Matilde di Canossa

Matilde di Canossa: la donna più potente del Medioevo

Matilde di Canossa: la donna più potente del Medioevo


Matilde di Canossa è senz’altro una delle figure femminili più interessanti dell’alto medioevo; basti pensare che questa donna cominciò a regnare su un territorio molto vasto dell’Italia centro-settentrionale (dal Lazio al Lago di Garda) a soli trent’anni, dimostrando di essere un abile Capo di Stato, capace di condurre trattative diplomatiche ai massimi livelli e di applicare efficaci strategie militari per difendere i suoi possedimenti.

Tutto questo nonostante le donne nel Medio Evo contassero veramente pochissimo e nonostante i grandi sconvolgimenti politici e militari di quel periodo: Matilde riuscì a regnare ininterrottamente per un quarantennio.

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La sua storia:

Matilde di Canossa nacque a Mantova nel 1046, da Beatrice di Lotaringia e da Bonifacio, marchese di Toscana, che nella città lombarda avevano una reggia.

La coppia aveva già due figli: Federico e Beatrice. La famiglia possedeva in quel tempo un dominio che comprendeva buona parte dell’Italia centrale e settentrionale, oltre che delle terre in Germania, sul Reno, portate in dote da Beatrice, che facevano invidia ad altre potenti famiglie di Mantova (gli Arimanni), oltre che all’imperatore stesso.

L’educazione di Matilde fu molto curata, tanto che il suo biografo, Donizone scrive:

… ben conosce il linguaggio dei Teutoni e sa anche parlare la garrula lingua dei Franchi“;

certamente dunque Matilde sapeva anche leggere e scrivere, cosa abbastanza rara fra le nobildonne del suo tempo.

Nel 1052, quando Matilde aveva solo sei anni, suo padre Bonifacio venne assassinato con una freccia avvelenata durante una battuta di caccia; la madre si trovò sola a fronteggiare una situazione molto pericolosa per il suo Feudo e cominciò così ad appoggiarsi alla Chiesa, avviando un rapporto di collaborazione e sostegno reciproco tra i Canossa e Papa Leone IX, con il quale era, fra l’altro, imparentata.


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Nel 1053 morirono anche il fratello e la sorella di Matilde, per cause che la storia non ci racconta, anche se si pensa che furono avvelenati.

Un anno dopo, Beatrice decise di porre rimedio a questa situazione di fragilità in cui si era venuta a trovare la sua famiglia risposandosi con un suo lontano parente, Goffredo il Barbuto, anch’egli rimasto vedovo dal primo matrimonio.

I due si accordarono, nella promessa matrimoniale, che vi sarebbe stato un matrimonio anche fra i loro rispettivi figli, che al momento erano ancora bambini, per consolidare la dinastia.

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Dopo 15 anni di matrimonio, Goffredo il Barbuto, malato, si rifugiò nei suoi territori di Lorena, dove si fece raggiungere dalla famiglia e, in punto di morte, pretese che il figlio Goffredo (detto il Gobbo) e la figliastra Matilde si sposassero, come era stato da tempo deciso.

Alla vigilia di Natale del 1069 il marchese morì ed il figlio Goffredo ne ereditò le ricchezze ed il potere; Beatrice, rimasta nuovamente vedova, tornò in Italia ad occuparsi degli affari, lasciando la figlia Matilde presso il marito, in Lorena.

La coppia di sposi ebbe presto una bambina, chiamata anche lei Beatrice, che purtroppo morì ancora in fasce.

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Nel gennaio 1072 Matilde lasciò il marito, che era passato, contro la sua volontà, dalla parte del giovane imperatore Enrico IV, e fece ritorno a Mantova, presso la madre.

Goffredo fece di tutto per riconciliarsi con lei, ma senza successo; sappiamo che venne in Italia con dei doni, che fece intervenire come mediatore Papa Gregorio VII , ma l’atteggiamento di Matilde, ancora nemmeno trentenne, fu inflessibile.

Il 26 febbraio 1076 Goffredo venne assassinato in un agguato, ed il 18 aprile dello stesso anno morì anche la madre di Matilde, Beatrice.

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Matilde si trovò così ad ereditare a trent’anni un dominio che andava dal Lazio al Lago di Garda. Oltre tutto in quegli anni il Papato, che proteggeva i Canossa, era in lite con l’Imperatore per un problema di supremazia.

Infatti, il potere al tempo era detenuto dalle due  figure concorrenti del papa e dell’imperatore, rappresentanti rispettivamente del potere religioso e di quello laico.

A partire da Carlo Magno, tutti gli  “Imperatori del Sacro Romano Impero” venivano per tradizione nominati dal Papa, ma essi potevano scegliere le massime cariche ecclesiastiche (indicando personaggi a loro fedelissimi, che quindi non mettevano in discussione la supremazia del potere imperiale sul Papa).

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Il 21 aprile 1073 fu eletto papa, direttamente dalle gerarchie cattoliche e non dall’imperatore, Gregorio VII, nato Ildebrando di Soana, abate di San Paolo fuori le mura.

Nel marzo 1074 il neoeletto pontefice tenne il tradizionale concilio annuale in Laterano, nel quale condannò tutti i chierici ordinati per simonia (compravendita di cariche ecclesiastiche); inoltre stabilì che i vescovi che avevano ottenuto dei benefici in cambio di denaro, dovevano abbandonarli immediatamente, pena la scomunica.

A distanza di un anno, il papa rinnovò i decreti contro il concubinato del clero e la simonia e ne aggiunse uno nuovo, in cui proclamava il divieto delle investiture episcopali da parte di laici. In pratica, da allora in avanti i vescovi avrebbero dovuto essere nominati unicamente dall’autorità ecclesiastica, come stabilito nel Dictatus papae, inviato a tutti i sovrani d’Europa.

Nel documento si precisava che il papa poteva anche deporre l’imperatore e che non poteva dirsi cattolico chi non era d’accordo con la Chiesa romana. Al documento aderirono la Spagna, l’Inghilterra, la Croazia, l’Ungheria, il regno di Kiev e anche i Normanni.

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Il divieto delle investiture laiche era pericoloso per l’imperatore, in quanto poteva comportare lo smembramento dei territori appartenenti al suo regno, per cui a questa mossa del papa l’imperatore rispose con un sinodo dei vescovi tedeschi a Worms  (24 gennaio 1076) che dichiararono il Papa Gregorio VII “illegittimo”, in quanto non eletto secondo le norme canoniche stabilite nel 1059.

La “dieta” dei vescovi era presieduta dal potente vescovo di Magonza, alla presenza del duca Goffredo il Gobbo e dei vescovi simoniaci. L’ex marito di Matilde, in questa occasione si vendicò della moglie, accusandola di essere l’amante del Papa.

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A questa mossa dell’imperatore seguì la scomunica papale: con questo atto il pontefice proibiva all’imperatore il governo di tutto il regno dei tedeschi e dell’Italia e scioglieva il vincolo di giuramento verso di lui di tutti i suoi sudditi cristiani.

Enrico IV vide vacillare il suo trono, poiché molti vescovi, dopo la scomunica, si allontanarono da lui ed anche gli stessi principi tedeschi cominciarono a discutere di una sua possibile successione.

Quell’anno, inoltre, fu freddissimo: questo clima fu considerato il segno di una maledizione divina contro l’imperatore, che a questo punto decise di scendere in Italia per rilanciare la lotta, appoggiandosi ai vescovi lombardi scomunicati da Gregorio VII, che erano ancora ben saldi nelle loro sedi. Il Papa si rifugiò nella rocca di Canossa, molto protetta e facilmente difendibile.

Va ricordato che Ildebrando da Soana, Papa Gregorio VII,  era una vecchia conoscenza di Matilde: a lui era infatti stata affidata, fin da piccola, la preparazione religiosa e culturale della contessina e l’abate aveva stabilito con la sua pupilla un rapporto privilegiato che si era arricchito nel tempo di stima e affetto (forse anche qualcosa di più, anche se non vi sono notizie certe in proposito).

