Innamorarsi del/della Terapeuta

Innamorarsi del/della Terapeuta

INNAMORARSI DEL/DELLA TERAPEUTA

Saluto del CIS - Dr. Walter La Gatta

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 Innamorarsi del proprio o della propria terapeuta è un’esperienza più comune di quanto si pensi. Spesso genera confusione, imbarazzo o senso di colpa in chi la vive, ma è importante riconoscere che si tratta di una dinamica psicologica comprensibile, che ha radici nel funzionamento stesso della relazione terapeutica. Comprendere il “perché” succede, “come affrontarlo” e “in che modo gestirlo in modo costruttivo” può trasformare questa esperienza in un’occasione preziosa per la crescita personale. Cerchiamo di saperne di più.

Perché ci si innamora del/la terapeuta?

La relazione terapeutica è una delle più intime e protette che si possano vivere. Si tratta di un legame basato sull’ascolto, sulla cura e sull’assenza di giudizio, in cui il/la terapeuta si mostra disponibile, presente e comprensivo/a. In un contesto così particolare, è normale che si attivino forti emozioni. Dal punto di vista psicologico, questo fenomeno è noto come “transfert“.

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Cosa è il transfert?

Il transfert si ha quando il/la paziente può proiettare sul/la terapeuta emozioni, desideri o bisogni affettivi che originano da relazioni passate, spesso con figure genitoriali o altre persone significative. Il transfert può assumere diverse forme, tra cui anche l’innamoramento.

Non si tratta di un “vero amore” in senso relazionale, ma di un investimento emotivo che riflette bisogni profondi, talvolta inconsapevoli. La figura del/della terapeuta, proprio per il suo ruolo di contenimento, affidabilità e cura, può attivare desideri di fusione, idealizzazione e dipendenza affettiva.

Chi ha parlato per primo di transfert?

Freud conosceva bene questo problema, per averlo vissuto indirettamente attraverso l’esperienza di Breuer con Anna O. , oltre che su se stesso: ritenne tuttavia che questi sentimenti di traslazione (come definì il transfert in altri scritti) dovessero essere considerati come ulteriori dati scientifici forniti dai pazienti, che andavano integrati e capiti dal terapeuta, allo scopo di facilitare il processo di guarigione del paziente.

Per Freud infatti, il transfert era un processo che permetteva al paziente di rivivere, e di far rivivere, antichi sentimenti sessualizzati, associati con la nevrosi originaria. In un certo senso essi funzionavano come una resistenza, dal momento che, durante l’analisi, questi prendevano il posto dei precedenti sintomi nevrotici, in una forma nuova e mascherata della nevrosi originaria.

Non sempre i sentimenti provati dal paziente nei confronti dell’analista sono di tipo romantico: spesso possono ricordare la relazione padre-figlio (o madre-figlia), dove il terapeuta assume un ruolo genitoriale nella mente del paziente, con il/la quale rivivere il rapporto, più o meno traumatico, dell’infanzia e dell’adolescenza.

L’innamoramento per il/la terapeuta è una costante in terapia?

L’innamoramento verso il terapeuta rappresenta un possibile “effetto collaterale” della psicoterapia, anche se non succede a tutti ed in tutte le situazioni terapeutiche.

Erich Fromm riteneva normale che, di fronte alle difficoltà date da un cammino di individuazione, l’essere umano potesse sentirsi attratto da una figura “onnipotente” come quella del terapeuta, cui affidarsi e perfino sottomettersi. Analizzare il transfert di un paziente, disse Fromm, può essere dunque utile per osservare al microscopio il rapporto che il paziente ha con il mondo.

Cosa è il controtransfert?

Il controtransfert è un concetto della psicoanalisi e della psicoterapia che indica l’insieme delle reazioni emotive, inconsce e consce, che il/la terapeuta sviluppa nei confronti del/la paziente nel corso del percorso terapeutico

Secondo Freud, il contro-transfert costituisce un elemento di grave ostacolo al progredire della terapia, in quanto invalida quell’atteggiamento di impassibilità e di distacco emotivo espresso attraverso la regola dello specchio:

“Il medico deve essere opaco per l’analizzato e, come una lastra di specchio, mostrargli soltanto quello che gli viene mostrato”

Cosa può fare un terapeuta che sente di provare amore per un/una paziente?

Ovviamente il terapeuta non dovrebbe mai, per nessuna ragione, mostrare di ricambiare i sentimenti del/della paziente: questa sarebbe una grave violazione della relazione terapeutica, professionale ed etica.

Dr. Walter La Gatta

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Come diceva Freud: “non siamo lungi dal pretendere che il medico debba riconoscere in sé questa contro-traslazione e padroneggiarla” (vedi S. Freud, Tecnica della Psicoanalisi 1911-1912 in Opere, Boringhieri).

Cosa ne pensava Jung?

