Infibulazione

Infibulazione e altre mutilazioni genitali femminili

Infibulazione E Altre Mutilazioni Genitali Femminili

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Nonostante questa pratica sia riconosciuta a livello internazionale come una violazione dei diritti umani, circa 200 milioni di ragazze e donne nel mondo (attualmente viventi) sono state sottoposte a MGF e se tutto dovesse continuare così come è si stima che altri 68 milioni di donne subiranno tali pratiche tra il 2015 e il 2030.

Ecco allora qualche info che è assolutamente conoscere sull’argomento.

Cosa si intende esattamente per mutilazione genitale femminile?

La mutilazione genitale femminile si riferisce a qualsiasi procedura che comporti la rimozione parziale o totale dei genitali femminili esterni o altre lesioni ai genitali per motivi non medici.

Come si presentano le mutilazioni genitali femminili?

Esistono quattro tipi di MGF:

  • Il tipo I, chiamato anche clitoridectomia, prevede la rimozione parziale o totale del clitoride e / o del prepuzio.
  • Il Tipo II, chiamato anche escissione, è la rimozione parziale o totale del clitoride e delle piccole labbra.
  • Il tipo III, chiamato anche infibulazione, è il restringimento dell’orifizio vaginale con un sigillo di copertura. Il sigillo si forma tagliando e riposizionando le piccole labbra e / o le grandi labbra. Più avanti nella vita, le donne infibulate possono essere “riaperte” la prima notte di matrimonio e / o prima del parto. L’intervento dell’infibulazione non avviene dunque una sola volta nella vita: molte donne vengono defibulate e poi reinfibulate in occasione di ogni parto. E sappiamo quante volte una donna in certi Paesi sia costretta a partorire….
  • Il tipo IV è qualsiasi altra procedura dannosa per i genitali femminili per scopi non medici, come puntura, piercing, incisione, raschiatura o cauterizzazione.

I tipi I e II sono i più diffusi, ma esistono variazioni all’interno dei paesi e delle comunità. Il tipo III – l’infibulazione – riguarda circa il 10% di tutte le donne che subiscono queste mutilazioni.

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Le mutilazioni genitali femminili come vengono viste dalle donne, nelle società in cui vengono praticate?

Dove vengono praticate, le MGF sono accettate da uomini e donne e sono anzi le donne a praticarle sulle ragazze più giovani.

Per quali ragioni si praticano?

In alcune comunità, vengono eseguite per controllare la sessualità delle donne e delle ragazze. A volte è un prerequisito per il matrimonio – ed è strettamente legato al fenomeno delle spose bambine. Alcune società eseguono MGF a causa di miti sui genitali femminili. Ad esempio, ritengono che un clitoride non tagliato potrebbe crescere fino alle dimensioni di un pene o che le MGF sono utili per migliorare la fertilità. Altri vedono i genitali femminili esterni come sporchi e brutti.

Perché le mutilazioni genitali sono inaccettabili?

Perché non solo non sono vere le ragioni per cui esse vengono praticate (non permettono una migliore fertilità e il clitoride non diventerà mai un pene, se non viene tagliato!), ma le MGF violano i diritti umani di donne e ragazze, privandole dell’opportunità di prendere decisioni personali e informate sul proprio corpo e sulla propria vita.

Da quanto tempo si usano queste tecniche?

Queste pratiche precedono la diffusione del Cristianesimo o dell’Islam. Sembra infatti che alcune mummie egizie mostrino le caratteristiche della MGF. Storici come Erodoto affermano che, nel V secolo a.C., i Fenici, gli Ittiti e gli Etiopi praticavano la circoncisione. È stato anche riferito che i riti di circoncisione furono adottati nelle zone tropicali dell’Africa, nelle Filippine, da alcune tribù dell’Alta Amazzonia, da donne della tribù Arunta in Australia e in alcune comunità romane e arabe. Recentemente, negli anni ’50, la clitoridectomia veniva praticata in Europa occidentale e negli Stati Uniti per curare
disturbi mentali e sessuali.

Il desiderio sessuale nella donna infertile
Relazione presentata al Congresso Nazionale Aige/Fiss del 7-8 Marzo 2025 a Firenze. 

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L’Islam favorisce questa pratica?

No. Sebbene vengano spesso collegate all’Islam, queste pratiche non sono sostenute dall’Islam e vi sono molte comunità non islamiche che praticano la MGF. Eppure, nessuna religione la promuove o la richiede e molti leader religiosi l’hanno denunciata come pratica inaccettabile.

Esiste una MGF “sicura”?

No. Le MGF – indipendentemente da dove o da chi viene eseguita – hanno serie implicazioni per la salute sessuale e riproduttiva delle ragazze.

Quali sono le complicazioni a breve termine?

Le complicazioni possono riguardare dolore intenso, shock, emorragia, infezione, ritenzione urinaria e altro ancora. In alcuni casi, l’emorragia e l’infezione possono essere abbastanza gravi da causare la morte.

Quali le complicazioni di lungo termine?

I rischi a lungo termine comprendono complicazioni durante il parto ed effetti psicologici.

Da chi vengono eseguite le MGF?

La MGF viene tradizionalmente eseguita da un membro designato della comunità, a volte utilizzando strumenti rudimentali come lamette da barba, spesso senza uso di anestetico o antisettici. Viene anche eseguita da medici professionisti, che praticano “MGF medicalizzate”. Tuttavia, anche in questi casi, possono esserci gravi conseguenze per la salute.

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E’ da promuovere la MGF medicalizzata per salvare vite umane?

Assolutamente no: quando il personale medico esegue la MGF, può erroneamente trasmettere il messaggio che la pratica sia sana dal punto di vista medico, rafforzandola ulteriormente.

Come convincere le persone ad abbandonare queste pratiche?

