Oscar Wilde: una biografia

Oscar Wilde: una biografia

Oscar Wilde: una biografia


Oscar Fingal O’Flahertie Wilde nacque a Dublino, il 6 ottobre 1854, figlio di Sir William Wilde, un oculista famosissimo in tutta Europa, protestante e appassionato di antichità irlandesi e da Jane Francesca Elgee, poetessa impegnata nel movimento indipendentista irlandese con il nome di Speranza. Aveva un fratello, William, maggiore di tre anni. Malgrado la famiglia fosse molto benestante, le cose cambiarono quando il padre, grande libertino, fu incriminato per un caso di stupro: alla sua morte, nel 1876, la famiglia Wilde era in condizioni economiche precarie.

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Oscar studiò alla Portora Royal School di Enniskillen e poi nel Triníty College di Dublino, dove si distinse nelle materie classiche, vincendo una borsa di studio per andare a studiare nel prestigioso Magdalen College di Oxford. A 24 anni si laureò in materie classiche con il massimo dei voti. L’anno successivo si trasferì a Londra, dove iniziò a frequentare il bel mondo, presto segnalandosi per le sue pose stravaganti: abiti eccentrici, capelli lunghi, paradossi sempre a fior di labbra, amore per il bello. Nel 1881 pubblicò la sua prima raccolta, Poems e si fece paladino di una crociata per la bellezza, contro le brutture dell’industrializzazione.

Quando Gilbert e Sullivan decisero di esportare in America la loro operetta satirica, Patience, che si ispirava alla vita di un esteta, il produttore dello spettacolo offrì a Oscar Wilde la possibilità di andare in America per illustrare il ‘movimento estetico’ in un ciclo di conferenze. Il viaggio negli Stati Uniti ed in Canada fu un grande successo personale, che gli permise finalmente di migliorare le sue precarie finanze e di trasferirsi a Parigi.

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Nella capitale francese, Oscar rinnegò il suo periodo estetico, si stabilì all’Hotel Voltaire ed entrò in contatto con i salotti letterari parigini, affascinandoli con la sua conversazione, brillante e inconsueta.

Tornato in patria, riprese per un anno l’attività di conferenziere, pubblicò una tragedia d’ispirazione elisabettiana, The Duchess Of Padua (rappresentata con scarso successo a New York nel 1891), fino a che, nel 1894, a Dublino, rivide Constance Lloyd, la figlia di un avvocato irlandese.Dopo un breve fidanzamento andò con lei a vivere a Tite Street, dove nacquero i suoi due figli, Cyril nel 1885 e Vyvyan nel 1886. Sempre immersa nel gran mondo dell’arte e della mondanità, la famiglia Wilde aveva un tenore di vita piuttosto elevato, grazie alla dote di Constance e ai proventi dell’attività giornalistica di Oscar, che recensiva libri per la Pall Mall Gazette ed altri periodici e dirigeva una rivista femminile The Woman’s World (1885-89).

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In questi anni Wilde espresse il meglio della sua creatività: su varie riviste uscirono dei racconti molto spiritosi, (riuniti poi in Lord Arthur Savile’s Crime And Other Stories – Il delitto di Lord Arthur Savile e altri racconti, 1891) le delicatissime fiabe di The Happy Prince And Other Tales – Il principe felice e altre fiabe, 1888, A House Of Pomegranates (Una casa di melograni, 1891) ed il famoso romanzo The Picture Of Dorian Gray (Il ritratto di Dorian Gray, 1891), che fu subito un successo ed insieme un enorme scandalo perché giudicato immorale. Questo romanzo racconta del giovane Dorian, che si lascia corrompere da un patto magico che gli consente di vivere le peggiori dissolutezze senza mai guastarsi i bellissimi e giovanili lineamenti: un suo ritratto, dipinto da un amico pittore, s’incarica infatti di registrare le rughe ed i segni del vizio, al posto del suo volto. Dorian tiene nascosto a tutti il quadro, anche se torna spesso, segretamente, a guardarlo, affascinato dalla rappresentazione sensibile della propria decadenza morale. Infine, non resistendo più all’angoscia di quella visione, lo trafigge; i suoi servi troveranno il ritratto incontaminato, ed un irriconoscibile, precocemente avvizzito Dorian, morto ai suoi piedi.

Nel 1891 Oscar conobbe l’avvenente giovane Lord Alfred Douglas, uno studente di Oxford, con cui iniziò una lunga e rovinosa relazione, che gli segnerà la vita e lo porterà, per una serie di eventi, ad una morte prematura. Scrisse in quel periodo, in francese, la commedia Salomé, la cui rappresentazione venne però vietata in Inghilterra, in quanto ritenuta eccessivamente scabrosa. Improvvisamente arrivarono anche i successi: Lady Windermere’s Fan (Il ventaglio di Lady Windermere, 1893), A Woman Of No Importance (Una donna senza importanza, 1894), e An Ideal Husband (Un marito ideale, 1895). Wilde era ormai riuscito a trasferire sulla scena la sua scintillante conversazione, che lo aveva reso noto in società ed aveva un grande successo di pubblico.Proprio in questo periodo però si diffuse la notizia della sua relazione omosessuale con l’amico Bosie, Lord Douglas, che venne mandato dai genitori in Egitto, per salvarlo dallo scandalo.

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Nel 1894 uscì il libro Salomé, illustrato dal giovane Aubrey Beardsley e tradotto in inglese dall’amico Alfred Douglas.In questo periodo di grande successo Wilde soggiornò, con l’amico Bosie, prima a Firenze e poi ad Algeri, dove incontrarono il giovane Gide, che li seguì sulla strada dell’omosessualità.

Lord Queensberry, padre di Bosie, decise a questo punto di porre fine alla storia del figlio con il famoso scrittore e dunque lasciò un biglietto aperto presso il Club frequentato da Wilde, dove lo si accusava apertamente di omosessualità (severamente proibita nella vittoriana Inghilterra del tempo). Queensberry venne arrestato per diffamazione, mentre il figlio e Oscar Wilde se ne andarono nuovamente in vacanza a Montecarlo, inseguiti da un nuovo scandalo.


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Al processo vi fu uno scambio di ruoli: l’imputato Queensberry fu prosciolto e Wilde fu imprigionato, per poi essere rilasciato su cauzione. Vi fu poi un secondo processo, che condannò l’imputato a due anni di lavori forzati per gross indecency. Le disgrazie non finirono con l’umiliazione del carcere. Infatti, mentre era detenuto a Wandsworth, Wilde fu processato in contumacia anche per bancarotta, dal momento che non riusciva a pagare a Queensberry le spese processuali. I suoi proventi infatti, tutti provenienti dalla rappresentazione delle commedie e dalla vendita dei libri, improvvisamente si congelarono: le sue locandine sparirono dai teatri, così come i suoi libri dalle librerie e i suoi beni finirono all’asta.