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La lotta fra papa e imperatore provocò un periodo di grande tensione: giorni febbrili, sentiti anche dai contemporanei come un periodo eccezionale, in quanto per la prima volta un imperatore ed un papa lottavano apertamente, uno di fronte all’altro.

L’Imperatore portò il suo esercito nelle vicinanze di Canossa e s’incontrò con Matilde, che peraltro era anche sua cugina. Dopo quell’incontro, convinto dalla signora di Canossa, l’imperatore decise di vestire l’abito del penitente, presentandosi al Castello  dove era rifugiato il Papa, scalzo, vestito di sola lana e non di pelli, in una fredda giornata del gennaio 1077, dopo tre giorni e tre notti di attesa.

(Ecco perché si dice “andare a Canossa” quando si vuole intendere l’auto-umiliazione per ottenere un perdono. Questa espressione è famosa anche in altre lingue, come in quella tedesca, “nach Canossa gehen, in inglese, “go to Canossa”, in francese, “aller à Canossa”).

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Il Papato diede grande rilievo a questo ‘pentimento’, ottenuto grazie alla mediazione di Matilde. In realtà, dopo solo quindici giorni l’Imperatore, ritornato in Germania, forte del perdono papale, cominciò ad accanirsi contro i principi che gli avevano voltato le spalle e riprese a conferire investiture religiose, in cambio di denaro o di favori.

Gregorio VII reagì con una seconda scomunica, al che l’imperatore decise di scendere nuovamente a Roma, costringendo il Papa alla fuga e al rifugio presso i Normanni di Roberto il Guiscardo (presso il quale morì a Salerno, nel 1085).

Nel luglio del 1081, a Lucca,  l’imperatore Enrico IV proclamò Matilde ‘rea di lesa maestà’, con la conseguenza immediata della decadenza da tutte le funzioni pubbliche da lei detenute nel suo feudo e della confisca di tutti i suoi beni.

Matilde si rifugiò in uno dei suoi castelli appenninici, seguita dai suoi fedelissimi, mentre alcuni dei suoi conti passavano al seguito dell’imperatore. La contessa di Canossa era a questo punto veramente sola, separata fisicamente dal pontefice che la sosteneva e costretta a difendersi, mentre Enrico IV si appropriava di buona parte delle sue terre.

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La Grancontessa di Canossa non aveva né mariti, né figli che la sostenessero e non era neanche una monaca:  i seguaci dell’imperatore non le risparmiarono dunque nessuno dei più infamanti insulti, come quello di aver fatto uccidere il marito o di essere l’amante del papa.

Offesa da queste ingiurie, oltre che dalla perdita dei suoi beni, Matilde si mise nettamente contro Enrico IV, lanciandosi in battaglia per riprendersi i suoi domini padani, approfittando dell’assenza dell’imperatore.

Fece anche di tutto per far eleggere il nuovo papa, Vittore III, che si opponeva al papa eletto dall’imperatore, Clemente III. Nella lotta fra papa e antipapa prevalse Clemente III e Vittore fu costretto ad abbandonare Roma per Cassino,  dove morì, nel 1087.

Nel 1088 Enrico IV decise di scendere nuovamente in Italia e Matilde, forse proprio su suggerimento del nuovo Papa, Urbano II, decise di sposarsi nuovamente.

La scelta cadde su un rampollo dei duchi di Baviera, da sempre ostili all’Imperatore, in modo da unire due forze che lottavano entrambe contro l’odiato Imperatore.

Il secondo marito di Matilde, Guelfo il Pingue, appena sedicenne, si trovò così sposo di una donna che avrebbe potuto essere sua madre, dal carattere forte e deciso, provata da una vita intensa e difficile. Con la nuova spedizione, Enrico IV tolse a Matilde tutti i suoi averi, tranne i quattro castelli di Canossa, Monteveglio, Piadena e Nogara, che le rimasero fedeli. Mantova e le altre città da lei governate passarono invece dalla parte dell’Imperatore.

Anche Enrico IV ebbe tuttavia le sue disgrazie familiari, che cominciarono con le ribellioni dei figli Corrado ed Enrico V, il quale giunse perfino ad imprigionare il padre, che morì di crepacuore. Enrico V giunse nel 1111 ad un accordo con Matilde a Bianello, nominandola Vicaria Imperiale e reintegrandola nel dominio sul nord Italia, con eccezione della terra di Toscana.

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Tra le clausole dell’accordo tra Enrico V e Matilde c’era anche la possibilità di riconquistare Mantova, che Matilde infatti riprese nel 1114, dopo di che, ormai gravemente ammalata, si ritirò per passare l’estate nei suoi castelli appenninici. In queste terre Matilde morì, a Bondanazzo di Reggiolo, nel 1115, a 69 anni, che per quell’epoca non erano certo pochi.

Fu sepolta in un primo tempo nella badia di S. Benedetto di Polirone. Molti secoli dopo, a S. Pietro, a Roma, le fu innalzato  un grandioso monumento funebre (opera di G. L. Bernini) e le fu intitolata la cappella privata del pontefice.

Dal 1635  le sue spoglie riposano dunque in Vaticano e sono poste insieme a quelle degli apostoli e dei martiri della fede, per volere di papa Urbano VIII, il quale volle tutto questo in risposta al protestantesimo tedesco.

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Virginia Satir: una biografia

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Fu la più popolare e la più influente terapeuta familiare, in particolare fra gli anni sessanta e gli anni settanta.

Virginia Satir nacque il 26 giugno 1916 a Neillsville, Wisconsin, prima dei cinque figli di Oscar Alfred Reinnard Pagenkopf  e Minnie Happe Pagenkopf. I suoi genitori discendevano da famiglie molto numerose di origine tedesca, che si erano trasferite in America in cerca di lavoro. Alfred, il più giovane di 13 fratelli, faceva l’agricoltore e aveva scarsissima istruzione, Minnie (che aveva altri sei fratelli) dava invece maggiore importanza all’istruzione, tanto che fu lei a decidere di andare a vivere in città, in modo da dare la possibilità a Virginia, la figlia maggiore, di frequentare una scuola superiore. Eppure la madre aveva compiuto una scelta gravissima nei confronti di Virginia, quando era molto giovane, facendole rischiare la morte.

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Quando Virginia aveva cinque anni infatti si ammalò di appendicite, ma sua madre, per sue credenze religiose, si rifiutò categoricamente di portarla da un medico. Quando la malattia peggiorò, il padre decise di prendere in mano la situazione e di affidarla alle cure mediche: solo dopo molti mesi di ospedale Virginia fu dichiarata fuori pericolo.

Virginia ricordava la sua infanzia come un periodo molto bello della sua vita, nella fattoria dei suoi genitori, a contatto con la natura e gli animali e la responsabilità di prendersi cura dei fratelli minori. Da suo padre disse di aver appreso il valore dell’onestà e da sua madre il gusto di “sistemare le cose sbagliate” (che le fu poi molto utile nel lavoro con le coppie in crisi).

Era una bambina curiosa, che imparò a leggere prestissimo e a divorare tutti i libri della sua seppure minuscola biblioteca scolastica. La scuola elementare comprendeva un’unica classe, con 18 allievi che all’ora di pranzo dovevano contribuire a preparare i pasti.

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Gli anni in cui la Satir frequentò il liceo erano gli anni della Grande Depressione, anni di crisi economica spaventosa. Preso il diploma di scuola superiore, nel 1932 si iscrisse al costoso Milwaukee State Teachers College (ora University of Wisconsin-Milwaukee): per pagare la sua formazione, visto che non poteva contare sull’aiuto economico della famiglia, fu costretta a lavorare part-time  e a fare la babysitter nei week end.

Svolgeva anche opera di volontariato presso un istituto di accoglienza per persone di colore. Virginia entrò così in contatto con molti afro-americani e scoprì il fenomeno del razzismo. Si laureò in Educazione e per alcuni anni fece l’insegnante a Williams Bay, Wisconsin. Anche qui le famiglie erano poverissime e per questo Virginia prese l’abitudine di recarsi a casa dei suoi allievi per incoraggiare le famiglie a mandare a scuola i loro ragazzi. Probabilmente fu in questa fase che la Satir cominciò a coltivare l’idea di poter cambiare il mondo, cominciando dalle famiglie.

