La felicità per tutti è possibile?

La felicità per tutti è possibile?

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Terapie Online Dr. Giuliana Proietti

La psicologia positiva è una disciplina che si occupa di studiare scientificamente il funzionamento umano, perché raggiunga il massimo delle sue potenzialità (Sheldon et. al. 2000). La felicitanon è solo un aspetto del “funzionamento ottimale dell’essere umano”, ma  è essa stessa un fattore determinante per creare le condizioni di tale funzionamento, dato che la felicità “allarga” il nostro repertorio comportamentale e “costruisce” le nostre risorse (Fredrickson 2004).

Molte ricerche condotte nel campo della psicologia positiva mirano a comprendere perché alcune persone siano più felici di altre e tentano di trovare il modo per rendere le persone più felici.

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Gli illuministi contestavano l’idea religiosa per cui la felicità poteva esistere solo nella vita ultraterrena e ritenevano che la felicità poteva trovarsi anche nella vita terrena, perché non dipendeva solo da leggi divine, dal momento che gli uomini avevano modo di intervenire attraverso le leggi, per regolare e migliorare le condizioni di vita della propria specie.

Gran parte di questo pensiero è stato espresso in un famoso libro di Jeremy Bentham (1789) On Morals and Legislation, nel quale l’autore sosteneva che le azioni buone o malvagie dovrebbero essere ritenute tali in base agli effetti che esse producono sulla felicità umana. Da questo punto di vista, la scelta migliore da farsi  è sempre quella che determina la “più grande felicità, per il maggior numero di persone“. Questo credo morale è stato chiamato “il principio della massima felicità.”

Questa ideologia laica incontrò inizialmente molta resistenza, soprattutto da parte delle chiese, ma a questo credo si opposero successivamente anche i movimenti di emancipazione liberale e socialista, che erano più interessati alla libertà il primo e all’uguaglianza sociale il secondo, piuttosto che alla felicità. Per molto tempo inoltre si è creduto che la felicità non facesse parte della condizione umana e che cercare di perseguirla avrebbe contribuito solo a peggiorare la situazione.

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Autori: Dr. Giuliana Proietti - Dr. Walter La Gatta
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La parola “felicità” ha significati diversi, ma nel campo della psicologia positiva essa viene intesa come sinonimo di “benessere” o “qualità della vita“.

Il concetto di qualità della vita, come discusso più in dettaglio nello studio di Veenhoven (2000), dovrebbe essere distinto in due parti: la prima distinzione  va fatta fra probabilità e risultati, cioè considerando la differenza tra le opportunità possibili per una buona vita e la vita stessa. Una seconda differenza è tra la qualità esterna ed interna della vita: nel primo caso la vita di qualità riguarda l’ambiente, nel secondo riguarda più da vicino l’individuo.

La combinazione di questi due dicotomie produce una tabella a doppia entrata in cui è possibile delineare 4 Qualita’ della vita:

Qualita’ esterne Qualita’ interne
Possibilita’ della vita Vivibilita’ nell’ambiente Capacita’ di vivere
Risultati reali ottenibili Utilita’ della vita Soddisfazione

 

La vivibilità nell’ambiente indica le buone condizioni di vita esterne a sé : gli ecologisti potrebbero individuare queste caratteristiche di vivibilità ottimale in un ambiente naturale preservato e vedere il suo contrario nell’inquinamento, nel riscaldamento globale, nel degrado della natura. Gli urbanisti potrebbero individuare la migliore vivibilità all’ambiente cittadino, nel quale funzionino ottimi sistemi che regolano le fognature, il traffico, le periferie urbane. Dal punto di vista sociologico, la vivibilità potrebbe essere associata con la qualità della società nel suo insieme, o anche con la posizione che si ha nella società.

La vivibilità  è una condizione essenziale per la felicità ma, come è evidente, non tutte le condizioni ambientali favorevoli consentono il raggiungimento della felicità individuale.

Quanto alle capacità della persona di far fronte ai problemi della vita (capacita’ di vivere), si può dire che questa capacità si basa anzitutto sul concetto di salute, intesa non come assenza di malattia, ma come eccellenza della funzione, data da energia e resilienza (in psicologia la resilienza è la capacità di affrontare le avversità della vita, di superarle e di uscirne rinforzati e addirittura trasformati positivamente).