Oscar venne trasferito nel carcere di Reading. Sua moglie Constance a questo punto chiese il divorzio ed i figli assunsero il cognome di Holland. L’anno successivo morì la madre di Wilde, Speranza. Durante la detenzione nel carcere di Reading, Wilde scrisse all’amico Bosie una lunga lettera, accusandolo di esser stato la causa della sua rovina. Questa lettera verrà pubblicata solo dopo la sua morte, con il titolo di De Profundis.

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Scontata la pena, senza una casa, Wilde partì per Dieppe, in Francia, si trasferì poi a Berneval-sur-Mer. A Rouen, incontrò nuovamente Bosie e dimenticò il proposito di non volerlo mai più rivedere. I due si stabilirono a Napoli, alla Villa Giudice di Posillipo, poi andarono in Sicilia, dove si lasciarono definitivamente.

Wilde tornò in Francia, a Parigi, dove all’Hotel d’Alsace lo raggiunse la notizia della morte della moglie, Constance. Viaggiò molto, in Svizzera, Francia e Italia, fino a che tornò a Parigi, dove morì all’ Hotel d’Alsace il 30 novembre del 1900, dopo aver ricevuto i sacramenti cattolici.

Finì così l’uomo che più d’ogni altro era stato il vanto, lo stupore e lo scandalo dell’Inghilterra vittoriana, che dopo soli cinque anni dalla morte ne decretò di nuovo il grande e definitivo successo.

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Gli aforismi più brillanti di Oscar Wilde, per i quali andava famoso:

  • – Che cosa è un cinico? Uno che sa il prezzo di tutte le cose, ma non conosce il valore di nessuna
  • -L’unico modo per resistere alle tentazioni, è cedervi
  • -Per riavere la propria giovinezza basta ripetere le proprie follie
  • -Nella vita moderna il superfluo è tutto
  • -Niente rovina l’amore quanto lo spirito in una donna, o la mancanza di spirito in un uomo
  • -Molte unioni felici finirebbero male se le donne capissero davvero i loro mariti
  • -Nella vita coniugale l’affetto viene quando le persone si detestano profondamente
  • -Ogni uomo uccide la cosa che ama
  • -L’amicizia è di gran lunga più tragica dell’amore, dura molto di più
  • -E’ assai pericoloso conoscere i propri amici
  • -L’opinione pubblica esiste soltanto laddove non ci sono idee
  • -Nella vita moderna non c’è nulla che faccia più effetto di un luogo comune: riesce a unire fraternamente persone di ogni razza
  • -Nella vita esistono solo due drammi. Uno è non ottenere ciò che si desidera, l’altro è ottenerlo.
  • -Il male non è che fuori si invecchia, è che molti non rimangono giovani dentro
  • -So resistere a tutto tranne che alle tentazioni
  • -Le cose vere della vita non si studiano ne si imparano ma si incontrano
  • -Ci sono molte cose che butteremmo via volentieri se non temessimo che qualcun altro le raccogliesse
  • -Si dovrebbe essere sempre innamorati. Ecco perché non bisognerebbe mai sposarsi.
  • -Quale rovina per l’uomo è il matrimonio! Esso lo abbruttisce quanto le sigarette, e costa molto di più.
  • -Il dovere è ciò che pretendiamo dal prossimo, non quello che facciamo noi
  • -Felicità non è avere tutto ciò che si desidera, ma desiderare tutto ciò che si ha.
  • -Le peggiori cose sono sempre fatte con le migliori intenzioni
  • -La società perdona spesso al delinquente, non perdona mai al sognatore
  • -La felicità di un uomo ammogliato dipende dalle donne che non ha sposato
  • -Adoro i partiti politici: sono gli unici luoghi rimasti dove la gente non parla di politica
  • -La vita è terribile. Essa ci domina; non siamo noi a dominarla.
  • -Vale sempre la pena di fare una domanda, ma non sempre vale la pena di dare una risposta.
  • -La base logica del matrimonio è il malinteso reciproco.
  • -Oggigiorno tutti hanno uno spirito. Dovunque si va, non si può fare a meno di incontrare persone intelligenti. E’ divenuta una vera peste.
  • -Le sensazioni sono i dettagli che compongono la storia della nostra vita.
  • -E’ sempre sciocco dare consigli: ma dare buoni consigli è fatale.
  • -L’uomo è tanto meno perfetto quanto più parla in prima persona; dategli una maschera e vi dirà la verità.
  • -L’uomo non incontra mai due volte l’ideale; sono rari coloro che l’incontrano una volta. Il malcontento è il primo passo verso il progresso per l’individuo e la nazione.
  • -L’uomo si sposa perché è stanco, la donna perché è curiosa. Entrambi rimangono disillusi.
  • -Vi sono due tipi veramente affascinanti: coloro che sanno tutto e coloro che ignorano tutto.

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Karl Popper: una biografia

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Karl Raimund Popper è considerato il più grande filosofo del secolo scorso. Si oppose a tutte le forme di scetticismo, convenzionalismo e relativismo, nella scienza e nella società. Fu un implacabile critico di tutte le forme di totalitarismo e fautore di una società ‘aperta’. Nacque a Himmelhof, nei pressi di Vienna, il 28 luglio 1902, da genitori ebrei (Siegmund Carl Popper e Jenny Schiff); aveva due sorelle più grandi Emilie Dorothea ed Anna Lydia.

Suo padre faceva l’avvocato, ma era particolarmente attratto dalla lettura dei classici della filosofia e comunicò al figlio l’interesse per argomenti sociologici e politici. La madre invece era un’appassionata di musica, che riuscì a trasmettere a Karl, tanto che per un certo periodo egli pensò di intraprendere la carriera di musicista. A sedici anni Karl decise di abbandonare il Realgymnasium, dove non si trovava bene perché non gradiva lo stile di insegnamento dei professori; per lui la scuola rappresentava solamente “ore e ore di tortura disperata”. Dopo una malattia che lo trattenne a casa per diversi mesi decise così di continuare a studiare come privatista.

