Le fobie nella storia

La prima testimonianza scritta sulle fobie si deve, nel V secolo AC ad Ippocrate, medico greco antico, considerato il “padre” della medicina, il quale descrisse in maniera accurata sia il delirio, sia le fobie (egli descrisse in particolare due casi di fobie: uno di fobia del crepuscolo e l’altro di fobia in presenza di ponti, precipizi e fossati).

Tra le testimonianze della Roma classica sul tema delle fobie, conosciamo la paura irrazionale di Caligola per i fulmini, e di Augusto per il buio. In Celio Aureliano troviamo descrizioni di soggetti che temevano grotte e baratri (Salkovskis & Hackmann, 1997).

Durante il Medio Evo le fobie divennero di pertinenza ecclesiastico-religiosa, in quanto venivano considerate espressioni della possessione di uno spirito estraneo.

La concezione medioevale permase fino a che Cartesio nella sua opera “Le passioni dell’anima” sottolineò la relazione fra pensiero e comportamento, indicando come quest’ultimo conseguisse alle esperienze precoci dell’infanzia, che rimangono impresse nell’essere umano per tutta la vita.

Dal punto di vista scientifico, le fobie vennero incluse nel dominio della scienza medica solamente tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo.

Queste i primi tentativi di classificazione utilizzati:

– “mania senza delirio” (Pinel, 1745-1826);
– “insanità parziale” (Esquirol, 1772-1840);
– “pseudo-monomania” (Delasiauve, 1804-1893);
– “follia lucida” (Trelat, 1828-1890);
– “predisposizione morbosa del sistema ganglionare viscerale” (Morel, 1809-1873);
– “vertigine mentale” (Laségue, 1816-1883);

Per avvicinarci ad una descrizione più estesa ed esaustiva, si dovette attendere la seconda metà del diciannovesimo secolo.

Magnan (1860) inserisce il disturbo ossessivo, le fobie, l’agorafobia, le perversioni sessuali e gli stati ipocondriaci nella “follia dei degenerati” (Folie des dègènèrès, V. Magnan e M. Legrain, 1895), ovvero soggetti affetti da una patologia cerebrospinale. In modo molto pessimistico riguardo alle effettive possibilità di guarigione per questi malati cronici, Magnan scrive: “…Sono degni di essere considerati come stimmate psicologiche della degenerazione psichica…”.

Nel 1871 Da Costa, un medico militare, descrisse in alcuni soldati una sintomatologia caratterizzata da intensa paura e sintomi somatici preminentemente cardio-respiratori definendo tale sindrome come ‘Irritable Heart Disease’ (Malattia da Cuore Irritabile).

Sempre nello stesso anno (1871), Cordes scrisse che l’ansia “è in rapporto a ciò che il soggetto pensa e non in rapporto automatico con gli stimoli provenienti dall’ambiente”; qualche anno dopo, Legrand du Saulle (1875) incluse in una medesima categoria nosografica le ossessioni, le fobie, i fenomeni vasomotori, il disturbo di panico e qualche caso di epilessia parziale.

Sigmund Freud fu il primo a descrivere le “nevrosi fobiche”. Per Freud le fobie erano un sintomo nevrotico (precisamente denominato “isteria d’angoscia”) il cui significato era inconscio e riguardava in particolare desideri sessuali e aggressivi.

Questi desideri sessuali e aggressivi, provenienti da pulsioni istintuali, risultano spesso inaccettabili alla coscienza. Il soggetto che li prova ha dunque bisogno di “liberarsene”, in qualche modo. Come può fare? La modalità individuata da Freud è quella dell’utilizzo del meccanismo di difesa della “proiezione”. Attraverso questo meccanismo, il soggetto riesce a “proiettare” parte della carica psichica legata a tali pulsioni su “oggetti” esterni (che possono essere oggetti, persone, situazioni..).

Ciò che viene temuto dal soggetto dunque a questo punto non è più interno, ma esterno: è infatti “ l’oggetto fobico” che ora simboleggia i desideri pulsionali illeciti, è sempre “ l’oggetto fobico” che viene temuto per le eventuali conseguenze punitive (es. castrazione e perdita di amore). Dunque, evitando “ l’ oggetto fobico”, si riesce ad evitare tutti i conflitti interni, tutte le paure…

Nella paura della folla, ad esempio; Freud intravedeva il desiderio inconscio di un incontro proibito nel cuore di quella stessa moltitudine, percepita per questo minacciosa. Stesso discorso per le fobie sviluppate per oggetti specifici: anch’esse sarebbero legate ad un simbolismo inconscio (es. coltello-fallo).

Freud riteneva che alle fobie non andasse assegnato un posto preciso nella classificazione dei disturbi psichici (o, meglio, “nevrotici”). Le fobie infatti non erano per lui processi patologici indipendenti, ma rientravano nella descrizione di alcune forme di nevrosi.