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Virginia decise di continuare gli studi come assistente sociale e si iscrisse presso la Northwestern University di Chicago nel 1937. Nel 1941 sposò Gordon Rodgers. Fu un matrimonio di guerra. I due infatti si conobbero in una stazione ferroviaria in un periodo in cui Gordon era in licenza: dopo pochi mesi doveva tornare al fronte.

Si sposarono dunque in tutta fretta e Virginia rimase incinta, ma poco dopo si accorse che la gravidanza in corso era tubarica e dovette sottoporsi a isterectomia. Virginia si laureò nel 1948, anche se aveva finito di sostenere gli esami già nel 1943: del resto non aveva smesso di fare l’insegnante, era una studentessa-lavoratrice ed inoltre, come ebbe in seguito a dire, nell’università frequentata fecero davvero di tutto per ostacolare la sua formazione, dal momento che era una donna sposata, che però non rispettava i tradizionali ruoli di moglie e madre. Quando il marito tornò dal fronte i due coniugi si accorsero di essersi ormai troppo allontanati a causa della distanza fisica e della guerra e decisero di divorziare, nel 1949.

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Nel 1951 Virginia si sposò con Norman Satir e questo matrimonio durò dal 1951 al 1957.  Fu durante questo matrimonio che la Satir decise di adottare due bambine di cui si era presa professionalmente cura, ormai divenute adulte, forse perché sentiva il bisogno di salvare il suo matrimonio, forse per empatia nei confronti delle due ragazze, forse per il desiderio di avere una famiglia, visto che non poteva avere figli. Virginia dedicò il libro The New People Making (1988) : “Alle mie figlie, Mary & Ruth e ai loro bambini Tina, Barry, Angela, Scott, Julie, John, e Michael, che mi hanno aiutata a migliorarmi”.

Può sembrare strano che una terapeuta familiare e della coppia non sia riuscita a far durare il suo matrimonio: se ne giustificava dicendo di aver capito tardi molte cose, attraverso il lavoro e il senno di poi, che può essere utile per scrivere libri, ma non per cambiare la propria vita. In ogni caso era molto legata al suo lavoro, ai viaggi che doveva fare in tutto il mondo e alle sue tante attività: una vita matrimoniale poteva conciliarsi pochissimo con tutto ciò: considerò dunque il suo essere single come un segno del destino.

Ottenuta la specializzazione in lavoro sociale, la Satir cominciò a lavorare come libera professionista e incontrò la sua prima famiglia nel 1951. Nel 1955 lavorava con il Dr. Calmest Gyros presso l’ Illinois Psychiatric Institute, diffondendo l’idea che in campo psicologico si doveva lavorare con le famiglie e non solo con i pazienti, a livello individuale.

Virginia ebbe grande successo come terapeuta e come consulente per varie scuole, data la sua capacità di lavorare anche con famiglie molto difficili. Si trasferì poi in California, dove insieme a Don Jackson e Jules Riskin fondò il Mental Health Research Institute (MHRI) di Menlo Park. Nel 1962 arrivarono dei finanziamenti del NIMH che permisero al MHRI di cominciare il primo programma di formazione per terapeuti familiari, sotto la direzione di Virginia Satir.

La Satir era molto creativa e carismatica nel suo lavoro. Era capace di indicare nuove direzioni, anche se non la interessava la ricerca scientifica su queste sue intuizioni: preferiva considerarsi un’ispiratrice. Chi lavorava con lei trovava molto emozionante assistere alle sue terapie, un po’ come “star seduti all’esterno di un aereo in volo”.

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Nel 1964 Virginia cominciò a frequentare l’ Esalen Institute, di Big Sur, California (nel 1966 lasciò il MHRI per divenire direttore dell’Esalen Institute).  In questo Istituto si praticavano anche meditazione e lavoro sul corpo: da questa nuova esperienza la Satir prese altre idee per le sue terapie, tutte centrate sul rispetto della vita umana e sul potenziale di ogni persona.Il suo crescente interesse per lo “Human Potential Movement” di Rogers, Maslow, Perls ed altri la allontanò sempre più dal mainstream della terapia familiare e di coppia, nonostante a livello popolare ne fosse rimasta uno dei leader più influenti, grazie anche ai suoi libri, che furono dei best-sellers (Conjoint Family Therapy, pubblicato nel 1964, sviluppato dal manuale di formazione scritto per gli studenti del Mental Health Institute e Peoplemaking del 1972).

Nel 1973 le fu conferita una laurea ad honorem da parte della University of Wisconsin. Nel 1974, in un dibattito pubblico con un “purista sistemico”, la Satir fu criticata per il suo zelo umanitario. Le nuove leve della scuola di terapia familiare, tutti uomini, non la apprezzavano e tendevano a marginalizzarla (Pittman, 1989).

Tra le sue  idee più innovative vi fu quella della “presentazione del problema” o “superficie del problema”: raramente il problema scelto dai pazienti era il vero problema; piuttosto erano da investigare i modi in cui le persone reagivano a quelli che consideravano i problemi. Sua grande intuizione fu anche lo studio degli effetti della scarsa autostima nella relazione.

Si interessò moltissimo al lavoro di rete, fondando gruppi che collaboravano nel campo della salute mentale, anche attraverso il mutuo aiuto. Nel 1970 organizzò “Beautiful People”, che in seguito divenne noto come”Human International Learning Network Resources”. Nel 1977 fondò la Rete Avanta, che dal 2010 si chiama Virginia Satir Global Network.

Due anni più tardi, la Satir fu chiamata nel comitato direttivo del Family Therapy International e Association e divenne membro del Comitato consultivo per il Consiglio nazionale per l’auto-stima.

Il lavoro terapeutico della  Satir aveva una linea guida, quella del “diventare più pienamente umani”. Per la Satir “la famiglia è un microcosmo: sapendo come guarire la famiglia, si è in grado di guarire il mondo”. Con questo ideale fondò gruppi di formazione professionale sul modello di intervento in Medio Oriente, in Oriente, in Europa occidentale, nell’America Centrale e Latina e in Russia. Il suo mantra universale era il seguente: “peace within, peace between, peace among” (pace dentro di sé, pace nelle relazioni intime, pace fra le persone).

A metà degli anni settanta il suo lavoro fu ampiamente studiato dai fondatori della Programmazione Neuro-Linguistica (PNL), Richard Bandler e John Grinder, che lo hanno usato come modello di comunicazione efficace.

Virginia Satir soprattutto fu l’unica donna del suo tempo a dedicarsi con successo al campo della psicoterapia familiare. A differenza dei suoi colleghi di orientamento sistemico “puro”, non pensò mai che le origini familiari delle persone non avessero un peso nel tempo presente, dal momento che anche la stessa scelta del partner è influenzata da aspetti individuali ricollegabili alle esperienze vissute.

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Secondo Virginia Satir i sintomi si sviluppano nella relazione di coppia quando le regole non che si seguono non sono adatte, quando cioè “matrimoni disfunzionali seguono regole disfunzionali che limitano la crescita personale e relazionale”. Interessante la sua definizione dei ruoli che le persone assumono nella relazione, a seconda degli stili comunicativi adoperati (“la vittima”, il  “il pacificatore”, “lo sfidante”, “il salvatore”, ecc.)

Sebbene fosse convinta della natura sistemica dei disturbi, la Satir si concentrò molto sui pensieri e sui sentimenti che la persona sente e mostra (“manifesta”) e su come reagisce alle comunicazioni con gli altri, mantenendo sempre alta l’attenzione sul  “self in the system”.

Nella sua visione, la terapia di coppia permetteva ai due partners di acquisire maggiore consapevolezza, di togliersi la maschera, di accettare e valorizzare le differenze. Gli obiettivi della terapia riguardavano la crescita, non la stabilità: per fare questo i partners dovevano prendersi cura di se stessi, avere una visione positiva della vita, cercare di comprendersi e di accettare le differenze.