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Il 1919 fu un anno importante per la sua formazione: quell’anno aderì peraltro all’Associazione degli Studenti Socialisti e condivise per un certo periodo gli ideali marxisti. Questa passione giovanile per il marxismo durò poco, perché Popper non condivideva gli elementi dogmatici di tale dottrina, ma rimase per tutta la vita un ‘liberale’. Nello stesso periodo scoprì anche le teorie psicoanalitiche di Freud e Adler e la teoria della relatività di Einstein (non dimentichiamo che in quel periodo Vienna era la capitale morale dell’Europa e che c’era grande fermento di idee e di eventi culturali)

A ventitrè anni si laureò all’Istituto pedagogico di Vienna come maestro di scuola elementare dove incontrò anche Anna Henninger, sua compagna di scuola e poi moglie. Tre anni dopo, nel 1928, prese anche la laurea in Filosofia con lo psicologo Karl Buhler e si qualificò nel 1929 per l’insegnamento della matematica e della fisica nella scuola media, iniziando subito dopo a lavorare come professore di scuola media. In quel periodo a Vienna si era formato un circolo di intellettuali, riuniti intorno a Moritz Schlick, un professore di filosofia delle scienze induttive, che si riuniva tutti i giovedì sera in un caffè di Vienna e si chiamava il Wiener Kreis. Questi intellettuali si ponevano come obiettivo quello di unificare le scienze eliminando ad esempio la metafisica, che loro ritenevano priva di significato, in quanto si basava su concetti non verificabili. Così nacque il movimento filosofico del positivismo logico, o neo-positivismo, che si basava sul principio della verificabilità scientifica, il quale affermava che: “una proposizione è la descrizione di una certa disposizione dei fatti, e la sua possibilità riposa sulla rappresentazione di oggetti da parte di segni, consistendo il suo significato nella rappresentazione di una determinata situazione fattuale e dipendendo dalla verificabilità o meno di questa; le proposizioni della logica e della matematica, per contro, sono proposizioni apparenti, nascenti da altre per applicazione successiva di determinate operazioni, sono pure tautologie, la cui validità svanisce a confronto con i fatti”.

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Ma anche verso questo movimento Popper fu abbastanza critico, anzi, si può dire che le sue teorie erano una chiara alternativa a quel movimento. Nel 1934 pubblicò il suo primo libro, Logik der Forschung (Logica della scoperta scientifica) che fu subito un successo e che gli valse l’invito a tenere delle conferenze in Inghilterra negli anni 1935-36.

Poco dopo fu costretto a lasciare l’Austria in seguito all’occupazione della Germania antisemita di Hitler: questo evento lo riportò ad occuparsi profondamente di problematiche sociali e di filosofia politica.

Nel 1937 Popper cominciò ad insegnare filosofia all’Università di Christchurch in Nuova Zelanda, dove rimase per tutto il periodo della seconda guerra mondiale. Nel 1946 si trasferì a Londra, alla London School of Economics and Political Science, dove divenne il Direttore del Dipartimento di Filosofia. I suoi dibattiti in Germania, Inghilterra e Stati Uniti divennero ben presto punto di ritrovo dei più grandi intellettuali del secolo scorso (Einstein, Princenton, Wittgenstein, Adorno, Freud, Adler e Musil). Tra i suoi allievi vi furono filosofi importanti, come Feyeraband e Lakatos che poi lo criticarono senza indulgenza.

Negli anni ’50 Popper ebbe numerosissimi riconoscimenti per la sua attività di ricerca: dalla nomina a membro della Royal Society sino all’investitura del titolo di baronetto nel 1965. Nel 1969 andò in pensione, anche se rimase attivo come scrittore e conferenziere. Alla morte della moglie, nel 1985, Popper lasciò anche la casa nel Buckinghamshire per trasferirsi definitivamente a Kenley (Londra) fino alla sua morte, nel settembre 1994. Le sue ceneri riposano al Lainzer Friedhof, un piccolo cimitero di Vienna.

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LA METAFISICA IN KARL POPPER

Alla base del “razionalismo critico” di Popper c’è il principio di “falsificabilità”: la metafisica ad esempio, non essendo falsificabile, non è una scienza. Non è solo un problema di «verificabilità» dunque, come pensano i neopositivisti viennesi: per capire se una teoria è veramente scientifica infatti, non ci si può basare solo sull’esperienza (induzione), perché potrebbe sempre intervenire un’osservazione nuova che falsifica quella che prima era ritenuta una ipotesi scientifica.
La scienza non è episteme, ovvero un sapere definitivo ed assolutamente certo, in quanto le sue dichiarazioni sono e restano doxa, ossia delle pure ipotesi, che resistono fino a che non vengono falsificate da una nuova teoria. Qualsiasi concezione dunque, anche se non scientifica, non è detto che sia senza senso: la ricerca empirica del resto deve sempre da un’idea, da un’ipotesi, anche se questa non è verificabile. E’ il caso dell’atomismo: prima era solo un concetto metafisico, poi è diventato scienza. Ma sentiamo come esprime questo concetto lo stesso Popper:

Tutta la mia concezione del metodo scientifico si può riassumere dicendo che esso consiste di questi tre passi:

1. inciampiamo in qualche problema;
2. tentiamo di risolverlo, ad esempio proponendo qualche nuova teoria;
3. impariamo dai nostri sbagli, specialmente da quelli che ci sono resi presenti dalla discussione critica.

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Lucrezia Borgia: una biografia

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La biografia di Lucrezia Borgia, raccontata in poche parole, lascia subito di stucco: visse 39 anni, fu figlia, moglie e nuora di Papa Alessandro Borgia, ebbe tre mariti (di cui uno assassinato), molti amanti, nove figli, di cui uno illegittimo, avuto dal padre o dal fratello.

La tradizione la vuole bellissima, corrotta e perversa, appassionata frequentatrice di orge nei palazzi del Vaticano…

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Ma forse Lucrezia fu, più semplicemente, una vittima della corruzione di certe corti rinascimentali e delle mire ambiziose dei suoi familiari, che la considerarono pura merce di scambio, uno strumento per ottenere potere e nuove ricchezze; forse lei non ebbe la possibilità o la forza di sottrarsi a tutto ciò. Ma andiamo con ordine…

Lucrezia nacque a Subiaco, il 18 aprile 1480, terzogenita di Rodrigo Borgia, poi Papa Alessandro VI e Vannozza Cattanei, sua amante. Il padre si credeva “simile a dio”, era apertamente licenzioso e nella residenza papale, organizzava incredibili orge ed intratteneva numerosissime amanti.

Il Papa ebbe più figli illegittimi, i più amati dei quali furono Lucrezia e i tre fratelli, Juan, Cesare e Jofrè. Lucrezia venne educata nel convento di S. Sisto; non sappiamo se fosse veramente bella, come vuole la tradizione, ma di certo aveva occhi azzurri e capelli biondissimi, viso e naso allungati, ma non in modo da rovinare l’estetica. Sicuramente non era brutta.

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A dodici anni il padre la fidanzò per procura con un nobile spagnolo, don Gaspare da Procida, ma ruppe la promessa quando pensò di poter ricavare di più dal matrimonio della figlia, appena tredicenne, con un nobile italiano: Giovanni Sforza, signore di Pesaro.

Dopo il matrimonio con lo Sforza, Lucrezia visse per quattro mesi, in attesa che suo marito si trasferisse a Roma, in un bellissimo palazzo nei pressi del Vaticano, con la nuova amante del Papa, Giulia Farnese, anche lei giovanissima e quasi coetanea della figlia.