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Un ulteriore passo in avanto è quello di valutare la capacità di vivere in una prospettiva di sviluppo, includendovi anche le nuove competenze che si acquisiscono con il trascorrere degli anni. Questo è comunemente indicato con il termine “auto-realizzazione“. Dal momento che difficilmente le abilità della vita si sviluppano nell’ozio, questo concetto è assimilabile alle “attività” umane, secondo il concetto aristotelico di eudemonia (termine che indica il senso della felicità come scopo ultimo della vita e dell’esistenza umana).

La capacità di affrontare i problemi della vita è un fattore che contribuisce alla felicità: le persone che sanno vivere hanno maggiori probabilità di raggiungere la felicità, ma va anche detto che possedere doti per affrontare al meglio i problemi della vita non garantisce purtroppo un risultato sicuro in termini di felicita’.

Il quadrante in basso a sinistra rappresenta l’idea che una buona vita dovrebbe avere a che fare con aspetti “trascendentali” così come avviene nella ricerca del “senso della vita“, oppure ricercare una “verità” che si contrapponga alle sensazioni soggettive di significato esistenziale. Parliamo qui, ad esempio, di ciò che possiamo fare per migliorare la qualità della vita di altre persone, o nel crescere al meglio i  nostri figli. Un altro aspetto potrebbe essere  il contributo che possiamo dare con la nostra esperienza di vita alla civiltà umana, come quando produciamo invenzioni o comportamenti etici.

Condurre una vita oggettivamente “utile” può contribuire alla valutazione positiva della propria vita, anche se non sempre è così.

Infine, il quadrante basso a destra rappresenta gli esiti interiori di una buona qualità della vita. Questi sono comunemente indicati con termini quali “benessere soggettivo”, “soddisfazione di vita” o “senso soggettivo di  felicità”.

Anche quando ci si concentra sulla soddisfazione soggettiva di vita però, sulla felicità individuale, ci sono ancora diversi significati che possono essere associati al termine felicità. Anche questi significati possono essere inseriti in una tabella a doppia entrata. In questo caso, tale classificazione si basa sulle seguenti dicotomie: aspetti della vita contro la vita-come-tutto, e gioie che passano contro soddisfazioni durevoli.

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Quattro tipi di soddisfazioni:

Passeggeri Durevoli
Momenti della vita
Piaceri Soddisfazioni per qualcosa
Vita complessiva
Esperienze di picco Soddisfazione per la vita (Felicità)

 

Il quadrante in alto a sinistra rappresenta alcuni piaceri della vita, come la gioia di una tazza di caffè a colazione, la soddisfazione per un lavoro ben svolto,  il godimento di un’opera d’arte. Anche se questi piaceri fuggevoli contribuiscono a creare un apprezzamento positivo per la vita in senso complessivo, ma essi non sono tutto.

Il quadrante in alto a destra indica l’apprezzamento per gli aspetti durevoli della vita, come la soddisfazione nel matrimonio e la soddisfazione sul lavoro. Si tratta di soddisfazioni che, se anche dipendono da un flusso continuo di piaceri temporanei, hanno di per sè una loro continuità. Per esempio, si può continuare a sentirsi soddisfatti del proprio matrimonio, anche se non si è stati in compagnia del partner per un certo tempo. Questo genere di piaceri e di soddisfazioni in genere rappresentano quella che viene chiamata felicità, anche se tutti sappiamo che avere una buona relazione di coppia o un bel lavoro non bastano per evitare che una persona si ammali di depressione. È possibile che una persona possa godere di tutti i piaceri e le soddisfazioni che abbiamo elencato, ma sentirsi ugualmente infelice.

Il quadrante in basso a sinistra è quello relativo alle esperienze di picco, che coinvolgono sensazioni di breve durata, ma molto intense e che riguardano tutta la vita: è di queste esperienze che parlano i poeti. In ogni caso, anche le esperienze di picco, seppure intense, non producono la felicità, ma anzi in alcuni casi hanno effetti che inducono disorientamento (Diener et al, 1991).

Infine, il quadrante in basso a destra rappresenta la combinazione di soddisfazione duratura con la vita complessiva. Questo potrebbe essere sinonimo di “soddisfazione per la vita” ed è simile a ciò che intendeva Jeremy Bentham con il suo “principio di massima felicità”.