Jung riteneva ineliminabile il controtransfert: esso, diceva lo psicoanalista svizzero, non andrebbe respinto, ma accolto e controllato. Nella relazione terapeuta-paziente c’è una reciprocità trasformativa che conferisce alla relazione l’aspetto dinamico che le è proprio: in azione non c’è solo l’Io dell’analista, ma anche l’inconscio dell’analista e l’inconscio del paziente, la cui comunicazione costituisce l’elemento più autenticamente analitico. (Non a caso Jung si invischiò più volte in tormentate relazioni con molte sue pazienti. Vedi il caso di Sabina Spielrein).

Cosa prevede il codice deontologico?

Di parere opposto a quello di Jung è il Codice deontologico degli psicologi italiani (che ricalca in proposito quello americano ) attraverso l’Art. 28:

Articolo 28

Lo psicologo evita commistioni tra il ruolo professionale e vita privata che possano interferire con l’attività professionale o comunque arrecare nocumento all’immagine sociale della professione.

Costituisce grave violazione deontologica effettuare interventi diagnostici, di sostegno psicologico o di psicoterapia rivolti a persone con le quali ha intrattenuto o intrattiene relazioni significative di natura personale, in particolare di natura affettivo-sentimentale e/o sessuale.

Parimenti costituisce grave violazione deontologica instaurare le suddette relazioni nel corso del rapporto professionale

A
llo psicologo è vietata qualsiasi attività che, in ragione del rapporto professionale, possa produrre per lui indebiti vantaggi diretti o indiretti di carattere patrimoniale o non patrimoniale, ad esclusione del compenso pattuito.

Lo psicologo non sfrutta la posizione professionale che assume nei confronti di colleghi in supervisione e di tirocinanti, per fini estranei al rapporto professionale.

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Come riconoscere l’innamoramento in terapia?

Alcuni segnali che possono indicare un coinvolgimento amoroso verso il/la terapeuta sono i seguenti:

– Pensieri persistenti sul/sulla terapeuta al di fuori delle sedute
– Desiderio di piacergli/le o compiacerlo/a
– Gelosia all’idea che possa avere altri pazienti
– Tendenza a idealizzarlo/a, percependolo/a come perfetto/a 
– Difficoltà a parlare apertamente di questi sentimenti in seduta

È importante distinguere tra una normale gratitudine o stima nei confronti del/la terapeuta e un coinvolgimento affettivo più intenso, che può interferire con il processo terapeutico.

Cosa fare se ci si innamora del/la terapeuta?

Il primo passo è non colpevolizzarsi. Provare emozioni forti in terapia è parte del lavoro psicologico e può essere un segnale di apertura emotiva.

Il secondo passo è parlarne apertamente durante le sedute, anche se può sembrare imbarazzante. Un/a terapeuta preparato/a sarà in grado di accogliere questi sentimenti con professionalità, aiutando a esplorarne il significato.

Affrontare l’innamoramento in terapia permette di:

– Comprendere i propri bisogni affettivi e relazionali
– Analizzare le dinamiche di idealizzazione e dipendenza 
– Riconoscere modelli relazionali appresi nel passato
– Rafforzare la consapevolezza di sé e delle proprie emozioni

In alcuni casi, se il transfert amoroso diventa molto intenso o rischia di compromettere la terapia, si può valutare, insieme al/la terapeuta, l’eventualità di un invio ad altro/a professionista. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, affrontare direttamente la questione diventa parte integrante del processo di cura.

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Come prevenire (o meglio: gestire) questa dinamica?

 Non è possibile “prevenire” del tutto l’innamoramento in terapia, perché le emozioni non sono sotto il nostro controllo razionale. Tuttavia, ci sono alcune modalità che possono aiutare a gestire consapevolmente questa possibilità:

– Avere un contratto terapeutico chiaro, che definisca il setting e i limiti della relazione
– Coltivare altri legami affettivi e significativi nella propria vita 
– Dare spazio a pensieri e riflessioni critiche rispetto all’idealizzazione del/la terapeuta 
– Concedersi di esplorare le emozioni, senza giudicarle ma anche senza agire impulsivamente

Se proprio si vuole evitare che succeda questo, in ogni caso, è bene scegliere un/una terapeuta del proprio sesso se si è eterosessuali e dell’altro sesso se si è omosessuali.

Cosa succede quando si provano forti dubbi sull’interesse che il/la terapeuta potrebbe avere nei propri confronti?

Se si nutrono dubbi sul comportamento del terapeuta e ci si sente turbati, occorre tener conto di questi punti:

  • Spetta soprattutto al/alla terapeuta, che conosce bene questi meccanismi, mantenere la giusta distanza. 

  • Se il/la terapeuta fa delle avances, avendo capito la vulnerabilità del/della paziente, occorre interrompere subito la terapia e denunciare l’accaduto all’Ordine degli Psicologi.
  • Abbracciare e baciare il/la paziente non fa assolutamente parte di un metodo psicoterapeutico riconosciuto.