Dopo l’arrivo a Roma di Giovanni Sforza, si organizzò una vera e propria cerimonia nuziale, con 500 donne che si occupavano della sposa, guidate dall’amante del Papa. Intravedendo nuovi benefici però, il Papa pensò di allearsi con il re di Napoli per mezzo di Lucrezia: decise dunque di sciogliere rapidamente il suo matrimonio accusando Giovanni di essere impotente.

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Giovanni si difese dall’accusa dichiarandone la falsità: del resto la sua prima moglie era morta di parto. I Borgia insistevano nel dire che il matrimonio era nullo perché non consumato e dunque ingiunsero a Giovanni di provare la sua virilità, cosa che si rifiutò di fare. Lucrezia, sebbene apparentemente innamorata del marito, decise di non opporsi a queste macchinazioni.

Lo Sforza fu costretto a firmare una confessione di impotenza, Lucrezia venne esaminata e dichiarata virgo intacta: il matrimonio fu immediatamente dichiarato nullo. Era il 20-12-1497. Fu così che il primo marito fu umiliato dai Borgia, ma almeno ebbe salva la vita.

Non fu così per Pedro, un cavaliere spagnolo di cui Lucrezia si era subito dopo innamorata, che fu ucciso e gettato nel Tevere da Cesare Borgia, forse per gelosia, forse per il semplice fatto che egli intralciava i suoi piani e quelli paterni.

Il 21/7/1498, a 18 anni, nuovo matrimonio in Vaticano per Lucrezia: lo sposo è Alfonso d’Aragona, figlio naturale del re di Napoli, duca di Bisceglie, fratello di Sancia, moglie di suo fratello Jofrè Borgia. Un’alleanza di ferro, ma presto il Papa sembrò cambiare politica: il genero cominciò allora a non sentirsi più tanto tranquillo, malgrado la concessione del dominio della città di Nepi e del suo castello.

Il Papa sembrava avere poca stima del genero, tanto che arrivò, in quegli anni, a concedere alla figlia Lucrezia e non a lui, il governo di Spoleto e Foligno, un incarico in genere riservato ai cardinali e agli alti prelati.

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Lucrezia non fu solo un’immagine rappresentativa del potere della famiglia Borgia su quelle città, ma, malgrado i suoi 19 anni, sembra che amministrò con saggezza e diligenza. Dopo qualche mese la coppia fu richiamata a Roma, per aspettare la nascita del primo figlio, che fu chiamato Rodrigo, come il nonno. Nel frattempo l’alleanza con il re di Napoli sembrava definitivamente conclusa e si aprivano nuove trattative con la Francia, che peraltro aveva mire sul regno napoletano.

Alfonso, temendo per la sua vita, fuggì da Roma, ma vi fece ritorno per andare a trovare la moglie, cui era legato da sincero affetto. La notte del 15 luglio 1500 venne assalito da un gruppo di sicari presso le scale della Basilica di S. Pietro e pugnalato. Nonostante la gravità delle ferite, Alfonso guarì, con gioia di Lucrezia e della sorella Sancia, che lo accudirono per un intero mese, senza lasciarlo mai solo.

Il sospettato principale fu subito Cesare Borgia, il fratello di Lucrezia, detto il Valentino, il quale sembra che pronunciò la frase: “ciò che non è stato compiuto a pranzo, può essere fatto a cena”. Infatti, il 18 agosto il principe, ormai in via di guarigione, venne misteriosamente strangolato nel suo letto, probabilmente ad opera di Micheletto, uomo di fiducia di Cesare Borgia.

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Poco dopo a Lucrezia venne chiesto di sposare Alfonso d’Este, primogenito del Duca Ercole I, erede legittimo del ducato di Ferrara e Modena. Ancora una cerimonia per procura, il 30 dicembre del 1501, fino a che, il 2 febbraio 1502, a 22 anni, con due matrimoni bruscamente interrotti alle spalle, due figli, (di cui uno illegittimo, avuto dal padre o dal fratello), entra a Ferrara. Porta con sé la terribile fama di essere al tempo stesso “figlia, moglie e nuora” del Papa Alessandro VI. Il futuro marito aveva letteralmente ceduto alle pressioni del padre per accettare questo matrimonio con Lucrezia, per chiarissime ragioni di stato.

A Ferrara Lucrezia visse 17 anni, amata dal marito e dalla famiglia, benvoluta dai sudditi. La sua condotta fu molto più tranquilla rispetto agli anni romani: ebbe infatti altri sei figli, tra il 1505 e il 1519 (di cui solo quattro sopravvissero all’infanzia), si dedicò a pratiche religiose, ritiri spirituali, esercizi di penitenza.

Ebbe un amore, forse platonico, con il poeta Pietro Bembo, uno dei tanti artisti e letterati di cui si circondò e che la celebrarono nelle loro opere.

Nel 1503 Papa Borgia ed il figlio Cesare vennero avvelenati contemporaneamente: il Papa morì, Cesare sopravvisse per altri quattro anni. Alla morte del suocero Ercole d’Este, il 25/1/1505, Lucrezia divenne duchessa di Ferrara ed il marito le affidò la reggenza della città in caso di sua assenza.

Lucrezia morì di parto il 24 giugno 1519, all’età di 39 anni, alla sua ottava gravidanza.

È sepolta a Ferrara, nel convento del Corpus Domini.

Vedi Power Point su Lucrezia Borgia in Slide Share. Presentata al Ridotto del Teatro Le Muse di Ancona. Dicembre 2009

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Arthur Schopenhauer

Arthur Schopenhauer: una biografia

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Arthur Schopenhauer è un filosofo molto amato dagli artisti, dai musicisti, dai letterati, che nei suoi scritti, intrisi di pessimismo, ritrovano spunti di ispirazione per le loro opere. In Italia, per questo motivo, viene spesso assimilato a Giacomo Leopardi.

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Il filosofo nacque il 22 Febbraio 1788. La sua era una famiglia di ricchi commercianti olandesi. Il padre, Floris Schopenhauer scelse addirittura per il figlio il nome ‘Arthur’,(un nome scritto alla stessa maniera in inglese, francese e tedesco), proprio per facilitargli la carriera nei commerci internazionali di cui egli stesso si occupava. Arthur nacque a Danzica (Polonia), ma dopo cinque anni la famiglia si trasferì ad Amburgo (Marzo 1793), perché la città di Danzica fu annessa alla Prussia.

Schopenhauer viaggiò molto in Europa, insieme alla sua famiglia (dal 1803 al 1804 soggiornarono in Olanda, Svizzera, Austria, Francia ed Inghilterra). Ebbe così modo di apprendere sin da piccolo le lingue straniere, soprattutto l’inglese e il francese. Questo periodo, come egli stesso ebbe poi a dire, fu il più felice della sua vita.