Le famiglie potrebbero avere difficoltà a rinunciare a questa pratica. Coloro che rifiutano la MGF possono essere infatti condannati o ostracizzati dalla società in cui vivono e le loro figlie possono essere ritenute non degne del matrimonio. Il modo migliore è convincere le comunità ad un abbandono collettivo della pratica, in modo che non vi siano ragazze o famiglie svantaggiate, a causa di questa decisione.

Cosa si sta facendo per spingere all’abbandono delle MGF?

Nel 2008, l’UNFPA e l’UNICEF hanno istituito un programma comune sulle MGF, il più grande programma globale per accelerare l’abbandono delle MGF e fornire assistenza alle ragazze e alle donne che vivono con le complicazioni sopra descritte. Fino ad oggi, il programma ha aiutato oltre 3 milioni di ragazze e donne a ricevere servizi di protezione e assistenza relativi alle MGF. Più di 30 milioni di persone in oltre 20. 000 comunità hanno fatto dichiarazioni pubbliche di abbandono della pratica.

Con il sostegno dell’UNFPA e di altre agenzie delle Nazioni Unite, molti paesi hanno anche approvato una legislazione che vieta le MGF e hanno sviluppato politiche nazionali per raggiungere il suo abbandono.

Cosa si può fare nei nostri paesi occidentali, rispetto alle donne immigrate che subiscono MGF?

Il problema è delicato perché gli immigrati si ribellano quando il paese ospitante impone loro leggi che tendono ad impedire l’attuazione delle loro tradizioni. Resta comunque il fatto che in un paese civile non è possibile che siano consentite tali pratiche.

La soluzione va dunque cercata nell’incontro, nel dialogo, nella sensibilizzazione e il lavoro va condotto soprattutto sulle donne, dando loro la possibilità di studiare, di lavorare, di avere un’indipendenza economica. Le donne immigrate devono comprendere l’assurdità di questa mutilazione e va assolutamente impedito che esse da vittime continuino a trasformarsi in carnefici con le loro figlie.

Visita anche UNFPA, sito  delle Nazioni Unite dedicato alle donne che vivono in società sottosviluppate 

Dr. Giuliana Proietti

Intervento del 14-09-2024 su Sessualità e Terza Età
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In the name of GodLa sessualità e le suore: quante curiosità in merito… Un libro tenta si svelare il mistero. (Copertina a lato)

Quella che un tempo era Suor Jane oggi è la dottoressa Fran Fisher, una “sessuologa” californiana. Fran è cresciuta nello Yorkshire, in Gran Bretagna, per poi entrare in un convento francescano, nel Derbyshire, a soli 18 anni. La vita da suora è per lei durata solo due anni: a quell’epoca infatti conobbe e sposò un intellettuale, con il quale si stabilì negli Stati Uniti.

Dopo aver cresciuto due figli, la Fisher un giorno vide la pubblicità di un corso per diventare consulente sessuale e si iscrisse immediatamente. Era infatti molto interessata ad avere informazioni sulla sessualità e a riflettere sulla sua esperienza giovanile in convento. Da sessuologa, le è poi venuto in mente di scrivere un libro-inchiesta su altre ex suore, per capire se anche altre donne avevano avuto una storia simile alla sua.

Nel libro, la Fisher intervista 28 donne che, come lei, in giovane età avevano fatto voto di povertà, castità e obbedienza e che poi avevano lasciato i loro ordini religiosi per tornare alla vita laica.

Nelle interviste si parla della sessualità di queste donne, prima, durante e dopo il loro periodo in convento.

“La maggior parte delle donne che ho intervistato è stata allevata in severe famiglie cattoliche. Molte avevano un padre alcolizzato. Non poche avevano una storia di abuso fisico e / o sessuale. Molte di loro hanno descritto il convento come un luogo sicuro dove andare.”

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La Fisher, che ha da poco compiuto sessanta anni, si è resa conto che alcune caratteristiche della sua infanzia erano comuni alle altre donne: in particolare il fatto che entrambi i suoi genitori, irlandesi e cattolici, avevano atteggiamenti del tutto negativi nei confronti del sesso.

Suo padre, dice, quasi sempre descriveva le donne in termini peggiorativi, mentre la madre pensava che il sesso fosse “pericoloso, sporco, vile, brutto e sporco”. Quando la Fisher, che allora aveva 14 anni, temette di essere incinta, dopo un episodio di petting, in cui non c’era stato un vero rapporto,  la madre contribuì ad alimentare le sue paure, lasciandola con il desiderio di “non avere nulla a che fare con gli uomini”.

Il convento aveva il fascino di un luogo in cui le donne erano pure e misteriose e – cosa più importante – era un luogo sicuro. Ma una volta all’interno delle sue mura, la sessualità, per la ex suora, cominciò ad emergere.

La Fisher divenne sempre più infelice, perse peso, e alla fine, un sabato mattina, decise di lasciare il convento, mentre tutte le altre sorelle erano a messa. Lei era ancora molto ingenua sul sesso. Non così le altre donne intervistate:

“Tutte coloro che hanno trascorso decenni in un convento hanno sempre avuto un risveglio sessuale. Alcune hanno avuto rapporti con altre suore, alcune con  sacerdoti, alcune con laici”.

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Quanto agli abusi sessuali, alcune ex suore hanno affermato di essere a conoscenza degli abusi sessuali che erano in corso nella chiesa cattolica, ma la maggior parte di loro non era in grado, o non voleva, fare nulla.

Quando sei una suora, non hai più la capacità di giudicare le situazioni.

dice oggi la ex suora.

L’obbedienza significava infatti non prendere iniziative e non mettere in discussione coloro che erano in posizioni di autorità, come i sacerdoti di sesso maschile.