Dr, Walter La Gatta

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Sei un accaparratore compulsivo? Test

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I Test di Psicolinea

A cura di:
Dr. Giuliana Proietti - Dr. Walter La Gatta

Altri test sono disponibili su:
Clinica della Coppia  |   Clinica della Timidezza

L’accaparramento compulsivo è un disturbo riconosciuto, non un semplice “essere disordinati”. È importante che le persone coinvolte ricevano ascolto, comprensione e un aiuto professionale adeguato. Riconoscerlo è il primo passo per riprendere il controllo del proprio spazio, ma soprattutto della propria vita emotiva.

Sei un accaparratore compulsivo?


Fai il test e scopri come ti relazioni agli oggetti che ti circondano: rispondi a queste 20 affermazioni e scopri se potresti essere un accaparratore compulsivo. Poi leggi l’articolo che spiega come stanno le cose. E ora procediamo con il

TEST

Spunta solo le affermazioni che ti rispecchiano. Poi scorri in fondo per scoprire la soluzione del test.

1. Non riesco a buttare via oggetti anche se non servono più.
2. Acquisto spesso oggetti doppi “perché non si sa mai”
3. Ogni oggetto racconta una storia e merita un posto.
4. Ho un metodo preciso per organizzare i miei oggetti da collezione.
5. Mi agito se qualcuno suggerisce di liberarmi di certe cose.

6. Amo condividere e spiegare la mia collezione con chi mi visita.
7. Ho stanze o scatole piene di oggetti non utilizzati da anni.
8. Raccolgo solo oggetti legati a un tema specifico.
9. Se perdo un oggetto, anche insignificante, ci penso per giorni.
10. La mia collezione ha valore culturale o storico.

11.  Non riesco a dire no a oggetti gratis, anche inutili.
12. Mi piace confrontare la mia collezione con altri appassionati.
13. Evito di invitare persone a casa per il disordine.
14. Ogni oggetto della mia collezione è ben conservato.
15. Compro cose d’impulso, poi le dimentico in un angolo.

16. Mi sento fiero/a della qualità e cura della mia collezione.
17. Tendo a procrastinare le pulizie per non dover decidere cosa eliminare.
18. Mi informo spesso sull’origine e sul valore dei miei oggetti.
19. Ho difficoltà a separare il ricordo personale dall’oggetto stesso.
20 Mi piacerebbe esporre la mia collezione in una mostra.

Soluzione del Test

Le risposte che delineano il profilo dell’accaparratore compulsivo sono le seguenti: 

1-2-3-5-7-9-11-13-15-19
Quante risposte “accaparratore compulsivo” hai dato?

 

Dr. Walter La Gatta

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Profili del Test

Più di 6 Risposte: Si, potresti essere un Accaparratore Compulsivo

Sei una persona che attribuisce significati profondi a ogni oggetto, anche il più banale. Conservi tutto: biglietti del tram, vasi rotti, gadget dimenticati. Il tuo attaccamento è spesso legato alla paura di perdere qualcosa o qualcuno. Accumulare è diventato un modo per tenere il passato vicino, anche se rischia di sommergerti. Il tuo spazio riflette il tuo mondo interiore: denso, stratificato, a volte difficile da attraversare.

Se riconosci in te il profilo dell’accaparratore compulsivo, potresti trarre beneficio dal provare a distinguere tra oggetto e significato, alleggerendoti un po’ alla volta. Il ricordo non scompare se l’oggetto c’è o non c’è. Prova a vivere con maggiore leggerezza, concentrandoti più sul presente che sul passato: hai ancoraun futuro da scrivere e da esplorare, e non hai bisogno di portare con te tutto ciò che testimonia materialmente le esperienze vissute.

Se non ci riesci, la migliore cosa da fare è cercare un aiuto professionale.

Dr. Walter La Gatta

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Fai tutti i test di Psicolinea

E ora qualche info in più su questo tema:

L’accaparramento compulsivo

L’accaparramento compulsivo (noto anche come hoarding disorder) è un disturbo psicologico caratterizzato da una persistente difficoltà a disfarsi o separarsi dai propri beni, indipendentemente dal loro reale valore.

Le persone che ne soffrono accumulano oggetti in modo eccessivo, spesso riempiendo completamente gli spazi abitativi fino a compromettere la funzionalità degli ambienti domestici e, in molti casi, le relazioni personali. Perché si diventa accaparratori compulsivi Le cause dell’accaparramento compulsivo sono diverse. Tra i fattori di rischio più frequenti si trovano:

  • Esperienze traumatiche: lutti, abbandoni o gravi perdite possono portare a un attaccamento disfunzionale agli oggetti, visti come fonte di sicurezza o conforto.
  • Tratti di personalità: perfezionismo, indecisione estrema, pensiero rigido e difficoltà nella regolazione emotiva sono spesso presenti.
  • Disturbi psichiatrici associati: l’accaparramento può essere legato ad ansia, depressione, disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), disturbi dell’attaccamento o del neuro sviluppo.
  • Valore simbolico attribuito agli oggetti: per alcune persone, ogni oggetto ha un significato affettivo insostituibile o rappresenta una possibilità futura che non può essere “gettata via”.