Potremmo dunque definire la felicita’ come il grado in cui una persona giudica la qualità complessiva della sua vita in modo favorevole. (Veenhoven, 1984).

Martin Seligman (2002) invece usa la parola felicità in senso più ampio. Nella sua “felicità autentica “, egli distingue tra: la vita impegnata, la vita piena di significato e la vita piacevole. La sua nozione di “vita impegnata” appartiene al quadrante in alto a destra del primo schema, e la sua nozione di “vita piena di senso” si inserisce nel quadrante in basso a sinistra. La sua nozione di “vita piacevole” appartiene al quadrante in basso a destra.

Un’altra distinzione comune nella psicologia positiva è tra la felicità eudaimonica e la felicità edonistica (Ryan & Deci 2001). La nozione di felicità “eudaimonica” riguarda l’uso e lo sviluppo delle capacità umane e come tale appartiene al quadrante in alto a destra del primo schema. La nozione di “felicità edonistica” appartiene invece al quadrante in basso a destra del primo schema. Quando ridotta a semplice “piacere”, la nozione di “felicità edonistica” appartiene al quadrante in alto a sinistra dello schema 2.

Molti filosofi in passato hanno sostenuto che la felicità duratura non è possibile nella condizione umana: ad esempio Schopenhauer (1851), sostenne che, nella migliore delle ipotesi, possiamo provare a ridurre la naturale sofferenza umana. Freud stesso vedeva anche lui ben poche possibilità di felicità nella società moderna, che richiede l’inibizione degli stimoli primitivi. Altri scienziati sociali ritengono che la felicità dipenda dal confronto, o dalle sue oscillazioni intorno a un livello neutro (ad esempio Unger 1970, Brickman e Campbell 1971).

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I sociologi tentano oggi di misurare la felicità attraverso domande sulla soddisfazione di vita e applicano  tali domande a studi condotti su larga scala nella popolazione generale ed i risultati della ricerca non vanno nella direzione di queste teorie pessimistiche. La maggior parte delle persone infatti risultano felici (Diener & Diener 1996). Ciò appare dalle loro risposte alla domanda: “Tutto considerato, quanto sei soddisfatto della tua vita nel suo complesso al giorno d’oggi? Si prega di indicare in un numero da 0 a 10, dove 0 è ‘estremamente insoddisfatta’ e 10 ‘estremamente soddisfatto‘. “Le risposte a questa domanda nel Regno Unito sono le seguenti: più del 40% delle persone ha indicato con 7 o più la qualità della propria vita e meno del 20% ha usato il valore 5 o inferiore. Studi che hanno utilizzato domande leggermente diverse hanno dato risultati simili. Il voto che mediamente gli inglesi danno alla propria vita è  7,2 (Guarda dati italiani ISTAT).

Attualmente la felicità media varia tra 8,4 (Danimarca) e 3,3 (Zimbabwe),  con il 7,0 degli Stati Uniti.

La felicità media appare molto più bassa nelle nazioni in via di sviluppo, e in particolare in Africa, in Paesi come come lo Zimbabwe. Sebbene ci manchino dei dati completi, la media mondiale attualmente si colloca tra 5 e 6 su una scala da 0 a 10 punti. Questo non dimostra che vi sia nel mondo una grande felicità, ma i casi di Danimarca e Svizzera, indicano che una grande felicità potrebbe essere possibile.

In genere, l’essere umano si sente felice quando soddisfa i bisogni primari e infelice quando questa soddisfazione viene ostacolata (Veenhoven 2009). La domanda da farsi a questo punto è: possiamo essere più felici ? Alcuni psicologi sostengono che la felicità è in gran parte innata, o è un tratto di personalità stabile. Quindi, da questo punto di vista, l’istruzione per essere più felici non migliorererebbe la felicità percepita, così come il progresso sociale. Questo punto di vista è conosciuto come la teoria del “set-point” (ad esempio, Lykken 1999). Alcuni sociologi traggono la stessa conclusione poiché pensano che la felicità dipenda dal confronto sociale: da questo punto di vista non ci si sente più felici dei propri vicini, se le condizioni migliorano per tutti… In tal senso, il caso degli Stati Uniti viene spesso citato come un esempio: visto che la ricchezza materiale si è raddoppiata dagli anni Cinquanta, perché la felicità media sembra essere rimasta allo stesso livello di un tempo? (ad esempio, Easterlin 1995).