Alcune delle donne descrivono nel libro le relazioni sessuali di sfruttamento e la disuguaglianza con i sacerdoti. Molte delle donne intervistate hanno scoperto il sesso abbastanza tardi nella vita.

“Una donna ha raccontato di aver avuto un rapporto sessuale per la prima volta all’età di 52 anni. Un altra mi ha detto che, quando ha avuto un uomo, a 50 anni, ha fatto sesso ogni notte per i primi due o tre mesi.

La Fisher è oggi ferocemente critica verso il sistema cattolico, che a suo dire fa si che donne giovani e ingenue si facciano suore (oggi succede più spesso in Africa o in Asia, piuttosto che in Europa o Nord America) sradicandosi dalle loro famiglie ed entrando in convento.

La pratica di prendere giovani donne (o uomini) che sono stati indottrinati in giovane età, per farli impegnare in una vita di castità a soli 20 anni è chiaramente sbagliata, sostiene la sessuologa, riconoscendo comunque alla vita di convento la capacità di rispondere alle domande difficili sul sesso, l’istruzione, le opportunità.

Una intervista sull'anorgasmia femminile

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“Ma è una fuga dalla vita, e comporta un tributo enorme in termini di ricaduta individuale, su tutta la linea. La Chiesa non dovrebbe permettere che ciò accada”

conclude la Fisher, nell’articolo che le ha dedicato The Guardian, per presentare il suo libro, In the Name of God, Why? (Nel nome di Dio: perché?)

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Fonte:
The nun who became a sex therapist, The Guardian

Immagine:
Copertina del libro e Pixabay

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Famiglie monoparentali, ricomposte e arcobaleno: cosa significa "famiglia" oggi

Famiglie monoparentali, ricomposte e arcobaleno

Famiglie monoparentali, ricomposte e arcobaleno: cosa significa “famiglia” oggi

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Se guardiamo su qualsiasi dizionario per sapere cosa significhi la voce “famiglia”, troviamo definizioni come quella della Treccani:

“Istituzione fondamentale in ogni società umana, attraverso la quale la società stessa si riproduce e perpetua, sia sul piano biologico, sia su quello culturale. Le funzioni proprie della f. comprendono il soddisfacimento degli istinti sessuali e dell’affettività, la procreazione, l’allevamento, l’educazione e la socializzazione dei figli, la produzione e il consumo dei beni. “.

In realtà è sotto gli occhi di tutti che nella società moderna le famiglie non sono più queste, oppure lo sono in misura sempre minore, mentre sono in crescita famiglie che un tempo si sarebbero dette “anomale” ma che, con il cambiamento dei costumi, sono diventate sempre più diffuse e dunque “nella norma” o, se si preferisce, “normali”.

La definizione della Treccani aggiunge infatti:

Tuttavia, malgrado la sua universalità, la f. assume nei diversi contesti sociali e culturali una straordinaria varietà di forme, sì da rendere problematico individuare un tratto distintivo che la caratterizzi in ogni circostanza.

Nella società occidentale le famiglie si sono trasformate, nel secolo scorso, da patriarcali, tipiche della società contadina, a famiglie nucleari (cioè composte solo da genitori e figli) e, negli ultimi decenni, con il cambiamento dei costumi, si sono sviluppati nuovi tipi di famiglia, molto diversi fra loro, che comportano legami, abitudini e particolarità non facilmente generalizzabili al significato classico di famiglia. Facciamo tre esempi: le famiglie monoparentali, le famiglie ricomposte e le famiglie arcobaleno.

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Le famiglie con un solo genitore, o monoparentali, un tempo erano dovute all’alto tasso di mortalità (a causa di malattie, guerre, mortalità della madre durante il parto). Negli ultimi venti anni le famiglie monoparentali sono piuttosto dovute alla scelta di uno dei genitori di allevare il proprio figlio da solo/a, anche in assenza di uno stabile rapporto di coppia. Queste famiglie con un solo genitore sono diventate oggi più comuni non solo perché molte donne nubili scelgono di avere figli, pur senza avere un compagno fisso, ma anche in ragione della continua crescita delle separazioni e dei divorzi: in genere il padre cambia casa e i figli restano nella casa coniugale insieme alla mamma.

In Italia le famiglie monoparentali sono circa 5 milioni. Ve ne sono di vari tipi: guidate dalle madri, guidate dai padri, guidate da un nonno che cresce i suoi nipoti… Nel nostro Paese la famiglia monoparentale nettamente più diffusa (85%) è comunque quella composta da una mamma che ha con sé uno o più figli. [Dati Istat Maggio 2013]

La vita in una famiglia monoparentale può essere abbastanza stressante: il genitore infatti può sentirsi spesso stanco e sopraffatto dalla responsabilità di prendersi da solo cura dei figli, di avere un lavoro esterno con il quale mantenersi, di occuparsi della casa e di tutti i problemi della vita quotidiana, fra cui quello di reperire le risorse economiche, che in questo tipo di famiglie sono quasi sempre a livelli inferiori alla media.

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I genitori di famiglie monoparentali affrontano dunque, almeno in Italia, maggiori problematiche rispetto a quelli della famiglia nucleare, vista anche la costante carenza di servizi pubblici per l’infanzia, la difficoltà a seguire il percorso scolastico dei figli, la frequente interruzione dei rapporti con la famiglia dell’altro genitore, che dunque non presta né aiuto fisico, né sostegno emotivo o finanziario. Non ultimi, i problemi causati al genitore singolo da eventuali nuove relazioni sentimentali (mancata accettazione da parte dei figli, gelosia dell’ex per il rapporto che questa persona instaura con i suoi figli, ecc.)