 

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Sintomi e segnali da riconoscere

I segnali principali dell’accaparramento compulsivo riguardano:

  • Incapacità persistente di eliminare oggetti, anche inutili o rotti.
  • Accumulo progressivo che ingombra spazi domestici (letto, cucina, corridoi).
  • Sofferenza o difficoltà relazionale legata al disordine.
  • Pensieri intrusivi legati alla perdita o al bisogno di conservare.
  • Isolamento sociale per vergogna o per l’impossibilità di ospitare persone.

 

IPNOSI CLINICA: una intervista al Dr. Walter La Gatta

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Cosa fare per uscirne

L’uscita dall’accaparramento compulsivo non può basarsi solo sul “riordinare” o buttare oggetti. Serve un lavoro più profondo che coinvolge:

  • Psicoterapia: è necessario intervenire sul pensiero disfunzionale e graduale esposizione al “disfarsi” degli oggetti.
  • Supporto familiare: è importante che le persone vicine non giudichino né impongano pulizie forzate, ma siano coinvolte nel processo terapeutico con empatia.
  • Psico-educazione: conoscere il disturbo aiuta a ridurre la vergogna e a motivare al cambiamento.
  • Terapie combinate: nei casi più gravi, può essere utile integrare la psicoterapia con un supporto farmacologico (sotto supervisione psichiatrica).
  • Interventi ambientali guidati: non si tratta di “sgomberare” in modo autoritario, ma di affrontare il cambiamento in modo condiviso e graduale.

Dr. Walter La Gatta

Una intervista sui rapporti familiari

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I Social
La psicologia ci insegna a vivere bene

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Relazione sulle Coppie Non Monogamiche

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Non esiste, purtroppo, alcuna formula o guida che ci conduca alla felicità e al completo benessere, sebbene gli esseri umani abbiano provato a rispondere ai principali quesiti esistenziali tramite la filosofia, la religione e la scienza.

Qualche anno fa gli psicologi Nansook Park e Christopher Peterson della University of Michigan si sono chiesti: “Cosa significa vivere bene e come possiamo raggiungere tale obiettivo?” Nel loro articolo, gli autori hanno esaminato i vari modi in cui la psicologia ha effettivamente contribuito a migliorare la vita delle persone.

La psicologia, sostengono gli autori, ci ha finora insegnato che, per rendere la vita più felice, basta questo:

  •  l’esperienza di sensazioni positive in numero superiore a quelle negative,
  •  la sensazione che la propria vita sia ben vissuta,
  •  che possano essere utilizzati i propri talenti e punti di forza,
  •  l’avere amici su cui contare,
  •  l’avere un lavoro
  •  lo svolgere altre attività che facciano sentire la persona parte della propria comunità,
  •  il pensare che la vita abbia un significato
  •  il sentirsi al sicuro e in buona salute

Dr. Walter La Gatta

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Più recentemente, Shawn Achor, che ha trascorso 12 anni a Harvard e che uno dei principali ricercatori sul legame fra felicità e successo, ha pubblicato un libro, The Happiness Advantage, in cui identifica sette principi specifici della psicologia positiva, supportati da ricerche approfondite, che possono aiutare a migliorare la vita.

Eccoli:

1: La felicità deve venire prima del successo
La felicità genera successo: è molto probabile che le persone che sono felici sul lavoro siano più produttive, mostrino capacità di leadership e abbiano valutazioni delle prestazioni più elevate rispetto ai loro pari con atteggiamento negativo. È anche molto meno probabile che queste persone si prendano giorni di riposo per malattia o siano stressate e questo permette migliori possibilità di successo sul posto di lavoro.

2: La psicologia positiva è uno strumento potente
Le ricerche della psicologia positiva possono essere utilizzate per migliorarsi la vita. Tra esse ricordiamo le principali:
– Trascorrere cinque minuti al giorno, concentrandosi sul respiro
– Fare cinque cose gentili alla settimana, rivolte alle altre persone
– Guardare ogni giorno le foto delle persone care anche se sono lontane
– Spendere i soldi in esperienze e non in beni materiali
– Usare i propri punti di forza in modo attivo

3: Pensare positivo
Insegnare alla propria mente come concentrarsi sul positivo, il che aiuta a cambiare atteggiamenti e visione del mondo. Se non ci si riesce, scrivere un diario in cui ogni giorno vengono riportate tre cose positive accadute.


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4: Cambiare la percezione di una situazione critica
Usare “Il modello ABCD”.
A = Avversità. Cosa è successo?
B = (Believe in inglese) Credenza. Come hai reagito all’evento e come potrebbe cambiare il tuo futuro?
C = Conseguenza. I risultati effettivi dell’evento, sono una tantum o avranno effetti di lunga portata?
D = Disputa. È qui che scegli l’obiettivo attraverso il quale guardare l’evento: interrogarsi, esaminare le convinzioni pessimistiche, cercando di capire se ci sono altri modi per guardare a questo evento.