Esiste una chiara relazione tra la felicità media e la qualità della vita sociale. Si pensi al caso dello Zimbabwe, che ha totalizzato un punteggio di 3,3. Evidentemente non si vive bene  in uno stato sottosviluppato, anche se tutti vivono nella medesima condizione.

La felicità media è in realtà cambiata nella maggior parte delle nazioni, e in genere verso il meglio (Veenhoven & Hagerty, 2006). In Danimarca negli ultimi 30 anni vi è stato un enorme aumento di felicità percepita (media di 8,2), così come vi è stato un drammatico calo di felicità in Russia, dopo la crisi del rublo del 1995.  Che cosa accade in Danimarca che non è possibile realizzare in altri Paesi? Escludiamo che si tratti di patrimonio genetico o di carattere nazionale, perché il tasso di felicità della Danimarca ha cominciato a salire, a partire dal 1973.

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Oggi la felicità in Danimarca potrebbe essere vicina al livello massimo possibile: se fosse così, molta strada vi sarebbe ancora da fare per la maggior parte delle nazioni di questo mondo, dato che la media della felicità percepita nel mondo è ora inferiore a 6.

Quanto alla felicita’ soggettiva, secondo Lyubomirsky et. al (2005) il 40% delle differenze nella percezione della felicità nella società moderna sono dovute all’attività intenzionale degli individui, e solo il 10% a circostanze indipendenti dalla volontà individuale.

L’idea che una felicità più grande non sia possibile affonda le sue radici su teorie sbagliate che riguardano la natura della felicità. Una di queste teorie sbagliate è che la felicità sia solo una questione di visione della vita e che questa prospettiva si trova in tratti di personalità individuale o in una tipologia caratteriale nazionale. Un’altra teoria è che i risultati scarsi sulla felicità dipendano dal confronto sociale.

Volendo pensare di intervenire per diffondere la felicità delle persone nei vari Stati del mondo, si potrebbero incontrare alcuni ostacoli: ad esempio quello dei predicatori di penitenza che vogliono vedere soffrire le persone, al fine di purificare le loro anime peccatrici… Ma vi sono anche obiezioni da parte di scienziati che credono che la ricerca intenzionale della felicità potrebbe avere effetti deleteri. Una delle loro preoccupazioni è che la felicità di massa potrebbe essere realizzata a costo della libertà. Un altro motivo di apprensione è che le persone felici tendono a essere passive e non creative. Queste nozioni figurano nel romanzo di fantascienza di Huxley (1932), Brave New World, in cui si ottiene la felicità per tutti attraverso manipolazioni genetiche e operazioni di controllo mentale su cittadini che sono felici ma anche schiavi-consumatori.

Eppure la ricerca sulle conseguenze della felicità mostra un’altra visione delle cose. Sembra, ad esempio,  che la felicità favorisca in genere l’attività, la creatività, l’apertura mentale. Le persone felici  hanno in genere relazioni stabili e figli; essi sono più coinvolti nella vita sociale e sono più moderati nelle loro opinioni politiche (Lyubomirsky et al, 2005.). La felicità, infine, allunga la vita.

Ma vi sono anche gli effetti negativi della felicita’: essa può renderci meno sensibili ai rischi e / o alle critiche da parte di altri o magari renderci inclini ad una visione troppo rosea della vita.

La felicità individuale dipende fortemente dalla qualità della società in cui si vive, alla ricchezza della propria Nazione. Eppure il benessere materiale sembra essere soggetto alla legge dei rendimenti decrescenti, per cui la crescita economica produce più felicità solo nei paesi poveri, ma non nei Paesi già ricchi.

La felicità non deriva infatti solo dai consumi, ma anche dall’impegno in una attività produttiva. Come la maggior parte degli animali, gli esseri umani hanno un bisogno innato di usare le proprie potenzialità. La specie umana si è evoluta a partire dalla condizione di cacciatori-raccoglitori, fino ad arrivare alla moderna società industriale, che ha bisogno di competizione, per rinnovare le sfide, anche se la competizione può essere causa di gravi conflitti sociali.