I figli che vivono con un solo genitore hanno maggiori possibilità, rispetto a quelli che vivono con due genitori, di lasciare precocemente la scuola e di non laurearsi. Questo dato, grave e discriminante, può essere spiegato con il fatto di essere cresciuti in ambienti familiari e sociali scarsamente stimolanti. Le ricerche spiegano tuttavia che questi abbandoni sono dovuti principalmente ad un problema di tipo economico [Kathleen M. Ziol-Guest, Greg J. Duncan e Ariel Kalil, 2015]

Le politiche sociali dovrebbero dunque occuparsi delle condizioni di queste famiglie, specialmente nel caso, abbastanza frequente in Italia, in cui le mamme che vivono da sole con i figli hanno il problema di non essere spesso sostenute economicamente dall’ex partner (e padre dei propri figli): un fatto dovuto a volte a effettiva mancanza di risorse economiche o a stato di disoccupazione, ma più spesso all’occultamento fraudolento delle sue disponibilità economiche, per rivalità con la ex, o perché ha bisogno di denaro per sostenere la sua nuova famiglia.

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Anche in Italia, come in altri paesi occidentali, si sono poi diffuse le famiglie “ricomposte” o “ricostituite”. Si tratta di famiglie in cui i figli vivono con un genitore e con il suo nuovo partner, spesso con altri fratellastri, o figli e parenti del genitore non biologico.

Nel biennio 2008-2009 la maggior parte delle famiglie ricomposte italiane vivevano con figli di un solo membro della coppia (11,5%), con figli dell’attuale coppia (39,7%), con figli sia dall’attuale coppia, sia avuti dai due partners in rapporti precedenti (8,1%)[Dati Istat 2008-2009].

Una famiglia ricomposta implica, come implicito nel termine, un successo, cioè che al suo interno si sia riusciti a ricomporre i ruoli e gli affetti primari. Spesso le cose non stanno esattamente così e comunque mantenere l’armonia in questi nuclei familiari comporta un lavoro davvero enorme, sia sul piano organizzativo, sia sul piano emotivo. La famiglia ricomposta richiede infatti la creazione di nuovi spazi e nuovi stili di comunicazione, vista la presenza di figli di genitori diversi. Inoltre, non sempre è facile costruire rapporti di amicizia e complicità con i figli del proprio partner, affrontando e superando le barriere generazionali e stando bene attenti a non usurpare l’autorità e il ruolo del genitore biologico.

La famiglia ricomposta si basa dunque su una nuova cultura familiare, con nuovi codici e nuovi rituali. Non può essere una famiglia chiusa: per sua natura deve sviluppare confini semi-permeabili nei confronti degli ex coniugi (che rimangono comunque i genitori dei propri figli) e stabilire i nuovi ruoli delle tante figure adulte che gravitano intorno ad essa (parenti biologici e adottivi).

Tutto questo comporta spesso tensioni, conflitti, stress, sia nei bambini, sia negli adulti. La coppia in queste famiglie si trova spesso a dover mediare fra bisogni individuali, coniugali o familiari che possono essere fra loro in competizione, all’interno dello stesso sistema familiare.

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Un altro problema della famiglia ricomposta è che i partner hanno in realtà poco tempo per loro e in genere la loro “luna di miele” dura pochissimo: la presenza di uno o più figli obbliga infatti i due partners a cercare una mediazione fra il bisogno di curare la propria intimità di coppia, la relazione con i figli (propri e del partner), i rapporti con gli altri parenti o ex parenti, che talvolta fanno di tutto per mettere i bastoni fra le ruote alla felicità della nuova coppia.

I figli inoltre possono non sentirsi affini al nuovo partner del genitore con cui convivono, e per questo è possibile che siano usati come “spie” dall’altro genitore. Questo porta i bambini di una famiglia ricomposta a maturare velocemente e a cercare di trarre il meglio dall’uno e dall’altro genitore, spesso mettendoli in competizione fra loro. In altri casi invece i figli possono scegliere il silenzio, per liberarsi da questo difficile ruolo cuscinetto fra i loro genitori, sentendosi però in colpa per non poter essere con loro del tutto sinceri e leali, specialmente quando la situazione generale è altamente conflittuale. Vivere in una famiglia ricomposta dunque è un impegno notevole, per tutti, anche se può dare la soddisfazione di vivere in una famiglia particolarmente stimolante e non convenzionale, con ruoli e relazioni spesso inattesi e sorprendentemente appaganti.

Vi sono poi le famiglie “arcobaleno”, cioè quelle in cui le figure adulte che le guidano sono persone lesbiche, gay, bisessuali o transessuali (LGBT) e delle quali ultimamente in Italia si è parlato spesso.

Si chiamano “arcobaleno” perché possono essere di tanti tipi. Ad esempio, possono riguardare persone che hanno avuto dei figli in una precedente relazione eterosessuale e che in seguito hanno deciso di dare vita ad una famiglia ricomposta, con un partner del proprio sesso. Può trattarsi inoltre di coppie di lesbiche che si servono della procreazione assistita o dell’autoinseminazione, oppure di coppie di gay che hanno dei figli grazie ad una madre surrogata (pratica altrimenti detta dell'”utero in affitto”).


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Altro tipo di famiglia arcobaleno è quella fondata da persone omosessuali di sesso differente che decidono di avere un figlio biologico ed organizzano la loro vita familiare come le altre coppie eterosessuali separate, con affido congiunto dei figli.

Dopo la votazione di ieri al Senato per le unioni civili, anche in Italia si sta introducendo una legge che regola queste coppie (ma non queste famiglie): si spera dunque, con questa legge, di aver superato il solo richiamo al senso di responsabilità personale nel costituire un nuovo nucleo familiare anche se, come si sa, per il momento non è possibile adottare i figli del partner e dunque le famiglie arcobaleno restano in Italia delle famiglie di fatto e non di diritto.

Le domande che le persone si pongono in questi casi e che hanno animato il dibattito pubblico sulle unioni civili sono soprattutto queste: è lecito o consigliabile che dei minori possano crescere in queste famiglie? I genitori omosessuali possono essere genitori come tutti gli altri?