5: Quando la vita ti dà i limoni… Dividili in fette più piccole
Per cambiare la propria vita in modo significativo, farlo gradualmente, un passo alla volta. Se ci sono cose che non possono essere controllate, lasciarle andare, se possono essere controllate, impegnarsi per farlo, un poco alla volta, a piccoli passi.

6: “La regola dei 20 secondi”
Per evitare una cattiva abitudine, tenere l’oggetto che porta al comportamento dannoso (telecomando della TV, una bottiglia di alcol, un pacchetto di sigarette) a più di 20 secondi di distanza, per non cadere facilmente in tentazione.

Una intervista sulla Eiaculazione Precoce

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7: Investire nella propria  cerchia sociale
Cercare sempre il contatto visivo con le persone, salutare sempre per primi e non rinunciare a occasioni in cui si possono conoscere persone nuove per allargare la propria rete sociale.

Dr. Walter La Gatta



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autolesionismo

Adolescenti e autolesionismo

Adolescenti e autolesionismo

Relazione sulle Coppie Non Monogamiche

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L’autolesionismo non suicidario (NSSI – Non-Suicidal Self-Injury) è un fenomeno preoccupante e in crescita tra i giovani e le giovani adolescenti. Nonostante l’assenza di intento suicidario, tali comportamenti rappresentano un forte segnale di sofferenza psicologica e meritano attenzione clinica e sociale. Cerchiamo di saperne di più.

Cosa si intende per autolesionismo?

Si tratta di atti intenzionali volti a causare danno fisico a sé stessi, come tagli, bruciature o colpi, senza l’intento di togliersi la vita. L’atto più comune con cui si presenta l’autolesionismo è il taglio superficiale alla pelle, ma esso comprende anche il bruciarsi, infliggersi graffi, colpire una o più parti del corpo (es. sbattere la testa contro il muro), mordersi, tirarsi i capelli, oppure ingerire sostanze tossiche o oggetti.

Come è classificata questa patologia nel DSM-5?

E’ classificata sotto la voce “autolesionismo non suicidario” o NSSI. Nel DSM viene chiarito che si tratta di un “nuovo” disturbo,  che necessita ulteriori studi. E’ considerato un sintomo del disturbo borderline di personalità,  caratterizzato da instabilità emotiva, relazioni instabili e sentimenti cronici di vuoto.

 

Adolescenza

Editore: Xenia, Collana: I tascabili
Anno edizione: 2004 Pagine: 128 p., Brossura
Autori: Giuliana Proietti - Walter La Gatta

Quali sono i dati che abbiamo sul fenomeno?

Secondo i dati più recenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e degli studi condotti in Europa e in Italia (come quelli pubblicati dall’Istituto Superiore di Sanità), circa il 17-18% degli adolescenti riferisce di essersi inflitto almeno una volta un danno fisico volontario. La prevalenza è maggiore nelle ragazze rispetto ai ragazzi, soprattutto tra i 13 e i 17 anni.

Queste pratiche sono assai meno frequenti fra gli adulti (si stima il 5%). Per quanto riguarda i bambini si stima una percentuale di 1,3% nella fascia di età che va da 5 a 10 anni.

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Perché ci si fa del male?

Le motivazioni che portano a compiere atti autolesivi sono si varia natura. Tra le principali funzioni dell’autolesionismo, la letteratura individua: 

  1. Regolazione emotiva: il dolore fisico diventa un modo per gestire emozioni travolgenti come rabbia, tristezza, ansia o senso di vuoto. Quando una persona si sente travolta da emozioni negative, trova il modo di placare queste sensazioni attraverso questi atti, che hanno l’effetto, paradossale, di riportare un po’ di serenità. 
  2. Espressione del dolore: per chi ha difficoltà a verbalizzare ciò che prova, il corpo può diventare un linguaggio alternativo.
  3. Punizione di sé: in presenza di bassa autostima o sentimenti di odio verso se stessi, ci si infligge danno come forma di espiazione o punizione. Il dolore fisico provato è un sollievo rispetto al dolore emotivo.
  4. Richiesta d’aiuto: sebbene non esplicitamente suicidario, l’autolesionismo può essere un grido silenzioso rivolto agli altri, in cerca di comprensione o intervento.

Dr. Walter La Gatta

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Quali sono i fattori di rischio?

Diversi fattori possono aumentare la vulnerabilità all’autolesionismo, come storie di traumi infantili o abusi,  disturbi dell’umore, come depressione o disturbi d’ansia, oppure disturbi della condotta alimentare, difficoltà relazionali e isolamento sociale, bullismo e cyberbullismo.

I social hanno un ruolo in tutto questo?

Si, il ruolo dei social media può essere ambivalente: se da un lato fornisce spazi di condivisione e supporto, dall’altro può esporre a contenuti che normalizzano o addirittura incentivano comportamenti autolesivi.

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Come riconoscere i segnali?