Il 20 Aprile del 1805 morì il padre (forse per suicidio) e Arthur per due anni tentò di seguire la strada che suo padre aveva previsto per lui. Ma il commercio non lo interessava e così, all’età di 19 anni, lasciò Amburgo per prepararsi ai suoi studi universitari. La madre, Johanna Henriette Troisiener Schopenhauer (1766–1838), figlia di un senatore, insieme all’altra figlia Luise Adelaide Lavinia Schopenhauer (1797-1849), decise allora di lasciare la casa di Neuer Wandrahm 92 per raggiungere Weimar. Qui cominciò a fare vita mondana, come animatrice di un salotto letterario molto frequentato. Iniziò anche una relazione con Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832).

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Il giovane Arthur non gradiva la cosa, non amava la vita mondana e riteneva immorale il comportamento della madre. Si chiuse così in un’esistenza ritirata, dedita allo studio approfondito dei classici latini e greci, della filosofia orientale e di alcuni mistici.

Nel 1809 si iscrisse alla facoltà di medicina dell’università di Gottingen, dove ascoltò le lezioni dello scettico G.E. Schulze; nel 1811 si trasferì all’Università di Berlino, dove seguì i corsi di F. Schleiermacher e di Fichte, del quale rimase deluso.

Si laureò in filosofia all’Università di Jena nel 1813, con una tesi Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, pubblicata in quello stesso anno a Weimer.

Fortemente critico della filosofia accademica, come appare dal suo divertente scritto polemico Sulla filosofia all’università, Schopenhauer attaccò sia la metafisica che la filosofia della religione e il nazionalismo germanico della filosofia hegeliana. Dichiarandosi ateo, egli preferiva occuparsi dell’Illuminismo, in particolare di Voltaire.

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Nel 1816 veniva stampato il suo trattato Sulla vista e i colori, in difesa delle teorie scientifiche di Goethe.

I temi di queste dissertazioni giovanili confluiranno poi nell’opera maggiore di Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, composta a Dresda fra il 1814 ed il 1818 e pubblicata nel 1819 (opera che fu accolta, inizialmente, con grande freddezza, perché considerata profondamente ed irragionevolmente pessimista, in un’epoca di idealismo imperante).

Dopo un soggiorno in Italia (1818-1819), Schopenhauer conseguì la libera docenza a Berlino, nel 1820, nonostante un contrasto con Hegel, ma i suoi corsi, che si tenevano nello stesso orario dei corsi di Hegel, ebbero scarso successo, tanto da fargli abbandonare l’insegnamento dopo il primo semestre. Lasciata Berlino, viaggiò ancora, in Svizzera, Italia e Germania. Tornò a Berlino nel 1825, per ritentare la via dell’insegnamento.

Constatato ancora una volta il fallimento del suo progetto (nessuno frequentava le sue lezioni), Schopenhauer si trasferì definitivamente a Francoforte. Il successo arrivò solo nel 1851, quando pubblicò Paregra e Paralipomena, una raccolta di aforismi. Dopo nove anni dalla conquista definitiva del successo morì: era il 1860. Ispirato da Platone e Kant, Schopenhauer sviluppò le sue teorie filosofiche in un clima di misticismo e di ascetismo ed infatti, non a caso, la sua ricetta per la felicità consiste nell’imparare a minimizzare i bisogni ed i desideri.

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Nella sua opera filosofica, Schopenhauer parte dalla filosofia di Kant, il quale aveva operato una distinzione del mondo in due parti: da una parte il mondo fenomenico (ciò che apprendiamo e ci appare dall’esperienza diretta delle cose), e dall’altra il mondo delle cose in sé, inaccessibili alla nostra coscienza. Schopenhauer chiamò i fenomeni ‘rappresentazioni’ e la cosa in sé ‘volontà’.

La volontà, “cieco e irresistibile impeto”, non è una caratteristica del carattere umano, ma un impulso irrazionale e caotico, una vera e propria entità a sé, ciò che da sempre sostiene il mondo e che sempre lo sosterrà. La volontà è presente in tutti gli esseri viventi, siano essi animali o piante, ma solo l’uomo è capace di rendersene conto, perché munito di una ragione capace di intuire la volontà, ovvero la cosa in sé. Il mondo degli uomini, apparentemente ordinato nelle sue leggi, è in realtà il prodotto di un’energia irrazionale ed assoluta, che non ha alcuno scopo, diversamente a quanto credono gli uomini, che in tutto vedono e vogliono vedere un fine.

“… tutto ciò che esiste per la conoscenza, cioè questo mondo intero, è solamente oggetto in rapporto al soggetto, intuizione di chi intuisce, in una parola: una rappresentazione.” La realtà esiste, ma è velata, nascosta dietro un velo di interpretazioni illusorie (in questa formulazione si ispirò alla filosofia indiana dei Veda). Nella vita di tutti i giorni percepiamo una certa realtà (natura, persone, oggetti, relazioni, istituzioni ecc.): certamente è tutto vero, ma si tratta comunque di percezioni (fenomeni) umane e dunque limitate dalla soggettività delle percezioni. L’essere umano “non conosce né il Sole né la terra, ma solo un occhio che vede un Sole, una mano, che sente una terra…” La realtà dunque è filtrata dai nostri sensi; dalle percezioni del corpo, che ci permettono di costruire la nostra rappresentazione del mondo. Il mondo percepito non è quindi il vero oggetto nella totalità delle sue qualità (la cosa in sé), ma solo un’interpretazione (la rappresentazione) che ne dà il nostro corpo.

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La volontà è anche un istinto alla sopravvivenza: “miliardi di esseri, vegetali, animali, umani, non vivono che per vivere e per continuare a vivere”… La volontà genera il mondo dei fenomeni come una gerarchia di molteplici esseri ed entità in perenne lotta, nell’illusione di sopravvivere e affermare la propria individualità. La volontà è assenza di ogni fine, di ogni desiderio di ordine e di bene: è solamente un caos vitale che vuole e difende la vita ciecamente e senza alcun progetto, senza un istinto senza uno scopo.

La volontà spinge l’uomo a desiderare, agire, lottare, soffrire, ma è situata fuori dallo spazio e dal tempo; la volontà è unica e universale, cieca e malvagia, in quanto non regolata dalla ragione. La realtà è assurda, insensata, priva di ogni scopo (irrazionalismo). L’essere umano non ha possibilità di scegliere: crede di perseguire proprie finalità e di prendere decisioni in piena autonomia, ma non è così, perché chi decide per lui è la volontà con il suo cieco impulso alla vita e alla sopravvivenza, all’istinto di conservazione e di perpetuazione della specie.