Al di là delle opinioni personali, la maggior parte degli studi condotti in materia ritiene che ciò che conta non sono gli orientamenti sessuali dei due genitori, ma come essi effettivamente si comportano nella coppia e verso i figli e come si sostengano a vicenda nella vita genitoriale.

I ricercatori hanno scoperto che le coppie gay e lesbiche sono più propense a condividere equamente i compiti di custodia dei bambini, a differenza delle coppie eterosessuali, che tendono a specializzarsi, con le donne che si accollano più lavoro degli uomini per curare il benessere dei figli.

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I figli allevati da genitori LGBT non sembrano grandemente influenzati da come i genitori si dividano i compiti in famiglia, ma dall’armonia presente nella loro relazione. Forse non sarà una sorpresa il fatto che i figli di genitori omosessuali abbiano una minore adesione ai ruoli tradizionali maschili e femminili, ma questa distanza dai modelli tradizionali di comportamento non sembra necessariamente spingerli verso l’omosessualità. [Farr R.H., Forssell L., Patterson C.J., 2010].

Concludendo, forse i nostri dizionari dovrebbero essere aggiornati: la famiglia oggi è composta da un nucleo di persone che stanno insieme perché si sono scelte (anche i figli dei separati possono scegliere, quando è possibile, con quale genitore andare a convivere). Spiace citare la politica, ma è proprio così; queste famiglie esistono solo perché c’è qualcosa che le lega profondamente: l’amore.

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Il femminismo: di cosa si tratta

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Il femminismo è un movimento sociale, culturale e politico che rivendica la parità dei diritti tra i generi, contrastando le disuguaglianze e le discriminazioni sistemiche subite dalle donne. Non si tratta di supremazia, ma di giustizia ed equità. Cerchiamo di saperne di più.

Femminismo: di cosa si tratta?

Il femminismo è un movimento composto prevalentemente da donne, che tende a realizzare l’uguaglianza sociale, economica e politica dei sessi. Benché largamente originario dell’Occidente, il femminismo si è manifestato in tutto il mondo, a favore dei diritti e degli interessi delle donne.

Cause che lo hanno determinato

Quasi tutte le società del mondo, secondo le femministe, si sono basate sul patriarcato, a cominciare dalla prima donna, Eva, che fu posta da Dio sotto l’autorità di Adamo. La donna è sempre stata un possesso: prima del padre e poi del marito, senza alcun diritto giuridico sulla sua persona, sui figli, sui beni, che venivano tramandati per discendenza maschile. Alla base dell’ideale femminista vi è invece la convinzione che i diritti sociali e politici del cittadino prescindano totalmente dal genere sessuale cui si appartiene.

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Il termine “femminismo”

Il termine “femminismo” sembra sia stato coniato dal socialista Charles Fourie nel 1837, ma fu spesso usato in senso spregiativo, per mettere in ridicolo le donne che rivendicavano la parità dei diritti.

STORIA DELLA CONDIZIONE FEMMINILE E NASCITA DEL FEMMINISMO

Mondo antico

Ci sono poche prove di proteste organizzate dalle donne del mondo antico sin dal III secolo A.C. , quando le donne romane riempirono il Campidoglio e bloccarono ogni ingresso al Foro perché Marco Porcio Catone si rifiutava di abrogare le leggi che limitavano l’uso da parte delle donne di beni costosi. “Se vincono adesso, cosa non tenteranno?” Gridò Catone. “Non appena inizieranno a essere tuoi pari, diventeranno i tuoi superiori”.
Quella ribellione, in ogni caso, fu un’eccezione, non la regola.

Europa medievale

Nell’Europa medievale, alle donne era negato il diritto di possedere proprietà, di studiare o di partecipare alla vita pubblica. Alla fine del XIX in molti Paesi, fra cui la Francia e l’Italia, le donne erano ancora costrette a coprirsi la testa in pubblico, e, in alcune parti della Germania, un marito aveva ancora il diritto di vendere la moglie, considerata come un bene di cui poteva disporre, al pari del bestiame.

XIV-XV Secolo

La storia registra solo voci isolate contro lo stato di inferiorità in cui veniva tenuta la donna, almeno fino alla fine del XIV e l’inizio del XV secolo in Francia, quando la prima filosofa femminista, di origine italiana, Christine de Pizan, sfidò gli atteggiamenti prevalenti nei confronti delle donne con un audace appello all’educazione femminile. Il suo credo fu ripreso più tardi da Laura Cereta, una donna veneziana del XV secolo che pubblicò Epistolae familiares (1488; “Lettere personali” ad altri intellettuali della sua epoca). Nel libro la Cereta lamenta le condizioni in cui le donne dovevano vivere, parla della impossibilità di accedere all’istruzione e dell’oppressione matrimoniale.

I difensori dello status quo dipingevano le donne come superficiali e intrinsecamente immorali, ma queste prime femministe cercarono in tutti i modi di dimostrare che le donne sarebbero state pari agli uomini se avessero avuto uguale accesso all’istruzione.

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XVI Secolo

Nel XVI secolo, Jane Anger, scrisse un libro tutto a difesa delle donne: Protection for Women (1589).  Un’altra femminista ante litteram fu l’inglese Mary Astell, la quale scrisse Una proposta saggia alle signore (1694, 1697), un libro in due volumi in cui suggeriva alle donne che non si sentivano portate né per il matrimonio né per la vocazione religiosa, a creare conventi secolari dove poter vivere, studiare, e insegnare.