La stessa riduzione delle differenze di reddito non porta alla felicità: la correlazione è vicino a zero.  Questo non vuol dire che le disparità di reddito non pregiudichino la felicità: significa però che gli effetti negativi di queste evidenti disparità di reddito non sono avvertite in mofo così negativo e che si impara a conviverci.

Allo stesso modo, i dati suggeriscono che la felicità non possa essere migliorata dal welfare state. A prima vista vi è una certa correlazione tra le spese per la sicurezza sociale e la felicità dei cittadini di alcune nazioni ma, a titolo di esempio, seppure la felicità percepita sia piuttosto elevata in Svezia, che è peraltro nota per il suo esteso welfare state, va detto che la Svezia ottiene, in termini di felicità, gli stessi valori dell’Islanda, che spende molto meno sulla sicurezza sociale (Veenhoven, 2000b; Ouweneel, 2002).


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Questo non vuol dire che la felicità sia insensibile a tutte le disuguaglianze: nelle nazioni povere, la felicità sembra essere più correlata alla libertà economica. In queste nazioni dunque, le liberalizzazioni possono probabilmente aumentare la felicità. Tra le nazioni ricche, la correlazione con la libertà politica è più pronunciata: esemplare il caso della Svizzera, la cui felicità media è risultata leggermente più elevata nei cantoni dove la soglia per il referendum è più bassa (Frey & Stutzer, 2000).

I maggiori benefici sembrano essere possibili nei settori della giustizia e del buon governo. I dati mostrano che le persone vivono più felici nelle nazioni dove vengono rispettati i diritti umani e dove c’è uno Stato di diritto. Inversamente, le persone vivono meno felici in nazioni dove è comune la corruzione, anche in culture in cui certi favoritismi sono moralmente accettati. Allo stesso modo, le persone vivono più felici nelle nazioni dove le istituzioni governative funzionano correttamente, a prescindere dal colore dei partiti politici al potere. Questo effetto è indipendente dalla cultura: il buon governo sembra essere un prerequisito per la felicità universale (Ott. 2009).

Un’altra fonte di felicità riguarda le istituzioni in cui passiamo la maggior parte del nostro tempo, come il lavoro e la scuola. Miglioramenti sistematici in questi settori potrebbero migliorare la felicità di molte persone. Vi è stata una certa ricerca sulla felicità nelle organizzazioni di lavoro, ma ulteriori ricerche sulle “istituzioni positive” devono essere poste all’ordine del giorno nella psicologia positiva.

La felicità può essere promossa a livello individuale in almeno tre modi: (1) formazione sull’arte di vivere, (2) informazioni sugli esiti probabili di scelte di vita importanti, e (3) guida da parte di esperti di auto-sviluppo.

Molte persone pensano che sarebbero più felici se avessero più soldi o una posizione più elevata nella scala sociale. Tuttavia, la ricerca dimostra che queste cose non contano molto, almeno non nelle società opulente ed egualitarie. Le differenze di reddito e di status sociale spiegano solo il 5% delle differenze.

Che cosa dunque ha importanza per la felicità? Circa il 10% delle differenze può essere attribuita alle relazioni sociali, in particolare ad un  matrimonio felice. Un altro 10% è dovuto alla fortuna o alla sfortuna, probabilmente più nei Paesi dove la vita è meno prevedibile. La maggior parte delle differenze appare tuttavia causata da caratteristiche personali; circa il 30% della felicità può essere attribuita al cambiamento del proprio stile di vita (Heady & Indossando, 1990).

Alcune di queste abilità sociali sono geneticamente determinate o difficilmente modificabili per altri motivi. Eppure, ci sono anche funzionalità che possono essere migliorate con la terapia e la formazione. La psicoterapia è ormai ben consolidata nelle nazioni moderne, ma ancora sottoutilizzata. Vi è anche un settore emergente, quello del coaching o la formazione all’arte di vivere, per imparare a condurre una vita soddisfacente e, in particolare, a perseguire uno stile di vita salutare (Veenhoven, 2003). Ciò comporta varie attitudini, alcune delle quali sembrano essere suscettibili di miglioramento, anche attraverso tecniche di addestramento. Vi è una crescente letteratura su questo argomento. Quattro di queste attitudini sono: (1) la capacità di godere, (2) la capacità di scegliere, (3) la capacità di continuare a crescere, e (4) la capacità di cogliere dei significati.