Il filosofo è colui che prova un autentico stupore dinanzi al mondo reale e non una mera «curiosità intellettuale indiretta e derivata», ma anche scandalo di fronte al dolore e al male del mondo. La storia, ad esempio, non dipende da una volontà superiore, la divina provvidenza, ma è una ripetizione incessante di una giostra, di desiderio e sazietà: «la vita dell’uomo oscilla come un pendolo, di qua e di là, tra il dolore e la noia, che sono in realtà i suoi veri elementi costitutivi». La vera liberazione è possibile dunque solo attraverso la consapevolezza del destino di sofferenza dell’uomo. Il dolore infatti, essendo soggetto alla volontà, non può fare a meno di desiderare e quindi essere insoddisfatto, il piacere esiste solo in quanto appagamento fuggevole e breve della volontà. E dopo il piacere c’è la noia, cioè la mancanza di una volontà impellente: “Dei sette giorni della settimana, sei sono di dolore e di bisogno e il settimo è di noia.”

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Annullare la volontà significa entrare in uno stato di quiete, di distacco ascetico che permette l’annullamento del desiderio di gioia e di vita: spenta ogni volontà si spegne ogni dolore. Questo stato di quiete è la nolontà (o noluntas, contrapposta alla voluntas), ovvero l’esperienza del nulla come fondamento ultimo del tutto, accettato con assoluta serenità e indifferenza. Il rifiuto della volontà è l’unico atto liberamente concesso all’uomo costretto nella sua sofferenza,l’unico che può portarlo al Nirvana.

L’essere umano deve liberarsi della propria individualità, ponendosi oltre la volontà, oltre il tempo e il dolore, contemplando il mondo in modo disinteressato e divenendo soggetto puro di conoscenza. Tre tappe segnano il cammino verso la nolontà:
– la giustizia, il riconoscimento del comune destino umano che porta al superamento dell’egoismo individuale;
– la bontà, l’amore per gli altri inteso come compassione e conoscenza del dolore altrui attraverso il proprio;
– l’ascesi, l’esperienza del mondo come puro nulla e dissoluzione della propria individualità nel Nulla attraverso la castità, la rassegnazione, la povertà e il sacrificio.

Ulteriori possibilità per sfuggire alla volontà si possono trovare nell’arte, nella contemplazione della bellezza celata nell’arte, in particolare nella tragedia e nella musica. Ma l’arte è solo una forma di conforto e quindi ha solo un effetto momentaneo. Poi c’è la morale, con la quale è possibile esercitare l’amore per l’altro (compassione). Così io percepisco una rappresentazione dell’altro che non è esattamente l’esistenza stessa dell’altro, ma è la mia rappresentazione della sua esistenza, in questo modo è possibile vincere l’egoismo volontario. Infine, il suicidio. L’annullamento della volontà di vivere può essere raggiunta anche con il suicidio, ma Schopenhauer deplora questo gesto per due motivi: il primo è che il suicidio non è dettato da un annullamento della volontà, bensì dall’insoddisfazione dell’individuo di una situazione particolare che sta vivendo; il secondo motivo è che l’annullamento di una singola volontà non intacca minimamente la volontà in sé, infatti la volontà continuerebbe a vivere, perchè assoluta e infinita.

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Queste concezioni influenzarono fortemente filosofi come Friedrich Nietzsche, Bergson, Dewey ed anche il padre della psicoanalisi, Sigmund Freud.

Fu Thomas Mann a mettere in evidenza fra i primi una certa familiarità fra Schopenhauer e Freud, in particolare per quanto riguarda la descrizione freudiana dell’Es e dell’Io, molto simili alla descrizione di Schopenhauer dei concetti di volontà ed intelletto. Schopenhauer parlava dell’Io come di una voce che rimbomba in una sfera cava di vetro e se si cerca di afferrare questa voce, che sembra la propria, ma non lo è, ci si rende conto di abbracciare un fantasma. Gli individui sono un capriccio di questa volontà di vivere, di questa entità anonima che parla in tutti gli esseri viventi, dalle formiche all’uomo, “siamo come dei ghirigori che la volontà di vivere traccia nella lavagna infinita dello spazio e del tempo” o ancora, siamo come i personaggi della commedia dell’arte italiana, Pantalone e Colombina, che ripetono sempre la loro parte e in un certo modo non vivono ma sono vissuti, non pensano ma son pensati, non agiscono ma sono agiti. Anche Freud parlò dell’Io in questi termini, dicendo che non è padrone in casa sua, che non guida la danza, un Io che deve districarsi tra varie istanze psichiche e tra varie forze, che non può controllare.

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Schopenhauer e Freud ebbero in particolare tre punti in comune:
– la concezione irrazionalistica dell’uomo
– l’identificazione della pulsione generale di vita con la pulsione sessuale
– il pessimismo antropologico

Schopenhauer fu maestro anche di Jung, in quanto fu il primo filosofo occidentale a fare uso nei suoi scritti e nelle sue riflessioni dei temi della saggezza orientale e fu fonte di ispirazione per la formulazione del concetto di libido jungiana, che nel vissuto soggettivo si manifesta come volontà, nel senso proposto dal filosofo. .Un altro psicoanalista, postfreudiano, Lacan, si ispirò a Schopenhauer quando disse: “Io sono dove non penso e penso dove non sono”, dissolvendo così il binomio cartesiano Cogito, ergo sum.

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Siddharta Gautama, detto il Buddha: una biografia

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Cosa significa Buddha?

Buddha non è un nome proprio di persona, ma è un titolo e significa “illuminato”. Il titolo è paragonabile al titolo Cristo per quanto riguarda Gesù. Unica differenza: il termine Cristo indica una identità, mentre il termine Buddha esprime una condizione, un modo di essere che è la meta a cui tutti possono giungere.

Come si chiamava veramente il Buddha?

Intanto chiariamo che nella storia vi è stato un solo Cristo, ma vi sono stati numerosi Buddha. Il Buddha che conosciamo noi occidentali è Siddharta Gautama, dove Siddharta è il nome proprio, che significa “Colui che ha raggiunto il suo scopo”, mentre Gautama è il nome di famiglia, o cognome.

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Quando visse Siddharta Gautama?

Non si conosce con precisione né la data di nascita, né la data di morte, anche se gli studiosi la collocano intorno agli anni 566-486 A. C. Non vi sono dubbi invece sulla città di nascita, che è Lumbini, nell’attuale Nepal e la città della morte, che è Kushinagar, nell’attuale stato indiano dell’Uttar Pradesh. C’è accordo sul fatto che la sua vita durò circa ottanta anni.

Perché non esistono biografie ufficiali del Buddha?

Buddha non scrisse nulla di autobiografico: conosciamo i suoi insegnamenti tramite seguaci e poeti che scrissero di lui dopo la sua morte, più di duecento anni dopo ed anche dopo l’inizio dell’era cristiana.