Spesso, in terapia, si serviva di sculture familiari, di role playing e di movimenti di danza. Il suo metodo della “Family Reconstruction” voleva soprattutto liberare gli individui dai blocchi psicologici ereditati dalle famiglie d’origine. Il terapeuta doveva far emergere le regole familiari, i sentimenti non espressi dei due partners e porsi come modello di comunicazione per la coppia: essere un incoraggiatore, un guaritore, piuttosto che un analista intellettuale e poco coinvolto. Per lei era importante la comunicazione diretta, autentica, oltre che l’importanza di stimare se stessi e gli altri.

Al suo settantacinquesimo compleanno aveva deciso di invitare Madre Teresa, ma l’evento non ebbe luogo perché Virginia morì a 72 anni. Nel maggio 1988 aveva manifestato i primi segni di malessere nella zona addominale ed infatti le fu diagnosticato un cancro al pancreas e al fegato.

Si sottopose a chemioterapia e radioterapia, ma la malattia era troppo avanzata per essere curata. Circondata dai suoi allievi, Virginia cominciò a curarsi autonomamente con diete particolari, vitamine e minerali, ma quando vide che anche questo non aiutava, si preparò a morire con calma e rassegnazione.

Scrisse questo messaggio: “A tutti i miei amici, colleghi e familiari: vi mando il mio amore. Per favore aiutatemi nel passaggio a nuova vita. Non ho altro modo per ringraziarvi che questo. Tutti voi mi avete aiutato molto nello sviluppare la mia capacità di amare. Per questo la mia vita è stata piena e ricca, così vi lascio, provando un forte sentimento di gratitudine.

La  Satir morì il 10 settembre del 1988, non lasciando alcun erede per la sua scuola. In due indagini americane sui terapeuti familiari e della coppia più conosciuti, la Satir risultò essere la terapeuta più influente; sebbene molti suoi colleghi, anche quelli del MHRI, l’avevano considerata “una teorica confusa e naif” (Nichols & Schwartz, 1998, p. 122), si può dire che a lei dobbiamo le maggiori intuizioni sulla terapia familiare e di coppia che ancora oggi vengono utilizzate.

Dr. Giuliana Proietti

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Dr. Giuliana Proietti

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Fonti:
Wikipedia
Gurman e Fraenkel, The History of Couple Therapy: A Millennial Review, 2002
Who Virginia Was and Why She Mattered, Virginia Satir Global Network

Immagine:
Virginia Satir, Wikipedia
Vedi anche Video
Pubblicazioni in italiano di Virginia Satir

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Elisabetta d'Austria (Sissi)

Elisabetta d’Austria (Sissi)

Elisabetta d’Austria (Sissi)


La storia vera dell’imperatrice d’Austria e regina d’Ungheria, Elisabetta di Wittelsbach, è molto diversa da quella della principessa Sissi che abbiamo conosciuto nei film interpretati da Romy Schneider: “La principessa Sissi”(1955) “Sissi la giovane imperatrice” (1956) e “Il destino di una imperatrice” (1957).

Nata la vigilia di Natale del 1837, Elisabetta era una Wittelsbach, terzogenita di Massimiliano e Ludovica, duchi di Baviera, che ebbero in tutto sette figli.

Il padre, Massimiliano, era un tipo molto originale, di idee liberali. Ai figli preferiva insegnare l’amore per la natura, per i cavalli, per le passeggiate in montagna e per gli animali, piuttosto che le genealogie della casata imperiale.

Elisabetta, chiamata familiarmente Sissi, non era destinata a sposarsi con membri importanti delle altre case reali, per fini dinastici, come la sorella maggiore Elena, detta Nene, e dunque la futura imperatrice d’Austria crebbe, sin da piccola, in mezzo alla natura, sviluppando una grande passione per lo sport, non proprio usuale per una dama del suo tempo e del suo rango.

Più che di sport in realtà dovremmo parlare di semplice movimento fisico, come passeggiare, nuotare, galoppare ecc. Per fare un esempio infatti, Sissi non amava giocare a tennis, perché la necessità di dover trovare un compagno di gioco per poter fare esercizio fisico la faceva sentire in ansia. Per lei l’attività fisica era anzitutto bisogno di libertà.


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Si muoveva infatti moltissimo, con grande energia, e questa passione durò per tutta la sua vita. Quando l’artrite le impedì di cavalcare, cominciò a fare lunghe passeggiate nei boschi: in una occasione percorse 30 km impiegando solo sette ore. A sessanta anni, poco prima di morire, imparò ad andare in bicicletta.

Non uguale amore nutriva per la cultura, anche se le piaceva scrivere poesie ed apprezzava particolarmente Omero.

Nel 1853, quando Elisabetta aveva sedici anni, accompagnò sua madre e la sorella Elena  a Bad Ischl, dove dovevano incontrare il cugino, l’imperatore Franz Josef, di 23 anni, che cercava moglie. Elena era la sposa designata e, in effetti, Franz Josef non avrebbe dovuto neanche incontrare Elisabetta, ma questo avvenne casualmente e, quando la vide, se ne innamorò subito.

Otto mesi dopo questo fatidico incontro, il 24 aprile 1854, Elisabetta e Francesco Giuseppe (come lo conosciamo in Italia) si sposarono nella chiesa di Sant’Agostino a Vienna, con festeggiamenti della durata di una settimana.

Sissi era una delle principesse più belle d’Europa. I suoi capelli, di cui andava orgogliosa, le arrivavano fino al pavimento : la loro cura la occupava circa tre ore al giorno. Ma Sissi non curava solo i capelli, si prendeva maniacalmente cura del corpo e della sua linea.

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In particolare voleva mantenere il suo peso corporeo a 50 kg (era alta 1 metro e 72 cm) ed avere un punto vita di 47 centimetri. Per raggiungere questo scopo si imponeva delle diete rigidissime e del movimento continuo. Nessuno a quell’epoca poteva dirle che soffriva di anoressia, ma era così.

Per non perdere la linea non avrebbe voluto nemmeno fare figli, ed invece ne ebbe quattro, perlopiù affidati alle cure della suocera: Sofia, che morì a due anni, Gisella, Rodolfo e Valeria, la figlia prediletta, l’unica amata da Sissi e considerata come una figlia unica.

Le gravidanze e le successive diete per riacquistare il peso-forma (secondo i suoi standard), aumentarono la sua irritabilità e le provocarono insonnia. Seguiva anche delle diete naturali da lei stessa inventate, come la carne cruda, il sangue di bue crudo, moltissimo latte.

Nonostante i lunghi preparativi e insegnamenti che Elisabetta aveva ricevuto per la sua nuova vita come Imperatrice d’Austria, nulla poteva prepararla alla rigidità della corte, né ai critici giudizi della suocera, l’arciduchessa Sofia (sorella di Ludovica e zia di Elisabetta), che avrebbe voluto Nene come nuora.

Anche l’aristocrazia viennese si prendeva gioco di lei e dei suoi comportamenti, ritenuti assolutamente fuori luogo nell’ingessatissimo ambiente di corte. La chiamavano la “duchessa con gli zoccoli”.

Tutto questo portò Sofia ad essere molto rigida con quella che considerava una nuora infantile e maleducata e questo inasprì ulteriormente l’etichetta di corte, fino al punto che Sissi cominciò a sentirsi in gabbia.

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Per questo cominciò a viaggiare, ogni volta sempre più lontano dall’Austria, alla ricerca di qualsiasi forma di fuga: Possenhofen, la casa della sua infanzia, Madeira, Corfu, furono tutti luoghi in cui Sissi cercava di riguadagnare parte dell’indipendenza perduta dei suoi anni più giovani.

Per non rinunciare al latte fresco, durante i suoi viaggi si portava dietro le mucche e le capre. Beveva anche il Kéfir, una bibita dovuta alla fermentazione di alcuni batteri nel latte: era molto conosciuta in Russia ma non ancora nel Centro Europa.

Tornata a Vienna, con grande rabbia e stupore da parte della arciduchessa Sofia, Sissi cominciò ad appassionarsi alla causa del popolo ungherese.