Imparare a godere: la capacità di trarre piacere dalla vita è in parte innata, ma può in qualche misura essere coltivata. Si può imparare a godere di piaceri di qualità, come la degustazione di vini pregiati o la capacità di apprezzare una musica “difficile”. Ma è anche possibile sviluppare il godimento per le cose comuni della vita, come gustare una prima colazione o guardare il tramonto. La formazione alla capacità di godere dei piaceri più semplici fa parte di alcune pratiche religiose.

Il piacere edonistico è presentato nella società attuale soprattutto nella pubblicità, ma le tecniche che ci aiutano ad imparare la capacità di godere sono poco conosciute: non ci sono formatori che ci aiutino a migliorare il nostro livello generale di godimento. Al momento possiamo essere guidati da esperti che ci iniziano a specifici tipi di piaceri, come il modo di apprezzare le belle arti, ma talvolta dietro queste forme di iniziazione si cela il desiderio di iniziarci al consumo di determinati prodotti.

Eppure, sembrerebbe possibile sviluppare più ampie tecniche di formazione al piacere: un modo potrebbe essere quello di fornire una formazione all’ “attenzione”, eventualmente utilizzando tecniche di meditazione. Questo approccio si inserisce nei programmi di “mindfulness” (vedi ad esempio Jacob & Brinkerhoff, 1999). Un’altra opzione potrebbe essere l’ampliamento del proprio repertorio di attività nel tempo libero, che potrebbe collegarsi con competenze in diversi settori. Una terza via potrebbe essere la ricerca di modalità per eliminare gli ostacoli interni al godere, che potrebbero essere collegati al trattamento clinico.

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Imparare a scegliere: la felicità dipende anche dalle scelte che si fanno nella vita. L’arte di scegliere coinvolge competenze diverse. Uno dei requisiti è ad esempio la capacità di valutare bene le varie opzioni che più si adattano alla propria natura. Ciò richiede la conoscenza di sé,aspetto che potrebbe esso stesso essere migliorato, con l’auto-comprensione dovuta ad una buona psicoterapia. Una volta che si sa cosa scegliere, vi è spesso un problema nel portare avanti le proprie scelte. Questa fase richiede attitudini come la perseveranza, l’assertività e la creatività, ognuna delle quali può essere rafforzata nei corsi di formazione. Le scelte di vita sono per la maggior parte basate sulla felicità attesa, per esempio nello scegliere la professione che vorremmo fare, anche se spesso possiamo restare delusi dei risultati perché le decisioni vengono spesso prese sulla base di informazioni incomplete ( vedi ad esempio, Gilbert & Wilson, 2005). Un esempio è la decisione di accettare uno stipendio più alto per un lavoro più lontano da casa. La ricerca ha dimostrato che questa scelta si rivela spesso sbagliata e aumenta l’infelicità personale (Frey & Stutzer, 2004). Ricerche di questo tipo potrebbero aiutare le persone a fare scelte più consapevoli.

Il passo successivo nel processo di scelta è valutare i risultati: l “utilità attesa” coincide con quella reale? La formazione all’automonitoraggio è una pratica comune in psicoterapia.

Impegno nella crescita personale. La felicità dipende in gran parte dalla gratificazione dei bisogni innati fra cui ci sono le “esigenze di crescita personale” (Maslow , 1954), note anche come “esigenze di funzionamento” o “necessità di avere padronanza”. Questi bisogni non sono limitate alle funzioni mentali superiori, ma riguardano anche l’uso e lo sviluppo del corpo e dei sensi. Negli animali, la gratificazione di questi bisogni è ampiamente guidata dall’istinto, ma negli esseri umani essa richiede un’azione cosciente. In genere un orientamento ci viene dalla cultura cui apparteniamo, ma le persone devono attivarsi, coinvolgersi in attività stimolanti per evitare la scontentezza diffusa o anche la depressione, come avviene regolarmente, ad esempio, dopo il pensionamento dal lavoro. Così un’altra importante arte di vivere riguarda la capacità di coinvolgersi in un percorso ininterrotto di crescita personale. Questo approccio si inserisce in un filone di ricerca sulla definizione degli obiettivi di vita e felicità (ad esempio, Sheldon & Elliot, 1999).

