoratori del braccio e di quelli che lavorano con la mente, per uscire da questo oscuro e soffocante tunnel. Più l’impegno sarà profondo e collettivo, più si potrà fare in fretta, perché sappiamo che nulla è eterno, su questo pianeta: non lo è l’aria, non lo è l’acqua, non lo è la vita degli organismi… Sicuramente non lo sarà una crisi economica.

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Questo periodo dunque, prima o poi, passerà: tutto quello che possono fare le persone, oltre che cercare in tutti i modi di sopravvivere, è quello di stare bene attente a non perdere le proprie abilità ed il proprio ingegno. In questo periodo di forzato riposo, occorre non stare fermi: impegnarsi per continuare a migliorarsi, acquisendo nuove capacità e competenze, approfondendo quelle che già si possiedono, curandole al meglio, per mantenerle salde e vive. Ciò è importante non solo perché, dopo la crisi, grazie al lavoro e a tutte le sue varie implicazioni, il tempo e la qualità della vita tornino ad essere accettabili, ma anche perché il presente non perda di significati, visto che questa, crisi o non crisi, è l’unica vita abbiamo da vivere.

Dr. Giuliana Proietti

Dr. Giuliana Proietti

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Immagine:
Pixabay

Pubblicato anche su Huffington Post


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