Illuminismo

Con l’Illuminismo, le donne iniziarono a chiedere che le riforme sulla libertà, l’uguaglianza e i diritti naturali fossero applicate ad entrambi i sessi. I filosofi illuministi infatti si erano concentrati sulle ingiustizie relative alla classe sociale, ma non presero in considerazione le ingiustizie sociali relative al genere sessuale. Il filosofo Jean-Jacques Rousseau, ad esempio, raffigurava le donne come creature sciocche e frivole, nate per essere subordinate agli uomini. Inoltre, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, che definì la costituzione francese dopo la rivoluzione del 1789, non riuscì a correggere lo status legale delle donne.

Olympe de Gouges, nota drammaturga, pubblicò la Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne (1791), dichiarando che le donne non solo erano uguali all’uomo, ma sue partner. Finì ghigliottinata. L’anno successivo Mary Wollstonecraft pubblicò A Vindication of the Rights of Woman (1792), sfidando l’idea che le donne esistessero solo per compiacere gli uomini e proponendo che alle donne e agli uomini fossero offerte pari opportunità nell’istruzione, nel lavoro e nella politica. Le donne, scrisse, sono naturalmente razionali come gli uomini. Se sono sciocche, è solo perché la società le educa ad essere esseri irrilevanti. I suoi scritti furono un altro insuccesso.

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XIX Secolo

Nel 1848 e le femministe parigine iniziarono a pubblicare un quotidiano dal titolo La Voix des femmes (” La voce delle donne “) e Luise Dittmar, una scrittrice tedesca, ne seguì l’esempio un anno dopo con il suo giornale, Soziale Reform. Negli Stati Uniti, l’attivismo femminista mise radici verso la metà del XIX secolo, quando le questioni che riguardavano la condizione della donna si erano aggiunte alle lotte per il cambiamento sociale, con un proficuo scambio di idee tra Europa e Nord America. Nel 1843 fu redatto il primo vero e proprio manifesto femminista, da parte di Margaret Fuller. Il manifesto fu pubblicato dapprima come saggio, dal titolo “L’uomo contro gli uomini – La donna contro le donne”, all’interno della rivista The dial (nel 1845 esso fu rielaborato ed apparve nuovamente col nuovo titolo La donna nel XIX secolo). La nascita del movimento femminista vero e proprio tuttavia si fa risalire in genere alla prima Women’s Rights Convention a Seneca Falls, New York, nel luglio 1848.

Tutto nacque da un’iniziativa di Lucrezia Mott, una predicatrice quacchera e attivista sociale, Martha Wright (sorella della Mott), Mary Ann McClintock, Jane Hunt e Elizabeth Cady Stanton, moglie di un abolizionista e unica non-quacchera del gruppo. La conferenza fu programmata con un preavviso di cinque giorni e pubblicizzata solo da un breve annuncio su un giornale locale.

Sebbene Seneca Falls fosse stata seguita da altre conferenze sui diritti delle donne in altri stati, l’interesse suscitato da quei primi momenti di organizzazione svanì rapidamente. Negli Stati Uniti stava per divampare la guerra civile, mentre in Europa il riformismo degli anni ’40 del secolo scorso lasciava il posto alla repressione della fine degli anni ’50. Dopo la guerra civile, le femministe americane speravano che il suffragio femminile sarebbe stato incluso nel Quindicesimo emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti, che proibiva la discriminazione sulla base della razza. Invece, anche i principali abolizionisti della schiavitù si rifiutavano di sostenere tale inclusione. Questo spinse la Stanton e Susan B. Anthony, a formare l’Associazione nazionale per il suffragio femminile, nel 1869. La Stanton usò la Dichiarazione di Indipendenza come guida per proclamare che “tutti gli uomini e le donne sono stati creati uguali”; redasse 11 risoluzioni, compresa la richiesta più radicale: il diritto al voto. Inizialmente dunque l’unica richiesta femminista americana era il diritto al voto, sul principio illuminista della legge naturale, invocando il concetto dei diritti umani inalienabili concessi a tutti gli americani con la Dichiarazione di Indipendenza.

La passione americana per principi come quello dell’uguaglianza tuttavia fu smorzata da un’ondata di immigrazione proveniente dall’Europa e dalla crescita delle baraccopoli urbane. Le suffragette a quel punto, prendendo atto di questo cambiamento di atteggiamento, iniziarono a fare appello per il voto basandosi  non più sul principio di giustizia, o sull’umanità comune di uomini e donne, ma su basi razziste e nativiste.

Già nel 1894, Carrie Chapman Catt dichiarò che i voti delle donne alfabetizzate e borghesi avrebbero bilanciato i voti degli stranieri. Questa inclinazione elitaria allargò il divario tra le femministe e le masse di donne americane che vivevano in quelle baraccopoli, o parlavano con accenti stranieri. Di conseguenza, le donne della classe operaia, preoccupate per gli stipendi e il lavoro, parteciparono più al movimento sindacale che a quello femminista.

Emma Goldman, anarchica e femminista, pensava che il diritto al voto fosse una battaglia secondaria per le donne. Quello che contava era “rifiutare il diritto a chiunque di agire sul tuo corpo … Rifiutare di essere un servitore di Dio, dello stato, della società, del marito, della famiglia, ecc., rendendo la propria vita più semplice ma più profonda e ricca.” Allo stesso modo, Charlotte Perkins Gilman, in Women and Economics (1898),  insisteva sul fatto che le donne non sarebbero state liberate fino a quando non si fossero liberate della “mitologia domestica” della casa e della famiglia, che le manteneva dipendenti dagli uomini.