L’Ungheria era la spina nel fianco dell’Impero e i rivoluzionari magiari erano visti come il fumo negli occhi da Francesco Giuseppe e dalla madre Sofia. Niente di meglio per Elisabetta, per conquistarsi un suo ruolo pubblico di rilievo.

Si interessò tanto alla causa che riuscì a portare a termine un trattato e ad essere incoronata, insieme al marito, l’8 giugno 1867, regina d’Ungheria. Di questo paese amava la letteratura, la musica, la gente. Anche la sua ultima figlia era nata in questo paese e per questo la chiamava ‘la figlia ungherese’.

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Il popolo magiaro era entusiasta della sua regina, cui dedicò innumerevoli strade, piazze e statue, ma poco dopo, raggiunto lo scopo che si era prefisso, l’interesse di Sissi per questa causa svanì

Anche come madre e come suocera, Sissi non ebbe il massimo delle soddisfazioni. Suo figlio Rodolfo, l’erede al trono, si sposò con Stefania, principessa del Belgio (chiamata da Sissi ‘la insignificante bifolca’).

L’inizio del matrimonio fu felice, nacque una figlia, Elisabetta, ma poi si deteriorò. Rodolfo chiese l’annullamento del matrimonio al Papa, ma non lo ottenne e per questo cominciò ad odiare il padre, cattolico osservante, che aveva firmato un concordato con la Chiesa, cui veniva riconosciuta l’autorità dei tribunali ecclesiastici.

Stefania si innamorò di un conte polacco e Rodolfo, malato di nervi, con la sifilide, cominciò a combattere la depressione con dosi sempre più forti di morfina. Fragile e infelice, fu trovato morto il 30 gennaio 1889, insieme alla sua giovane amante, Maria Vetsera, nel castello di Mayerling.

Si parlò di un doppio suicidio. Questa morte, dalla quale Sissi non si riprese mai più, rappresentava non solo il fallimento della vita privata della famiglia imperiale, ma anche un grave problema sotto l’aspetto dinastico. Non essendoci altri figli maschi infatti, il trono avrebbe dovuto passare al fratello di Francesco Giuseppe, Carlo Lodovico, che però morì per la febbre tifoidea, contratta durante un pellegrinaggio in terra santa.

(Per la cronaca, erede al trono fu Francesco Ferdinando, uomo che odiava ungheresi, ebrei e italiani. Nel 1914 Francesco Ferdinando venne assassinato assieme alla moglie a Sarajevo, in Serbia. Questo episodio spinse l’Austria a dichiarare guerra alla Serbia, in difesa della quale si fece avanti la Russia e così si scatenò la prima guerra mondiale. Ma questo accadde molti anni dopo la morte di Sissi…).

Tornando a Sissi, nel 1870 decise di ritirarsi a vita privata, lasciando il marito tra le braccia della sua storica amante, l’attrice Katharina Schratt, e lei tornò a viaggiare in Europa,di solito sotto il nome di “Contessa Hohenembs”.

Fu così che un giorno, sulle rive del lago di Ginevra, durante uno dei suoi viaggi, trovò la morte, per mano di Luigi Luccheni, un anarchico italiano che aveva scoperto la visita di Elisabetta a Ginevra tramite un giornale. Era il 10 Settembre 1898 e Sissi aveva 60 anni.

Luccheni uccise l’Imperatrice con un punteruolo. La ferita era inizialmente così piccola che il sangue fuoriusciva molto lentamente.  Elisabetta non si rese subito conto dell’entità della ferita, ma poi crollò sulla barca e poco dopo morì.

Luccheni non aveva una vera ragione per uccidere Sissi: lui voleva in realtà uccidere il Principe di Orleans, che però non era a Ginevra, quindi Sissi si era semplicemente trovata nel posto sbagliato, nel momento sbagliato. (Luccheni fu condannato all’ergastolo e, durante questo, si suicidò).

Molti dissero che Sissi era stata una pazza. Quasi sicuramente non lo era: semplicemente era una ragazza troppo giovane e impreparata per il ruolo che si era trovata a sostenere.

Il suo corpo riposa nella cripta imperiale di Vienna, la Kaisergruft, e la sua tomba è solitamente ricoperta di fiori. Sulla sua vita sono stati scritti libri, musical e film, il più famoso dei quali fu interpretato dall’attrice Romy Schneider nel ruolo della protagonista.

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James Joyce: una delle figure letterarie più significative

James Joyce: una delle figure letterarie più significative

James Joyce: una delle figure letterarie più significative


James Augustine Aloysius Joyce è una delle figure letterarie più significative del Ventesimo Secolo, anche se nella sua carriera faticò moltissimo a pubblicare i suoi libri e fu aspramente criticato e censurato.

Nacque a Dublino, il 2 febbraio 1882 in una famiglia molto cattolica e osservante, non particolarmente agiata. Suo padre, John Stanislaus Joyce, era un gentleman impoverito, che aveva precedentemente fallito nella conduzione di una distilleria e che per sopravvivere tentava varie professioni, dal politico al doganiere, all’agente delle tasse. La madre, Mary Jane Murray, dieci anni più giovane del marito, era una esperta pianista, molto cattolica.

I Joyce erano poveri, ma cercavano di mantenere uno stile di vita da classe media. Infatti, James fu mandato a studiare presso il prestigioso Clongowes Wood College, gestito dai gesuiti, a Clane, dove mostrò di essere uno studente modello, particolarmente portato per le lingue straniere. Quando la famiglia si impoverì ulteriormente, James, grazie agli ottimi voti, poté essere accolto gratuitamente presso il Belvedere College (1893-1897), un collegio gesuita. La sua educazione cattolica, che poi l’autore rinnegherà, e le esperienze di questi anni furono rievocate nel romanzo autobiografico “Ritratto dell’artista da giovane”.

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Nel 1897 Joyce vinse il suo primo premio, per la migliore composizione in territorio irlandese, per la sua classe di età. Si iscrisse poi all’University College di Dublino. nel 1898, dove studiò lingue moderne: in particolare inglese, francese e italiano. In questo periodo iniziò a leggere Henrik Ibsen, San Tommaso d’Aquino e W.B. Yeats e si batté per la libertà di espressione e per l’uguaglianza fra uomini e donne.

Il 31 ottobre 1902 Joyce conseguì la laurea e decise di andare a studiare medicina a Parigi. In realtà smise presto di frequentare le lezioni e cominciò a scrivere per alcuni giornali, fra cui il Daily Express.

Quando la madre si ammalò gravemente di cancro, nel 1904, James tornò a Dublino. Dopo poco sua madre morì e la situazione finanziaria della famiglia, già molto grave, peggiorò ulteriormente. Il 10 giugno Joyce incontrò Nora Barnacle, una cameriera che rimarrà insieme con lui per tutta la vita.

Il loro primo appuntamento è il 18 giugno 1904, giorno in cui si svolge la sua principale opera, l’Ulisse. La coppia James-Nora era contraria al matrimonio, ma all’epoca vivere insieme nella propria città sarebbe stato impossibile, per cui decisero di lasciare l’Irlanda ed andare a vivere a Pola e a Trieste, dove James trovò un posto precario come insegnante di inglese presso la Berlitz School of Languages.

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Joyce era un uomo dal carattere anticonformista e ribelle, come si può capire leggendo i suoi romanzi, a cominciare dal saggio autobiografico “Ritratto dell’artista da giovane”, un romanzo di formazione in cui possiamo leggere tutta l’ansia conoscitiva dell’autore verso il problema dell’esistenza umana. Il protagonista, Stephen Dedalus è un anticonformista, ribelle al dogmatismo sociale.

Nel 1905 lo raggiunse a Trieste il fratello Stanislaus, con il quale però nacquero presto dei dissidi perché il fratello non apprezzava le frivolezze di James nello spendere i soldi e la sua abitudine di bere. A Trieste nacquero anche i figli Giorgio e Lucia, che crebbero parlando il dialetto triestino. In questo periodo Joyce si innamorò di Anny Schleimer, la figlia di un banchiere austriaco, mentre Roberto Prezioso, editore del quotidiano Il Piccolo della Sera, corteggiava Nora. Nonostante queste distrazioni, la coppia rimase unita.