Le biografie esistenti contengono molte leggende e tradizioni legate ai luoghi dove sono state scritte: per questo non possiamo parlare di verità storiche, ma di verità ‘culturali’, nel senso che ci fanno capire dove si innestano i fondamenti del Buddismo.

Le prime biografie di Budda furono scritte in lingua Pali o in Sanscrito: alcune di esse, come ad esempio La Grande Storia – Mahavastu – sono incomplete, nel senso che non raccontano la sua intera vita, ma si soffermano in particolare su alcuni episodi, come la sua illuminazione; altre biografie invece seguono il personaggio fino alla sua morte.

Esistono inoltre altre biografie, più recenti, della vita di Buddha, scritte in cinese o tibetano e spesso in dialetti locali, come il cingalese, il burmese, il Thai, il Khmer, il mongolo, il coreano: non parlano solo della vita dell’illuminato, ma sono libri di preghiera e di meditazione basati sugli episodi della vita di Buddha.

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Vi sono anche storie del Buddha tramandate in forma artistica?

Si. Le prime storie sulla vita del Buddha non erano testi letterari, ma bassorilievi, trovati nell’India centrale. Per esempio in una delle colonne del Portale Nord della città di Sanchi, c’è una rappresentazione di una scimmia che offre un vaso di miele a Buddha, la cui presenza è simbolizzata da un albero e da un trono vuoto: non vi erano ancora rappresentazioni antropomorfe, come forma di rispetto, e Buddha veniva rappresentato come un albero, una ruota o una serie di impronte di piedi. Sicuramente gli artisti del tempo si riferivano ad una tradizione orale diffusa ed ai testi che conoscevano, i quali a loro volta venivano influenzati dalle riproduzioni artistiche del tempo.

Da che tipo di famiglia proveniva?

La sua famiglia era ricca e potente, un clan di guerrieri che amministravano la loro piccola repubblica in modo oligarchico. Il padre, Suddhodana viene presentato dalla tradizione come un vero re (il signore del regno dei Sakya, una regione che corrisponde all’odierno Nepal), ma forse era solo un signore molto benestante. La madre, Mayadevi, o anche solo Maya, morì una settimana dopo il parto del figlio, tanto che il bambino fu accudito dalla zia materna, Mahaprajapati, che fu in seguito la prima donna a farsi monaca buddista.

Come trascorse la giovinezza?

Si racconta che il piccolo Siddharta ebbe una infanzia molto felice e ricevette òla migliore educazione a livello culturale, artistico e atletico, finché a 16 anni sposò la principessa Yasodhara, detta Gopa. Tredici anni dopo la coppia ebbe un figlio, Rahula. A ventinove anni, subito dopo la nascita del figlio, Siddharta decise di abbandonare la reggia paterna, all’insaputa di tutti.

Le notizie più leggendarie raccontano che il piccolo Buddha fu mostrato a suo padre, il quale, vedendolo, cadde in adorazione; che fu mostrato agli dei del suo clan e le statue di questi dei caddero in frammenti ai suoi piedi. Siddharta bambino  fu inoltre mostrato ai sacerdoti bramini, i quali predissero che egli sarebbe diventato il Buddha vedendo alcuni segni sul suo corpo.

Perché Siddharta si allontanò dalla reggia paterna?

La leggenda narra che il giovane fu molto colpito dalla visione di un vecchio, un malato e un morto: questo era nettamente in contrasto con l’atmosfera felice in cui era vissuto da ragazzo. Dopo questa esperienza iniziò un duro apprendistato ascetico presso vari maestri, per circa sei anni.

In questo periodo studiò i massimi sistemi filosofici dell’induismo, Shamkya e Vedanta, poi cercò la via spirituale attraverso la mortificazione del corpo (digiuni e pratiche ascetiche), senza però trovare in queste pratiche le risposte che cercava.

La leggenda narra che un giorno, ridotto quasi in fin di vita, incontrò una donna che lo nutrì con latte e riso e lo incoraggiò a nutrirsi, spiegandogli che gli eccessi non possono portare alla verità, così come le corde troppo lente o troppo tese di uno strumento musicale non possono dare il giusto suono.

Giunse in questo modo all’individuazione di un sentiero di mezzo, punto di equilibrio fra la vita dedita esclusivamente ai piaceri e l’ascesi più dura dei maestri spirituali che aveva frequentato. Tale sentiero di mezzo lo condusse all’illuminazione (bodhi), avvenuta nella città di Bodh Gaya, dopo un periodo di intensa meditazione (secondo la tradizione durata 49 giorni).

Dopo l’illuminazione, a 35 anni, Siddharta divenne il Buddha, cioè il Risvegliato, l’Illuminato.

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Cosa fece il Buddha dopo l’Illuminazione?

Le sue prime parole, riportate dal Dhammapada (opera paragonabile, per importanza, ai nostri Vangeli), sono le seguenti: 

“Per vite innumerevoli ho vagato, cercando invano il costruttore della casa della mia sofferenza. Ma ora ti ho trovato, costruttore di nulla da oggi in poi. Le tue assi sono state rimosse e spezzata la trave di colmo. Il desiderio è tutto spento; il mio cuore, unito all’increato”.

Comincia qui la terza fase della vita del Buddha, quella dedicata all’insegnamento, durata all’incirca quarantacinque anni.

Quale è il punto centrale nel pensiero del Buddha?

Il punto più importante del pensiero buddista è il rapporto fra conoscenza e guarigione: la conoscenza non deve essere fine a se stessa, ma finalizzata alla guarigione. La guarigione avviene attraverso un processo al cui vertice c’è la conoscenza. Secondo il Buddha si conosce per guarire, risanando la mente dall’ignoranza.

Nel buddismo ci sono dogmi, come ad esempio nel Cristianesimo?

No. Buddha assegna il primato alla spiritualità e non ai dogmi.

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Cosa è la parabola della zattera e perché è importante?

La parabola racconta di un uomo che giunge alla rive di un fiume. Vedendo l’altra sponda come migliore di quella cui era arrivato, decide di costruirsi una zattera, per passare dall’altra parte. Giunto a destinazione, l’uomo è molto grato alla sua zattera, ma ora che ha svolto la sua funzione, decide di abbandonarla, per poter proseguire il suo cammino. Il Buddha spiega: “Vi ho mostrato, o monaci, come l’insegnamento sia simile a una zattera, la quale è costruita allo scopo di traghettare e non di mantenercisi attaccati”. 

La parabola spiega come occorre sentirsi liberi da ogni volontà di possesso e cercare piuttosto di proseguire il proprio cammino.

Cosa è la ruota del Dharma?

La ruota del Dharma, rappresentata da otto raggi e simbolo del buddismo, per essere compresa deve essere paragonata a un’altra ruota: quella dell’esistenza.