Il primo diritto rivendicato dalle donne italiane fu invece quello dell’istruzione. Non sarebbe mai stato possibile infatti uscire dalle mura domestiche, trovare un lavoro esterno, accedere ai diritti politici e di cittadinanza, se le donne non avessero avuto accesso alla scuola pubblica. Pioniere del movimento per i diritti della donna in Italia furono, tra le altre, Cristina Trivulzio principessa di Belgiojoso, Matilde Calandrini, Emilia Peruzzi, Alessandrina Ravizza, Laura Mantegazza, Clara Maffei, Anna Maria Mozzoni, Sibilla Aleramo ed Anna Kuliscioff. Bianca Milesi, dopo aver studiato in Austria e in Svizzera, provò a diffondere anche in Italia la creazione di scuole popolari di mutuo insegnamento, dando vita anche ad una sezione femminile della carboneria per la diffusione delle idee mazziniane. Le femministe italiane di fine secolo erano perlopiù donne senza figli, animate da ideali romantici e populisti, vicine agli ambienti socialisti e anarchici.

Per la cronaca, il tanto auspicato diritto al voto fu concesso per la prima volta in Nuova Zelanda, nel 1893. In Europa a votare per prime furono le donne finlandesi: grazie ad una Legge del 1906 esse divennero ufficialmente eleggibili ed elettrici. Nelle altre parti d’Europa il diritto di voto per le donne fu ottenuto solo dopo la prima guerra mondiale, fra il 1918 ed il 1919, anche come riconoscimento del loro valore, per essere rimaste a presidiare i luoghi di lavoro e le loro famiglie, mentre i mariti erano in guerra e per essersi prestate come crocerossine nei campi di battaglia. Le francesi e le italiane dovettero attendere la fine della seconda guerra mondiale per ottenere il diritto di voto. La relativa legge italiana è infatti del 1946.

XX Secolo

Ancora agli inizi del XX secolo, le donne non potevano né votare né esercitare incarichi elettivi in ​​Europa e nella maggior parte degli Stati Uniti. Alle donne era impedito di condurre affari senza un rappresentante maschile (poteva essere il fratello, il padre, il marito, o anche un figlio).  Le donne sposate non potevano esercitare il controllo sui propri figli senza il permesso dei loro mariti. Inoltre, le donne avevano scarso accesso all’istruzione ed erano escluse dalla maggior parte delle professioni. In alcune parti del mondo, tali restrizioni sulle donne continuano ancora oggi.

Alice Paul riaccese il movimento per il suffragio delle donne negli Stati Uniti copiando le attiviste inglesi, guidate dalla National Union of Woman Suffrage Societies, le quali avevano inizialmente affrontato la loro lotta in modo educato, con un lobbismo “da signora”. Nel 1903 tuttavia una fazione dissidente, guidata da Emmeline Pankhurst iniziò una serie di boicottaggi, attentati  e picchetti. La loro tattica incendiò la nazione e nel 1918 il Parlamento britannico estese il voto alle donne titolari di una casa, alle mogli di capofamiglia e alle donne laureate che avevano compiuto 30 anni.

Nel 1920 anche il femminismo americano rivendicò il suo primo grande trionfo con l’approvazione del Diciannovesimo Emendamento della Costituzione.

Una volta raggiunto l’obiettivo cruciale del suffragio tuttavia, il movimento femminista praticamente crollò in Europa e negli Stati Uniti. Mancando un’ideologia, al di là del raggiungimento del voto, il femminismo si divise in una decina di gruppi frammentati, che lottavano chi per l’educazione e l’assistenza alla salute materna e infantile, chi per la protezione delle donne sul lavoro, ecc. Ognuno di questi gruppi offriva un contributo sul piano dei diritti sociali, ma nessuno era specificamente di natura femminista.

Suzanne LaFollette, una femminista radicale, affermò imprudentemente, nel 1926, che gli obiettivi delle donne erano stati “largamente conquistati”. Prima che qualsiasi errore in quella dichiarazione potesse essere discusso, gli Stati Uniti e il mondo precipitarono nella Grande Depressione. Successivamente, la seconda guerra mondiale cancellò completamente l’attivismo femminista, in qualsiasi continente.

La guerra aprì opportunità lavorative per le donne, visto che gli uomini erano impegnati nella guerra. Dopo la guerra tuttavia, gli uomini ripresero il loro posto in fabbrica e le donne tornarono nelle case. Niente però poteva ormai essere come prima.

Nel 1949 uscì il libro Il secondo sesso di Simone de Beauvoir nel quale l’autrice faceva una lucida analisi della condizione femminile. La de Beauvoir affermava che conoscere se stessa era, per una donna, un percorso veramente difficile: tutte le identità che le venivano proposte dalla cultura ufficiale infatti erano identità alienanti, che la mortificavano, che registravano il suo stato di assenza culturale, di minorità sociale. La donna doveva rifiutare di essere l’Altro dell’identità maschile e pagare il prezzo che questa scelta comportava. Nella storia della specie umana, diceva ancora la Beauvoir, la preminenza era stata accordata non al sesso capace di generare, ma al sesso che uccide, e su questi valori si era costituita qualsiasi civiltà. Di fronte a questa situazione, la donna non aveva mai opposto dei “valori femminili”, limitandosi a modificare la propria posizione in seno alla coppia e alla famiglia. La donna, diceva l’intellettuale francese, doveva finalmente cercare la strada per la sua libertà: alla donna , e solo a lei, spettava finalmente di decidere che cos’è veramente una donna.

Nel 1960 la percentuale delle donne che lavoravano fuori casa era ancora inferiore, rispetto alle cifre del 1930.

Il movimento femminile degli anni ’60 e ’70 costituì la cosiddetta “seconda ondata” del femminismo: in questa le donne si batterono per la conquista dei diritti civili.

In America John Kennedy, nel 1961, creò la President’s Commission on the Status of Women e nominò Eleanor Roosevelt a guidarla. Il suo rapporto, pubblicato nel 1963, sosteneva fermamente la famiglia nucleare e preparava le donne alla maternità, ma documentava anche uno stato di discriminazione sul lavoro, la disparità salariale e legale, gli scarsi mezzi di sostegno alle donne lavoratrici.