Molte persone che praticano autolesionismo cercano di nasconderlo. Tuttavia, alcuni segnali possono allertare genitori, insegnanti o persone adulte di riferimento. Fare bene attenzione a: Presenza di tagli, bruciature o lividi, spesso in zone poco visibili (braccia, cosce, addome

  • Uso frequente di abiti coprenti anche con il caldo
  • Tendenza all’isolamento o cambiamenti improvvisi nell’umore
  • Oggetti insoliti in camera o nello zaino (lame, accendini, vetri)

Come parlarne con i ragazzi che si autolesionano?

Questo tipo di dialogo richiede delicatezza, empatia e assenza di giudizio. Frasi come: “Lo fai solo per attirare l’attenzione” o “Non hai motivo di stare male” non solo sono inutili, ma rischiano di peggiorare la situazione.

E’ essenziale che genitori e insegnanti non rispondano con shock, orrore, rabbia o giudizi negativi quando si accorgono di questi comportamenti.

I ragazzi spesso riferiscono di provare vergogna dopo essersi fatti del male intenzionalmente, il che li porta a nascondere le ferite sotto vestiti e gioielli. Molti potrebbero non partecipare ad attività che potrebbero rivelare le loro ferite, come il nuoto o altri sport.

Accompagnare il/la giovane verso una figura professionale qualificata, come uno/a psicologo/a o psicoterapeuta, collaborare con scuola, famiglia e servizi sanitari in un’ottica di rete.

 

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Quale è il trattamento migliore per l’autolesionismo?

Il trattamento migliore è senz’altro la psicoterapia, che si è mostrata capace di ridurre o eliminare del tutto gli atti di autolesionismo. La terapia cognitivo-comportamentale o la terapia familiare sono sembrate le più indicate per la cura degli adolescenti. In alcuni casi possono essere utili anche i farmaci.

L’autolesionismo può portare al suicidio?

Si, questo comportamento ne è un forte predittore. Nel 2013 sul Journal of Adolescent Health, Whitlock, Muehlenkamp e colleghi seguirono 1.466 studenti di 5 college americani per 3 anni. Studenti autolesionisti che all’inizio non mostravano desiderio di morte avevano maggiori probabilità di tentare il suicidio negli anni successivi.

Che consigli si possono dare ai giovani che vogliono smettere?

Una tecnica efficace è quella di creare un ritardo tra l’impulso all’autolesionismo e l’atto di autolesionismo. Anche rimuovere gli oggetti usati per l’autolesionismo può aiutare in questa direzione.

Distrarsi: cucinare, fare esercizio fisico, giocare alla playstation, leggere, disegnare, sono un’altra strategia altamente raccomandata per prevenire ulteriori lesioni.

Alcuni raccomandano le cosiddette ” attività sostitutive ” per l’autolesionismo, come tenere in mano del ghiaccio o tirare un elastico stretto al polso. Si è però osservato che questi rimedi provengono in fondo dalla stessa mentalità autodistruttiva e dunque non rappresentano un passo in avanti.

Come si capisce, l’autolesionismo nei giovani non è un “capriccio adolescenziale”, ma un comportamento che segnala sofferenza. Guardarlo in faccia senza paura, accoglierlo senza giudizio e intervenire con competenza sono azioni imprescindibili per trasformare il dolore in parole, e le ferite in cura.

Dr. Walter La Gatta


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L'intelligenza: che cos'è?

L’intelligenza: che cos’è?

L’intelligenza: cos’è?

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L’intelligenza è la capacità di comprendere, apprendere, ragionare e risolvere problemi. Si manifesta in forme diverse, da quella logico-matematica a quella emotiva, e si adatta ai contesti e alle sfide della vita quotidiana. Cerchiamo di saperne di più.

Cosa si intende per “intelligenza”?

Dal punto di vista etimologico sembra che la parola derivi dal sostantivo latino intelligentĭa, a sua volta proveniente dal verbo intelligĕre, “capire”. Il vocabolo intelligĕre deriva dalla contrazione del verbo legĕre, “leggere”, con l’avverbio intŭs, “dentro”; chi aveva intelligentĭa era dunque qualcuno che sapeva “leggere-dentro”, ovvero “leggere oltre la superficie”, comprendere ogni aspetto, anche quelli non apparenti.

Secondo altre interpretazioni, intelligĕre sarebbe una contrazione di legĕre con la preposizione ĭnter, “tra”; in tal caso il termine avrebbe indicato una capacità di “leggere tra le righe” o di stabilire delle correlazioni tra elementi.

Quanto alla definizione di intelligenza, non se ne è ancora trovata una perfettamente esaustiva, che permetta di spiegare la complessità dell’argomento. Non si tratta infatti di una abilità unitaria, qualcosa che si possiede o non si possiede, oppure un fenomeno che viene considerato da tutti allo stesso modo.

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Come viene definita l’intelligenza?