La ruota dell’esistenza (bhavacakra) gira ininterrottamente e rappresenta il ciclo vita-morte-rinascita, in modo inconcludente. Per uscire fuori da questa ruota occorre servirsi della ruota del Dharma, che permette a chi vi sale di liberarsi dalle catene. La ruota del Dharma si innesta nella ruota dell’esistenza e permette di uscirne, raggiungendo, in una corrente ascensionale, la liberazione, detta nirvana.

La ruota dell’esistenza è guidata da una logica detta karma, mentre la ruota che porta all’Illuminazione è quella del Dharma.

Cosa è il nirvana?

Letteralmente significa “non-soffio”, “estinzione -del-soffio”. Raggiungere il nirvana significa liberarsi da tutte le ossessioni, le preoccupazioni e i tormenti della vita umana, per vivere in modo gioioso, pieno di amore universale, di compassione, di bontà, di simpatia, di comprensione e di tolleranza. In altre parole si tratta dell’estinzione della dimensione materiale dell’essere, in favore della sola dimensione spirituale.

Cosa è il karma?

E’ una visione dell’universo, secondo cui ogni azione, anche la più piccola, viene registrata e genera conseguenze, positive o negative, a seconda della qualità dell’azione. Nella vita ciascuno raccoglie ciò che ha seminato, ma a differenza di quanto avviene nella religione hindu, il karma del Buddha non si basa tanto sulle azioni, quanto sulle intenzioni. Questo sposta il buddismo dalla liturgia all’etica, dalla religione alla spiritualità, dall’esteriorità all’interiorità.

Quando si muore, le sole cose che ci daranno continuazione sono i nostri pensieri, le nostre parole e le nostre azioni, ossia il nostro karma: riceveremo i frutti di qualunque azione che abbiamo compiuto.

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Come fa l’essere umano a salvarsi con le sue forze?

Grazie a una triplice sinergia:  1) La dottrina del Buddha, 2) I meriti personali nel seguire l’ottuplice pensiero (vedi più avanti) 3) La logica giusta e infallibile del karma.

Per il Buddha il primato non è nei libri sacri o nelle gerarchie religiose, ma sempre nell’individuo e nella sua coscienza. Obiettivo della vita è la conoscenza, ma il modello indicato non è quello del dotto, quanto quello del saggio, non è il saper discettare su tutto, ma essere sapienti e preferire il silenzio.

Quali sono le tesi centrali dell’insegnamento del Buddha?

Il primo discorso del Buddha è noto per l’esposizione di quattro tesi, o “nobili verità”. Esse sono le seguenti:

1) universalità della sofferenza
Nel discorso di Sarnath la tesi viene formulata così:

La nascita è sofferenza, la vecchiaia è sofferenza, la malattia è sofferenza, la morte è sofferenza, essere uniti a ciò che non si ama è sofferenza, essere separati da ciò che si ama è sofferenza, non realizzare il proprio desiderio è sofferenza…’.

Per il Buddha ogni essere umano, per il fatto di essere nato, è stato colpito da una freccia: ogni nato è ferito e sofferente. Il mondo è “un grande ammasso di dolore”

2) causa della sofferenza

La seconda nobile verità parla del desiderio, dell’attaccamento, che è la causa del dolore umano. Il desiderio deve essere lasciato andare. Il Buddha volle che all’ingresso di ogni monastero fosse esposto un particolare mandala, che rappresenta tre animali che si mordono, a cerchio, la coda: essi sono il gallo (simbolo della passione amorosa), il serpente (inimicizia), il maiale (ignoranza). La sofferenza umana dipende da questi tre animali, nascosti nella nostra mente.

3) possibilità di superamento della sofferenza

La terza verità sostiene che si può superare l’ignoranza, cercando di essere ‘lanterne di se stessi’, senza bisogno di ausili esterni, arrivando così alla liberazione. Occorre per questo innalzarsi al di sopra del proprio pensiero ordinario, riconoscendone capacità e limiti. 

4) modo per superare la sofferenza

La quarta verità indica la via che conduce all’estinzione della sofferenza: un ottuplice sentiero di rette opinioni, retto scopo, rette parole, retta azione, retto modo di esistere, retto sforzo, retta attenzione, retta meditazione. Chiunque si incammini su questa via di otto sentieri paralleli non vuole ottenere paradisi o evitare inferni: il suo scopo è quello di raggiungere l’esatta percezione dell’universo in cui è immerso, che è un continuo aggregarsi e disgregarsi.

In esso, nulla è permanente, tanto meno il proprio ‘io’. Chi comprende questo ha sconfitto l’ignoranza, ha spezzato le catene, ha raggiunto il Nirvana, cioè ‘estinzione’ uno stato mentale raggiungibile in vita solo quando tutti gli attaccamenti sono estinti.

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Cosa fare, in pratica, per seguire l’ottuplice sentiero della quarta verità?

Si comincia in genere dalla retta parola:  attenzione al linguaggio, evitando di pronunciare calunnie, menzogne, pettegolezzi, futilità, chiacchiere.

A questo segue la retta azione: astenersi dall’uccidere, dall’impossessarsi dei beni di altri, dalle attività sessuali illecite, dalle menzogne, a ogni bevanda inebriante (questo vale per tutti i seguaci): per i monaci valgono inoltre l’astensione da ogni cibo solido dopo il pranzo, astensione dalla musica e dalla danza, astensione dai profumi e dai gioielli, astensione dalla vita comoda, astensione dal toccare denaro o oggetti di valore.

Per la retta sussistenza evitare mestieri che introducono energia negativa nel mondo, come commercio di alcol, di armi, di uccisione di animali tramite la caccia, ecc.

La dimensione contemplativa riguarda il retto sforzo, la retta consapevolezza e la retta concentrazione.
Secondo il Buddha ciò che fa superare la sofferenza è la visione profonda, che deriva dalla consapevolezza e dalla concentrazione e che conduce chi la consegue a radicarsi nel presente. La vera felicità non dipende dagli altri, ma da noi stessi e, perché questo possa succedere, occorre riportare la mente al presente.

Non si tratta quindi tanto di apprendere, quanto di apprendere per trasformarsi: trasformare la propria visione del mondo si trasforma se stessi e il proprio mondo.

Ci sono molte scuole di buddismo?

Si. Le diverse interpretazioni che cominciarono a fiorire alla morte del maestro diedero origine a molte scuole non solo in India, ma anche in gran parte dell’estremo oriente. Dal diciannovesimo secolo in poi il buddhismo ha attratto su di sé anche l’attenzione degli studiosi occidentali: chi imbocca la strada del buddismo vi trova una religione, una scienza della mente, uno stile di vita tollerante e non violento, da contrapporre a tutte le forme di violenza: militari, politiche, sociali ed economiche.

Dr. Giuliana Proietti

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Questa biografia è in gran parte basata sulla trattazione di Vito Mancuso: “I quattro maestri”, edito da Garzanti.

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