Cogliere i significati. Avere delle informazioni potrà essere utile, così come partecipare a programmi di “crescita” ed essere aiutati a cogliere il senso della vita (la felicità dipende anche dal riuscire a vedere un senso nella propria vita – vedi ad esempio, King et al, 2007.). Ci sono terapie specifiche per imparare a cogliere i significati della vita, come la logoterapia  (Frankl, 1946) o il “life reviewing” (Holahan & Wonacott, 1999). Questo genere di terapie difficilmente vengono studiate con criteri scientifici e tutto ciò che sappiamo riguarda il breve termine, più che gli effetti sul lungo termine.

Questo approccio alla promozione della felicità è simile a quello basato sulla promozione della salute. Così come la saggezza popolare si dimostra talvolta errata nel portarci a consumare cibi piuttosto che altri, in presenza di determinate condizioni, per cui è necessario affidarsi alla scienza per avere informazioni più sicure, così anche per la felicità dovremmo poterci basare su ricette scientifiche, per migliorare la nostra condizione.

Al momento, la conoscenza per promuovere la felicità è ancora scarsa. Sebbene ci sia una mole considerevole di ricerche sulla felicità, non siamo ancora in grado di comprendere pienamente quali sono le cause e quali gli effetti. Una volta che tali informazioni siano più chiare, esse dovrebbero essere messe ampiamente divulgate o incluse in programmi di educazione sanitaria al “buon vivere”. Il problema oggi non è nella diffusione delle conoscenze, ma nella produzione di tali conoscenze. Le ricerche attuali riguardano aspetti sui quali abbiamo un controllo limitato, come la nostra personalità o gli aspetti sociali. Molto meglio farebbe la ricerca ad interessarsi delle nostre scelte di vita, come ad esempio: rende più felici un lavoro part time o uno full time? Sposarsi e mettere su famiglia rende più felici? Certamente i risultati ottenuti non possono essere generalizzati e non è detto che funzionino nel caso particolare, ma può essere senz’altro utile sapere come delle persone a noi simili si sono comportate di fronte a determinate scelte e quali sono stati gli esiti che hanno riscontrato.

Se non ci sentiamo bene, andiamo dal nostro medico di famiglia che ci fa una diagnosi e ci prescrive un trattamento, oppure ci invia ad un medico specialista. Se ci sentiamo infelici, non c’è un tale medico di base. Dobbiamo tentare di indovinare quali potrebbero essere le possibili cause o consultare uno specialista che può essere uno psicologo, un consulente matrimoniale, o un avvocato. In un certo senso siamo di fronte ad un fallimento commerciale, dato il gran numero di persone che vorrebbero imparare ad essere più felici. La dimensione della domanda si riflette nel boom delle vendite di libri di auto-aiuto e nella disponibilità a pagare per tutti i mezzi che potrebbero condurci ad  una maggiore felicità, come la chirurgia estetica o una seconda casa. Non vi sono però professionisti della felicità (anche se vi sono molti coach affiliati alle scuole di psicologia positiva). Questo dipende dal fatto che questa scienza è ancora al suo esordio, che si lavora più sull’intuizione che sulla ricerca scientifica consolidata.

Per comprendere realmente cosa funziona e cosa non funziona occorrerebbe che molti coach, psicologi e consulenti, trattando questi casi di infelicità, potessero fare un follow up riguardo ai loro interventi e capire cosa ha funzionato e cosa non ha funzionato, per poi consegnare questi dati ad una università o ad un altro Ente altrettanto rispettato e dotato di imparzialità scientifica, perché possa spiegarci cosa fare per essere più felici. Una volta che saremo sicuri di avere delle conoscenze scientifiche certe sull’argomento, potremo finalmente soddisfare l’enorme domanda di approccio alla felicità che viene dal “mercato”.

Fonte principale:

GREATER HAPPINESS FOR A GREATER NUMBER Is that possible? If so, how?
Ruut Veenhoven, Published in: Sheldon, K.M., Kashdan, T.B. & Steger, M.F. (Eds.) Designing Positive Psychology: Taking Stock and Moving Forward, Oxford University Press, New York, 2011, ISBN 978-0-19-537358-5, Chapter 26 pp. 396-409

Giuliana Proietti

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