Per rintracciare le cause delle fobie occorreva dividerle in due gruppi:

1) “fobie comuni”, causate dalla paura della notte, della solitudine, della morte, delle malattie, dei pericoli, dei serpenti, ecc.;
2) “fobie occasionali”, in cui lo stato emotivo sorge solamente nelle circostanze evitate dal malato (es. agorafobia, siderodromofobia).

L’italiano Sepilli (1899), nel “Trattato Italiano di Patologia e Terapia Medica” cita esplicitamente: l’agorafobia (paura dello spazio), la claustrofobia (paura di restare chiusi), la nictofobia (paura dell’oscuro), l’antropofobia (paura di andare in mezzo alla folla), la siderodromofobia (paura di andare in treno), la patofobia (paura di ammalarsi), la misofobia o rupofobia (paura di insuduciarsi o contaminarsi), la dismorfofobia (termine coniato in precedenza da Morselli, ovvero la paura di essere o divenire deformi), la tafefobia (paura di essere seppelliti vivi).

Nel Traité de Pathologie Mentale di Ballet (1903) vengono distinte le ossessioni dalle fobie. Le fobie pertanto vengono suddivise in:

– fobie degli oggetti esteriori (metallofobia, tricofobia, idrofobia, rupofobia, ematofobia, ecc.);
– fobie dei luoghi ed elementi (agorafobia, claustrofobia, idrofobia, talassofobia, astrofobia, nictofobia, ecc.);
– fobie per malattie e funzioni organiche (patofobia, nosofobia, tanatofobia, tafefobia, dismorfofobia, ecc.);
– fobie per esseri viventi (antropofobia, zoofobia).

Nel Traité vengono altresì evidenziate la monofobia (timore di rimanere soli sia di giorno che di notte) e la fobofobia (paura di avere paura), ma le fobie che secondo questo autore meritano particolare attenzione, soprattutto per la loro frequenza sono: la claustrofobia (paura degli spazi chiusi), l’agorafobia (paura degli spazi aperti) e l’ereutofobia (timore di arrossire).

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Nel 1913 Kraepelin incluse nel suo trattato un piccolo capitolo sulle paure irresistibili e sulle idee insopprimibili, senza però separare i fenomeni fobici da quelli ossessivo-compulsivi.

La psicologia comportamentista ha iniziato ad occuparsi di fobie con John B.Watson e Rosalie Raynor (1920), i quali indussero una fobia sperimentale, nel Piccolo Albert, prendendo spunto dalle ricerche di Ivan Pavlov sul riflesso condizionato.

Watson voleva dimostrare che nelle persone le reazioni emotive possono essere condizionate.

Il piccolo Albert aveva nove mesi quando fu esposto dai ricercatori ad una serie di stimoli inclusi un topo bianco, una scimmia, maschere paurose e giornali in fiamme, per osservare le sue reazioni. Inizialmente il piccolo non mostrò segni di spavento. Nella seconda fase dell’esperimento si tentò di condizionare l’emozione della paura, associandola al topolino: nel momento in cui il bambino osservava l’animale, fu prodotto un forte rumore, che spaventò il bambino e provocò il suo pianto. Ripetendo l’associazione topolino-rumore, il piccolo Albert cominciò a piangere non appena veniva esposto al roditore.

(Di recente, dopo una ricerca durata sette anni, si è scoperto che il piccolo Albert si chiamava Douglas Merrittee che morì a soli sei anni, nel 1925. Non sappiamo con certezza se la terapia di de-condizionamento, che fu comunque tentata, risultò più o meno efficace).

Le fobie ottennero un’etichetta diagnostica definita e autonoma solamente nel 1947, con l’International Classification of Diseases (ICD), e nel 1952 con la classificazione dell’American Psychiatric Association (Diagnostic and Statistical Manual, DSM).

Si dovettero aspettare gli anni Sessanta-Settanta dello scorso secolo per iniziare delle ricerche specifiche sull’origine, la persistenza ed il trattamento delle fobie.

Negli anni ‘80-’90, l’attenzione degli studiosi fu posta sul ruolo dei fattori cognitivi e sull’identificazione degli aspetti consci che condizionano l’interazione con lo stimolo fobico, e questo ha mostrato che l’irrazionalità che caratterizza le fobie è in realtà solo apparente (Davey,1997).

Infine, nell’ultimo decennio del Novecento si è giunti ad una classificazione condivisa a livello internazionale (DSM-IV, 1994; ICD-10, 1992) delle fobie, suddivise in fobie specifiche (animali, oggetti, agenti atmosferici, ecc.) e fobie generalizzate (agorafobia con o senza panico e fobia sociale), tutte inserite nei disturbi d’ansia.

Ora siamo in attesa, per il 2013, del nuovo DSM-V, il quale annuncia, sul tema delle fobie, clamorosi cambiamenti.

Dr. W. La Gatta

Psicolinea.it © Settembre 2011

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2 commenti

  1. Buonasera, avete, pls, qualche riferimento di casi reali (aldila’ di Watson)in cui il “decondizionamento” ha avuto successo?
    Grazie, cordialita’
    lc

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