Vi è una grande varietà di definizioni sull’ intelligenza: tutte giuste a loro modo, ma dove ciascuna mette in evidenza qualcosa di specifico. Per fare un esempio, citiamone alcune:

  • è l’abilità di pensare astrattamente” Terman;
  • è la capacità di acquisire capacità” Woordrow;
  • è il potere di dare buone risposte dal punto di vista della verità o dei fatti” Thorndike
  • è la capacità di pensare, ragionare e capire invece di fare le cose automaticamente o per istinto” Collins.
  • è la capacità di comprendere e pensare alle cose e di acquisire e usare la conoscenza” MacMilian.
  • è il complesso di facoltà psichiche e mentali che consentono di pensare, comprendere o spiegare i fatti o le azioni, elaborare modelli astratti della realtà, intendere e farsi intendere dagli altri, giudicare, e adattarsi all’ambiente“. Treccani
  • “è la capacità generale di adattare il proprio pensiero e condotta di fronte a condizioni e situazioni nuove”  Stern
  • “è la misura della capacità di un agente di raggiungere obiettivi in una varietà ampia di ambienti”Legg e Hutter
  • è  intelletto, ingegno; prontezza e vivacità di mente; abilità e perizia nel fare qualcosa” Sabatini Coletti.

Da quanto tempo si cerca di comprendere la natura dell’intelligenza umana?

Sin dai tempi dell’antica Grecia con Socrate, Platone e Aristotele.

Socrate non lasciò nulla di scritto, tutto ciò che sappiamo di lui è grazie agli scritti di Aristofane, Senofonte, Platone e Aristotele. Platone, discepolo di Socrate, era entusiasta della grandezza del maestro, il quale divenne nella maggior parte dei suoi dialoghi giovanili, detti anche socratici, il protagonista. Platone racconta che Socrate procedeva interrogando una o più persone su un determinato concetto, come il coraggio o la giustizia, esponendo alla fine le contraddizioni presenti nei loro assunti iniziali e provocando così una ristrutturazione del concetto stesso, alla luce delle riflessioni svolte. Secondo Socrate l’intelligenza è fondamentale, perché rende liberi, mentre l’ignoranza rende schiavi.

Platone sosteneva che la ragione può portare ben oltre i confini del buon senso e dell’esperienza quotidiana, fino ad arrivare al mondo delle idee (l’Iperuranio è quella zona, al di là del cielo, dove risiedono le idee). Una vita piena di piaceri, ma priva di pensiero non è, per Platone una vita buona, degna di un uomo, soprattutto perché è solo grazie all’intelligenza che si può distinguere il piacere dal non piacere.

Aristotele sosteneva che gli esseri umani avessero una capacità unica di ragionare, e quindi il supremo bene e la felicità consistono nel condurre una vita di contemplazione razionale. Partendo da quanto afferma Aristotele nel Libro X dell’Etica Nicomachea, in cui si dice che “l’uomo più di ogni altra cosa è ragione, e la vita della ragione è la più autosufficiente, la più piacevole, la più felice, la migliore e la più divina di tutte“.Nei secoli successivi, la ragione divenne una proprietà divina, trovata nell’uomo in quanto fatto a immagine di Dio.

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La persona intelligente deve questa sua qualità alla genetica o all’esperienza di vita?

In passato vi sono state molte polemiche sull’origine dell’intelligenza: essa è dovuta all’ereditarietà o all’ambiente? I genetisti sostenevano che essa fosse determinata in larghissima parte dal corredo genetico ed in misura minima dall’ambiente e dalle esperienze vissute; gli ambientalisti erano invece di parere esattamente opposto.

Per questa ragione l’intelligenza è stata differenziata anche in “Intelligenza A” e “Intelligenza B“. Nella forma A si intende la potenzialità genetica dei singoli individui, quella ricevuta come corredo genetico dai genitori; nella forma B si intende quella che si riesce a sviluppare con l’esperienza e l’apprendimento.

Porre la questione in termini alternativi in realtà non ha molto senso, perché appare evidente che sono importanti sia i fattori genetici, sia i fattori ambientali, dal momento che insieme concorrono a formare un tratto molto complesso.

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Quali sono le più importanti teorie psicologiche sull’intelligenza?

Le acquisizioni sperimentali della psicologia sono procedute in 5 direzioni di studio: 

a) l’intelligenza si sviluppa sulla base di assimilazioni (associazionismo);
b) l’immagine è un’imitazione interiorizzata che presuppone un elemento attivo, di livello superiore alla percezione (scuola di 
Würzburg);
c) l’intelligenza procede per operazioni che dirigono le immagini e i concetti (Claparède, C.E. Spearman);
d) la conoscenza è strutturazione (Gestalt);
e) la percezione è anteriore all’immagine e quest’ultima non può aver luogo prima dell’apparizione del linguaggio, che è la prima forma di pensiero simbolico (Piaget)

L’intelligenza può essere misurata?

I primi a farlo furono Binet e T. Simon (1905), autori della prima scala metrica di valutazione dell’intelligenza. In seguito,  W. Stern introdusse il concetto del quoziente intellettuale (rapporto fra età mentale ed età cronologica). Da allora le tecniche diagnostiche si sono andate precisando con nuovi strumenti di misurazione e con metodologie statistico-matematiche di valutazione.