Nel 1907 Joyce pubblicò Chamber Music (Musica da Camera) una raccolta di liriche con vocali aperte e ripetizioni che si prestano ad essere musicate, come poi è in effetti successo. (Peraltro Joyce aveva una bella voce da tenore ed amava l’opera ed il bel canto). In questi anni iniziarono per Joyce dei gravi problemi alla vista (irite, infiammazione dell’iride e dei corpi ciliari). Oltre ai problemi di cuore, agli incubi, alle fobie e all’irite, Joyce contrasse una forma di febbre reumatica che lo debilitò per molti mesi, riducendolo inizialmente quasi alla paralisi.

A Trieste Joyce conobbe anche Italo Svevo, allora un oscuro impiegato che si dilettava nella scrittura e che fu per Joyce un prototipo di Leopold Bloom, tanto che molti dettagli sull’ebraismo inclusi nell’Ulisse gli furono riferiti proprio da Svevo. Oltre che con l’insegnamento, Joyce si guadagnava da vivere facendo il rappresentante di stoffa irlandese, il giornalista e il conferenziere.

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Nell’agosto del 1908 i Joyce persero il terzo figlio, in seguito ad un aborto. Nello stesso periodo Joyce prese lezioni di canto al Conservatorio di Musica di Trieste e l’anno successivo prese parte all’opera I maestri cantori di Norimberga di Richard Wagner.

Nel 1909 tornò a Dublino, dove aprì un cinema, il Volta, che dopo un iniziale successo si trasformò in un fallimento, il che lo convinse a tornare a Trieste con la sorella Eileen.

Nel 1912 tornò in Irlanda, per cercare di convincere Maunsel & Co a pubblicare Dubliners, ma senza successo. Questa fu l’ultima volta che Joyce mise piede nella sua Irlanda. Nell’aprile dello stesso anno si recò a Padova per sostenere gli esami di abilitazione all’insegnamento nelle scuole italiane, ma nonostante il buon esito, il suo titolo non fu mai riconosciuto in Italia.

Conobbe a questo punto della sua vita il poeta Ezra Pound grazie al quale pubblicò a puntate Ritratto dell’artista da giovane sulla rivista The Egoist. Ispirato al suo precedente manoscritto Stephen Hero il libro segue la vita del protagonista Stephen Dedalus,dalla giovinezza alla maturità, ai suoi anni di educazione presso l’University College di Dublino. Stephen prende la religione in modo molto serio, ma poi rifiuta il cattolicesimo sostenendo di voler essere se stesso, attraverso il silenzio, l’esilio e l’astuzia.


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Nel 1914 uscirono in volume i racconti di Gente di Dublino. Joyce iniziò poi a lavorare all’ Ulisse e ad Esuli, l’unico pezzo teatrale dell’autore, che vedrà la luce nel 1918. Il 1914 è l’anno dunque della svolta, dei primi successi, ma è anche l’inizio della prima guerra mondiale.

La famiglia Joyce si trasferì in Svizzera, a Zurigo, dove James iniziò a scrivere i primi capitoli di Ulisse (il libro fu pubblicato dapprima in Francia, mentre in Inghilterra e in America la censura al libro fu tolta solamente nel 1933). Terminata la guerra, i Joyce tornarono a Triste, ma trovarono cambiata la loro città d’adozione. Ezra Pound li invitò dunque a Parigi, dove dovevano rimanere una settimana ed invece rimasero venti anni. Qui Joyce strinse amicizia con Wyndham Lewis, T.S.Eliot e la libraia/editrice Sylvia Beech.

Nel 1921 Joyce terminò la stesura di Ulisse, che venne pubblicato dall’editore Sylvia Beach il 2 febbraio 1922, giorno del quarantesimo compleanno dell’autore.Nel libro vi è la descrizione della vita e dei pensieri del protagonista, lungo l’arco di una intera giornata. Il romanzo si compone di diciotto capitoli, ognuno dei quali si svolge nell’arco temporale di un’ora, dalle otto di mattina alle due di notte; ogni capitolo rimanda a precise sezioni del poema di Omero, ed è scritto in uno stile diverso in ogni capitolo, con moltissimi riferimenti letterari e culturali. I protagonisti principali sono Leopold Bloom, la moglie Molly, e Stephen Dedalus, già protagonista del Portrait of the Artist as a Young Man. Essi sono le moderne controparti di Telemaco, Ulisse e Penelope. Le cameriere sono le sirene. Dublino viene descritta nei minimi particolari; l’autore non manca inoltre di soffermarsi sullo squallore e sulla monotonia della vita nella capitale irlandese. Lo stile è molto originale, in particolare per le azioni, che spesso accadono unicamente nella mente dei personaggi e per la tecnica dei flussi di coscienza e dei flashback.


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L’anno successivo Joyce iniziò la stesura di Work in progress, che occupò i sedici anni successivi ed uscì nel 1939 col titolo Finnegans Wake. In questo romanzo, La veglia di Finnegan, lo sperimentalismo strutturale e verbale già utilizzato nell’Ulisse si accentua ancora di più, con numerose allusioni al mito e alla storia, oltre che alla storia personale dell’autore, con una mescolanza di più lingue. Vengono inoltre creati, per combinazione o incastro, dei vocaboli del tutto nuovi, che determinano un intricato sovrapporsi di significati e di possibili interpretazioni. Ai molti lettori che ritennero il libro “incomprensibile” Joyce chiese di “dedicare la loro intera vita alla lettura dei suoi libri”. Quando lo scrittore americano Max Eastman gli chiese perché aveva scritto un libro in uno stile così difficile da capire la risposta fu: “To keep the critics busy for three hundred years.”

Ulisse e La veglia di Finnegan sono stati considerati dei romanzi psicoanalitici, grazie alla minuziosa esplorazione dei vari stati di coscienza dei personaggi, per l’utilizzo dei sogni e del simbolismo associato al sogno, oltre che per l’uso del linguaggio, simile alla libera associazione psicanalitica. Del resto Joyce è uno scrittore che opera in piena epoca freudiana: conosce la psicoanalisi dapprima a Trieste, che allora faceva ancora parte dell’Impero austro-ungarico, e poi la approfondisce a Zurigo, dove lavorava Carl Gustav Jung. Joyce aveva dunque letto Freud e Jung e tale conoscenza psicoanalitica venne utilizzata nella profonda esplorazione dell’inconscio dei suoi personaggi.

Nel 1927 uscì la raccolta Poesie da un soldo. L’anno successivo Joyce si sottopose ad un’operazione agli occhi. Dal 1917 al 1930 Joyce ebbe diversi interventi agli occhi ed in molti periodi della sua vita restò totalmente cieco.

Nel 1931, dopo la morte del padre, per ragioni testamentarie sposò Nora. A quel tempo Joyce aveva conosciuto un giovane fresco di studi, Samuel Beckett, che si era letteralmente innamorato del lavoro di Joyce e che per questo decise di assisterlo e di aiutarlo nel suo lavoro. La figlia di Joyce, Lucia, si innamorò perdutamente di questo collaboratore del padre ma, non ricambiata, cominciò a mostrare i primi segni di follia.

Nel 1934 prima pubblicazione in USA dell’Ulisse. In questo periodo Joyce si reca spesso in Svizzera per essere vicino a Lucia, che era ricoverata in una casa di cura e che in quello stesso anno era stata anche paziente di Jung per un breve periodo. (Lucia, nata nel 1907, morì in un ospedale psichiatrico di Northampton, in Inghilterra, nel 1982).

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Dopo l’uscita di Finnegans Wake, sia per le dure critiche al romanzo che per l’invasione nazista di Parigi, la depressione di cui già soffriva Joyce si accentuò. Alla fine del 1940 si trasferì a Zurigo, dove l’11 gennaio 1941 venne operato per un’ulcera duodenale. Il giorno successivo entrò in coma e morì alle due di mattina del 13 gennaio 1941. Il suo corpo venne cremato e le sue ceneri si trovano nel cimitero di Fluntern, nei pressi del giardino zoologico di Zurigo, come quelle di Nora e di suo figlio Giorgio.

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Lucio Battisti

Lucio Battisti e il suo canto libero

Lucio Battisti rappresenta sicuramente per la canzone italiana quello che i Beatles hanno rappresentato nel mondo per il pop ed il rock’n’roll.

Non a caso, quando morì, il 9 Settembre del 1998, il New York Times scrisse che Battisti è stato “il più famoso cantante pop italiano, paragonato a volte a Bob Dylan, non per il contenuto politico delle sue canzoni, ma per aver definito un’era”.

La musica italiana moderna si è evoluta moltissimo grazie a questo grande cantautore, compositore e produttore discografico: il suo lavoro ha rappresentato una rivoluzione, dato che è riuscito definitivamente a cambiare i gusti musicali degli italiani.

Battisti era apprezzato da tutti i ragazzi degli anni sessanta-settanta, sebbene fosse un tipo introverso e scontroso, che oltre tutto andava sempre contro-corrente. Basti pensare che, in piena contestazione giovanile, lui incideva canzoni d’amore. Eppure, quelle canzoni piacevano, perché erano nuove, e soprattutto perché erano vere, parlavano di emozioni e sentimenti autentici, che ciascuno poteva vivere nel suo privato.

Battisti non si poteva definire un cantante ‘bravo’, almeno secondo la tradizione della canzone italiana: sicuramente non aveva una voce limpida e squillante sul genere del riconosciuto “reuccio della canzone italiana”, Claudio Villa, oppure dei più o meno coetanei cantanti melodici Gianni Morandi o Massimo Ranieri.  Il fatto, dunque, che Battisti sia riuscito ad imporre al pubblico anche i suoi limiti vocali (timbro di voce quasi rauco e scarsa estensione), la sua immagine poco curata, i suoi modi di fare poco formali, dimostra una grande forza di carattere ed una personalità solida e ben strutturata, al di là delle apparenze.

Lucio Battisti era nato a Poggio Bustone, in provincia di Rieti, il 5 Marzo del 1943 (un giorno dopo Lucio Dalla). Poggio Bustone è un paesetto in collina, dove la maggior parte delle persone fa di cognome Battisti, perché sono tutti imparentati. Non a caso i suoi genitori, Alfiero e Dea, avevano entrambi il cognome Battisti. Il padre era ufficiale giudiziario, la madre casalinga: due persone semplici, che oltre a Lucio avevano un’altra figlia, Albarita.

Nel 1950 i Battisti si trasferirono nella vicina Roma, mantenendo ancora strettissimi legami con il paese di origine, che frequentavano soprattutto in estate. Di Lucio bambino si sa poco, tranne il fatto che era un bambino introverso e con problemi di peso. Così si descrisse egli stesso in un’intervista del dicembre 1970 rilasciata alla rivista Sogno: “I capelli ricci li avevo anche da bambino e così lunghi che mi scambiavano per una bambina. Ero un ragazzino tranquillo, giocavo con niente, con una matita, con un pezzo di carta e sognavo. Le canzoni sono venute più avanti. Ho avuto un’infanzia normale, volevo fare il prete, servivo la messa quando avevo quattro, cinque anni. Poi però una volta, siccome parlavo in chiesa con un amico invece di seguire la funzione, io sono sempre stato un grosso chiacchierone, un prete ci ha dato uno schiaffo a testa. Magari dopo sono intervenuti altri elementi che mi hanno allontanato dalla chiesa, ma già con questo episodio avevo cambiato idea”.

Probabilmente fu questo suo carattere scontroso che lo portò a cercare rifugio nella musica, che conosceva molto bene, sebbene l’avesse appresa come autodidatta, seguendo le lezioni occasionali di un suo amico elettricista. Lucio prese il diploma di perito industriale nel 1962, poi decise di dedicarsi alla musica e fare il cantante. Il padre non era d’accordo e si narra che una volta prese una delle chitarre di Lucio e gliela ruppe in testa…

La prima esperienza in un complesso musicale è nell’autunno 1962 come chitarrista de “I Mattatori”, un gruppo di ragazzi napoletani. Poi si unì a “I Satiri”. Nel 1964 Lucio Battisti andò in cerca di fortuna a Milano, dove cominciò a suonare con “I Campioni”, un complesso che aveva accompagnato Tony Dallara e con loro andò a suonare in Germania e in Olanda.. Tornato a Milano, Lucio si trasferì in un monolocale praticamente privo di arredamento, tranne le sue chitarre e qualche mobile rimediato qua e là. Con il suo gruppo si esibiva tutte le sere in un locale milanese e così tirava avanti.

Nel 1965 Lucio Battisti venne notato da una giovanissima discografica francese, Christine Leroux, la quale si accorse subito del talento del cantante, anche se i suoi testi lasciavano un po’ a desiderare: per questo gli presentò il già affermato paroliere Giulio Rapetti, in arte Mogol. Nacque così il più grande binomio della musica leggera italiana: Mogol-Battisti, una ‘ditta’ che produrrà un successo discografico dopo l’altro, sbancando le classifiche e che lascerà anche nel linguaggio comune, alcune espressioni particolari come: “Non dovevamo vederci più?”, “Una donna per amico”, “Tu chiamale se vuoi, emozioni”, “Lo scopriremo solo vivendo” e tante altre.

Nel 1966 Lucio cantò al Festival di Sanremo la canzone “Adesso si”, composta da Sergio Endrigo, cui seguì il primo 45 giri “Dolce di giorno” e “Per una lira”, con modestissimi risultati di vendite. Le due canzoni vennero poi portate al successo rispettivamente dai Dik Dik e dai Ribelli. Lo stesso anno Lucio firmava il suo primo contratto come cantante con la Casa Ricordi.

Alla Ricordi mostrò subito il suo carattere poco accomodante e non si accontentò di quello che gli offrivano , sebbene lui fosse ancora uno sconosciuto e la Casa Discografica una delle più prestigiose in Italia: pretese una percentuale in più ogni centomila dischi venduti, fino a raggiungere il triplo dei diritti, se avesse superato il milione di copie. Accettarono: chi poteva aspettarsi allora quello che sarebbe divenuto a breve il fenomeno Lucio Battisti?

Nel 1967 Mogol e Battisti firmarono i brani “29 settembre”,  che si classificò al primo posto nella hit parade e  “Nel cuore, nell’anima”, entrambi interpretati dall’Equipe 84.

Nel 1968 iniziò la carriera come solista, con “Balla Linda”, con la quale partecipò al Cantagiro, arrivando quarto ed entrò, per la prima volta con una canzone da lui interpretata, in hit parade.

Nel 1969 partecipò a Sanremo con “Un’avventura“, in coppia con Wilson Pickett, uno dei principali esponenti della soul music, classificandosi al nono posto. Naturalmente il confronto fra il gigante Pickett e l’esordiente Battisti fu commentato in modo sarcastico dai critici di turno: si scrisse che era “impacciato”,  che aveva «chiodi che gli stridono in gola» che era un «selvaggio», al pari di Pierino Porcospino o Attila, re degli Unni. Il 45 giri aveva per lato B “Non è Francesca”.  Un mese dopo uscì un altro singolo, che conteneva  le canzoni  Acqua azzurra, acqua chiara”, con cui vinse il Festivalbar, e “Dieci ragazze”. Questi due brani divennero i tormentoni estivi del 1969.

A Ottobre dello stesso anno nuovo 45 giri, nuovi successi:  “Mi ritorni in mente” e “7 e 40”. Altri successi di Battisti, cantati da altri, furono “Questo folle sentimento“, della Formula 3, “Mamma mia”, dei Camaleonti e “Il paradiso”, di Patty Pravo.

In questo periodo Lucio conobbe Grazia Letizia Veronesi, sua futura compagna e poi moglie: allora segretaria del Clan Celentano.