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In cosa consiste la teoria delle intelligenze multiple?

Lo psicologo statunitense Howard Gardner, ha distinto 9 manifestazioni fondamentali dell’intelligenza, derivanti da strutture differenti del cervello e indipendenti l’una dall’altra. Ci sono persone che brillano in una particolare area e che sono carenti in un’altra. I nove macro-gruppi intellettivi sono i seguenti:

  1. Linguistico
  2. Logico-Matematico
  3. Spaziale
  4. Corporeo-Cinestesico
  5. Musicale
  6. Intrapersonale
  7. Interpersonale
  8. Naturalistico
  9. Esistenziale

Sebbene queste capacità intellettive siano più o meno innate negli individui, esse non sono statiche e possono essere sviluppate mediante l’esercizio, potendo anche “decadere” col tempo. Gardner ha sostenuto che classificare tutte le manifestazioni dell’intelligenza umana sarebbe un compito troppo complesso, dal momento che ogni macro-gruppo contiene vari sottotipi.

Cosa è l’intelligenza emotiva?

L’intelligenza emotiva è un aspetto dell’intelligenza legato alla capacità di riconoscere, utilizzare, comprendere e gestire in modo consapevole le proprie ed altrui emozioni. L’intelligenza emotiva si distingue in tre rami principali:

  • Valutazione ed espressione delle emozioni
  • Regolazione delle emozioni
  • Utilizzo delle emozioni

allo scopo di raggiungere una crescita personale.

Il tema dell’intelligenza emotiva è stato divulgato nel 1995 da Daniel Goleman nel libro “Emotional Intelligence” tradotto in italiano nel 1997 “Intelligenza emotiva che cos’è perché può renderci felici”. Grazie a questo libro anche in Italia il tema dell’intelligenza emotiva ha iniziato ad essere utilizzato e studiato, sia in ambito psicologic,22 sia in ambito aziendale.

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C’è correlazione fra intelligenza e scolarità?

Sicuramente c’è una forte correlazione fra intelligenza e scolarità e questo è dovuto sia al fatto che, in genere, gli individui più intelligenti frequentano la scuola più a lungo, sia al fatto che frequentare la scuola più a lungo rende più intelligenti.

Quanto c’entra la “razza”?

Per lunghi anni si è ritenuto che l’uomo bianco fosse l’individuo più intelligente di tutti gli altri. Per questa ragione vi sono stati ampi dibattiti volti a cercare di comprendere se valesse la pena dare istruzione a soggetti che, per loro natura, non erano intelligenti, come i neri o le donne.

La ricerca ha tuttavia mostrato che sono le condizioni di vita a determinare il maggior livello intellettivo e non i fattori genetici.


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Gli anziani sono meno intelligenti dei giovani?

La concezione secondo la quale l’invecchiamento comporta necessariamente un impoverimento intellettivo è oggi ampiamente superata. Le abilità cognitive vengono infatti divise in due categorie: quelle particolarmente sensibili all’età (memoria associativa, agilità mentale, velocità di organizzazione) e quelle che addirittura migliorano nell’età matura (prove di vocabolario e di informazione) facendo raggiungere agli anziani punteggi perfino superiori a quelli dei giovani.

In ogni caso, quando si parla di anziani non si può generalizzare: vi sono differenze notevoli fra un individuo anziano e un altro, come fra certe abilità che migliorano nel tempo ed altre che invece mostrano un certo declino, a seconda dell’uso che se ne fa nella vita.

Ci sono poi le malattie: ad esempio, nella malattia di Alzheimer, la forma più comune di demenza, vi è un disturbo di molteplici funzioni corticali superiori tra cui memoria, pensiero, orientamento, comprensione, calcolo, capacità di apprendimento, linguaggio e giudizio.

L’intelligenza può migliorare o peggiorare, o rimane sempre uguale a se stessa?

Un tempo si pensava che l’intelligenza fosse soprattutto espressione di un potenziale ereditario: ci si attendeva che il livello di intelligenza di una persona restasse immutato per tutta la vita. Oggi le ricerche, sempre più approfondite sulla natura dell’intelligenza, hanno portato invece a concepirla come un fattore complesso e dinamico, che varia da persona a persona e che, nell’arco di vita dell’ individuo, può variare moltissimo da periodo a periodo.

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La donna è meno intelligente dell’uomo?

Quanto al livello di intelligenza, in passato la donna veniva considerata meno intelligente dell’uomo e si sosteneva questa tesi attraverso la dimostrazione che la donna, nei secoli, non aveva compiuto realizzazioni o scoperte scientifiche pari a quelle maschili.

Oggi, potendo valutare le cose con maggiore obiettività, è facile riconoscere che la considerazione è senz’altro giusta, ma che tale disparità fra i sessi non è imputabile alla carenza di intelligenza nella donna, quanto alle ragioni sociali e culturali, che hanno notevolmente influito, in senso negativo, sulla possibilità di sviluppo delle capacità intellettuali femminili.

Dr. Walter La Gatta



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