Lucio Battisti piaceva a tutti, malgrado il suo look non fosse considerato ottimale per creare appeal sul pubblico: quei capelli così ricci e scomposti, quel foulard sempre legato al collo, come aveva imparato da suo zio Arturo… Ma fu il 1970 l’anno magico di Lucio, in cui incise  ‘Il tempo di morire’ e, soprattutto, ‘Fiori rosa, fiori di pesco’, con la quale vinse il Festivalbar, raggiungendo il primo posto in hit parade. Intanto l’amicizia con Mogol si consolidava, tanto che i due costruirono delle ville confinanti vicino Molteno, in provincia di Lecco, al centro di un grande faggeto.

A Ottobre del 1970 uscì il singolo Emozioni/Anna, due grandissimi successi, cui seguì l’anno successivo un altro singolo che fece la storia della musica leggera italiana: Pensieri e parole/Insieme a te sto bene

Anche Mina decise di incidere una canzone firmata Mogol-Battisti e nacque così ‘Insieme’, un altro successo che è diventato un classico, cui seguì ‘Io e te da soli’ . Patty Pravo incise ‘Per te’. Questi dischi vendettero milioni di copie.

Nel 1971 Lucio Battisti decise di lasciare la Ricordi e di passare ad una Casa Discografica fondata dagli amici Mogol e Sandro Colombini, la ‘Numero Uno’, per cui pubblicò un altro hit: La canzone del sole/Anche per te.

Nel 1972 Battisti partecipò alla trasmissione televisiva Teatro 10 in cui si esibì dal dal vivo in un duetto con Mina, interpretando un medley composto da InsiemeMi ritorni in menteIl tempo di morireE penso a teIo e te da soliEppur mi son scordato di te ed Emozioni. Questa esibizione, oltre ad essere l’ultima in Italia di Lucio, è anche considerata una delle più importanti della musica pop italiana. Lo stesso anno  uscì l’album Umanamente Uomo che contiene varie canzoni di successo, fra cui “I giardini di marzo” e l’album “Il mio canto libero”,  che rimase in testa alle classifiche per 11 settimane. Passò meno di un anno ed uscì ‘Il nostro caro angelo’, un LP nel quale spiccava ‘La collina dei ciliegi’.

Nel 1973 nacque il figlio Luca, ma Lucio e Letizia non si sposarono nemmeno in questa occasione (lo faranno solo nel 1976). L’anno successivo Battisti pubblicò ‘Anima latina’ con ritmi sudamericani e testi più criptici, rispetto a quelli della vita quotidiana, cui generalmente si ispirava Mogol. Poi silenzio per due anni. Il 16 luglio 1975 il figlio Luca, che aveva all’epoca due anni e quattro mesi, sfuggì per poco a un tentativo di rapimento a scopo di estorsione, dal quale si salvò solo grazie al pronto intervento della babysitter.

Nel 1976 un altro successo: ‘Ancora tu’, primo in hit parade per quattro mesi. L’album ebbe successo anche in Spagna ed in Sud America.

Il 1976 è l’anno della ‘scomparsa’ di Lucio Battisti: da questo momento il cantante scelse l’isolamento, non si vide più in televisione, non rilasciò interviste, non frequentò più locali pubblici. In una intervista del 1979 (OndaRock) disse: «Tutto mi spinge verso una totale ridefinizione della mia attività professionale. In breve tempo ho conseguito un successo di pubblico ragguardevole. Per continuare la mia strada ho bisogno di nuove mete artistiche, di nuovi stimoli professionali: devo distruggere l’immagine squallida e consumistica che mi hanno cucito addosso. Non parlerò mai più, perché un artista deve comunicare solo per mezzo del suo lavoro. L’artista non esiste. Esiste la sua arte.»

Gli album pubblicati fra il 1977 ed il 1980 sono considerati i più commerciali tra quelli realizzati da Battisti. Fra questi, ‘Una donna per amico’.

Il tentativo di sfondare nei paesi anglofoni con l’album ‘Images’, di questo periodo, contenente una raccolta delle sue canzoni, fu un flop, anche per le cattive traduzioni e la cattiva pronuncia inglese di Battisti.

Nel frattempo il rapporto con Giulio Rapetti stava prendendo una brutta piega. Pare che le loro discussioni fossero furiose, soprattutto per questioni di denaro e di gelosia. Mogol non poteva sopportare le intrusioni nel loro lavoro della moglie di Battisti. Il cantante parlò di queste incomprensioni, nel 1979«Il nostro rapporto è il rapporto di due persone di questo tempo che dopo tanti anni di lavoro assieme […] improvvisamente, per divergenze di interessi, si sono messi ognuno su una sua rotaia, su una sua strada, per cui adesso da quattro o cinque anni a questa parte ci vediamo al massimo un mese all’anno. […] È l’esperienza di due persone che stanno diventando completamente diverse.»

Nel 1980 uscì ‘Una giornata uggiosa’, ultimo disco firmato insieme a Mogol.

Nel 1982 arrivò ‘E già’, con i testi firmati dalla moglie Grazia Letizia Veronesi, in arte Velezia : la critica accolse con estrema freddezza questo album, pur riconoscendo l’audacia degli arrangiamenti e della strumentazione, tutta elettronica. Nel 1986 uscì ‘Don Giovanni’, i cui testi erano firmati dallo sconosciuto Pasquale Panella, un poeta che conferiva alle musiche di Battisti un vago e surreale ermetismo poetico. Nel 1988 uscì ‘L’apparenza’, firmato sempre con Panella e sempre accolto freddamente. In tutto, la produzione Panella-Battisti è di cinque dischi.

Con Panella le canzoni di Battisti subirono una svolta radicale; i testi del poeta erano molto diversi da quelli scritti in precedenza da Mogol: di difficile comprensione, densi di giochi di parole e doppi sensi e inoltre gli album non venivano pubblicizzati in alcun modo, per cui le vendite inesorabilmente calavano. La critica non accolse bene questi album e il successo di pubblico andò sempre più scemando. Ciò nonostante, vi sono alcuni cultori di Battisti che ritengono questo periodo di collaborazione Battisti-Panella come il più interessante nella produzione artistica del cantante.

Il 9 settembre 1998 Lucio Battisti morì, senza salutare il suo pubblico, che sperava da anni nel suo ritorno sulle scene: fu la scomparsa definitiva, dato che questa volta non si poteva sperare in un ripensamento. Non si sono mai sapute le ragioni della sua morte prematura e al suo funerale poterono partecipare solo 20 persone, fra cui Mogol.

E’ sepolto a Molteno, sua ultima patria, in provincia di Lecco, dove tutt’ora vivono la moglie Maria Grazia ed il figlio Luca.

Forse, se non vi fosse stata l’abbinata Mogol-Battisti, il cantante laziale non sarebbe mai diventato il mito che è. Molti suoi critici sostengono che fu Mogol, nome d’arte di Giulio Rapetti, a rendere le canzoni di Battisti così innovative nel linguaggio, facendone dei bozzetti di vita quotidiana nei quali gli ascoltatori potevano riconoscersi ed identificarsi.

La vedova di Battisti, Grazia Letizia Veronese, decise da subito di adottare una politica fortemente protezionistica nei confronti della musica di Lucio, bloccando manifestazioni e pubblicazioni di album e video. Per questa ragione le canzoni di Battisti non possono circolare su Internet, non possono essere usate nelle pubblicità, ecc., per cui i giovani non possono conoscere bene questa immensa stella italiana della musica pop degli anni settanta.

Il 9 aprile del 2018 sono trascorsi venti anni dalla morte del cantante e tutti sperano che le canzoni di Lucio possano tornare a circolare.

Ci associamo al pensiero della figlia di Giorgio Gaber, Dalia Gaberscik: Quando l’eredità artistica di un grande cantautore non è resa disponibile per le nuove generazioni è sempre un grande peccato. Non conosco i dettagli giudiziari della vicenda Battisti né le intime motivazioni della famiglia e quindi non posso giudicarle. Posso solo dire che, da figlia di un grande artista e da semplice fruitrice di arte, mi piacerebbe che le cose andassero in un altro modo. E che l’immenso patrimonio della produzione di Lucio Battisti fosse considerato un bene comune, accessibile a tutti”.

Giuliana Proietti

Imm. Wikimedia

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