La nuova scintilla femminista risale al 1963 con l’uscita, negli Stati Uniti, del libro di Betty Friedan, Mistica della femminilità, nel quale l’autrice denunciava il ruolo coatto di “sposa” e “madre” della donna americana, e rivendicava l’uguaglianza della donna all’uomo nel campo professionale, culturale e politico.

Nel 1966 la Friedan, insieme ad Aileen Hernandez e Pauli Murray, fondò il “National Organization for Women” (NOW) rivendicando i diritti civili delle donne. Le lotte riguardavano il diritto di contraccezione e di aborto e l’uguaglianza all’interno della coppia. Un altro libro fondamentale per le lotte femministe fu La politica del sesso, di Kate Millet (1969). «Il privato è politico» affermavano le femministe, invitando le donne ad affrancarsi dai rapporti di potere che il patriarcato rappresentava, attraverso un atavico sistema di oppressione sulle donne. « Lavoratori di tutto il mondo, chi vi lava i calzini? » scandivano per le strade di Parigi le manifestanti negli anni settanta.

Shulamith Firestone, una delle fondatrici delle gruppo di femministe radicali di New York, pubblicò la Dialettica dei sessi, insistendo sui legami malati che molte donne stringevano con uomini che erano poi anche i loro oppressori.  Germaine Greer, una australiana che viveva a Londra, pubblicò L’Eunuco Femmina, in cui sosteneva che la repressione sessuale delle donne le separava dall’energia creativa di cui esse avevano bisogno per essere indipendenti e auto-realizzate.

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A differenza della prima ondata, che puntava solo al diritto di voto, il femminismo della seconda ondata provocò un’ampia discussione teorica sulle origini dell’oppressione delle donne, sulla natura del genere e sul ruolo della famiglia.

Il femminismo divenne a questo punto un mare di vortici e correnti fra loro in competizione: l’unica cosa comune era la guida del movimento, affidato soprattutto a donne bianche della classe media, istruite, che avevano adattato le lotte femministe alla loro concezione della vita e alle loro esperienze. Questo aveva creato un rapporto ambivalente, se non controverso, con donne di altre classi sociali e etnie.

In America le donne di colore non si riconoscevano nel movimento: esse dovevano confrontarsi, oltre che sulle questioni di genere, anche sul razzismo (anche da parte delle donne bianche).  Tali questioni sono state affrontate da femministe nere tra cui Michele Wallace, Mary Ann Weathers,  Alice Walker e Bettina Aptheker.

L’appello delle femministe bianche per l’unità e la solidarietà era basato sulla loro convinzione che le donne costituissero una classe o una casta di genere che era caratterizzata dall’oppressione comune. Molte donne di colore tuttavia avevano difficoltà a vedere le donne bianche come loro sorelle femministe; agli occhi di molte afroamericane, dopo tutto, le donne bianche erano simili ai loro mariti, nell’opprimere le persone non bianche. “Quanto sono rilevanti le verità, le esperienze, i risultati delle donne bianche rispetto alle donne nere?”, si chiedeva Toni Cade Bambara in The Black Woman: An Anthology (1970). Le femministe nere pensavano che le femministe bianche fossero incapaci di comprendere le loro preoccupazioni.

Durante la prima conferenza della National Black Feminist Organization, tenutasi a New York City nel 1973
le attiviste di colore riconobbero che molti degli obiettivi centrali per il movimento femminista erano fondamentali anche per loro: aborto, congedo di maternità, violenza domestica. Su questioni specifiche, quindi, le femministe afroamericane e le femministe bianche potevano costruire un rapporto di lavoro efficace. Su questa base è nata la terza ondata del femminismo.

La parità fra i sessi, che era già contemplata nella Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, fu riaffermata nel 1979 dalla Convenzione internazionale per l’abolizione di tutte le forme di discriminazione contro le donne. I figli dovevano venire al mondo solo quando erano desiderati, le donne dovevano entrare nelle istituzioni e discutere insieme agli uomini le decisioni da prendere per guidare la società, composta da uomini e donne. Nel 1975 le Nazioni Unite dichiararono quello «l’anno della donna» ed organizzarono in Messico la prima conferenza mondiale dedicata al problema femminile.

In Italia, grazie alle lotte femministe, negli anni Settanta venne istituito il divorzio (1970), fu modificato il diritto di famiglia (1975), furono istituiti i consultori familiari, promulgata la legge sulle pari opportunità, liberata la vendita e il consumo di contraccettivi, approvata la legge che regola l’aborto (1978), costituiti i Centri antiviolenza e le Case delle donne, per accogliere le donne maltrattate.

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Alla fine del XX secolo, le femministe europee e americane iniziarono a interagire con i nascenti movimenti femministi di Asia, Africa e America Latina. Le donne dei paesi sviluppati, in particolare le intellettuali, inorridirono nello scoprire che le donne in alcuni paesi dovevano indossare il velo in pubblico o sopportare matrimoni forzati, infanticidi femminili,  o mutilazioni genitali. Molte femministe occidentali ben presto si percepirono come una sorta di salvatrici per le donne del Terzo Mondo, non rendendosi conto che le loro percezioni e soluzioni ai problemi sociali erano spesso in contrasto con le preoccupazioni reali delle donne che vivevano in queste regioni. In molte parti dell’Africa, ad esempio, l’idea che il patriarcato fosse il problema principale – e non  l’imperialismo europeo – sembrava assurdo.

Durante la Conferenza internazionale sulla popolazione e lo sviluppo del 1994, al Cairo, le donne del terzo mondo protestarono perché credevano che l’ordine del giorno fosse stato modificato dalle donne europee e americane. Le manifestanti si aspettavano di parlare dei modi in cui il sottosviluppo opprimeva le donne. Invece, le organizzatrici della conferenza avevano scelto di concentrarsi sulla contraccezione e sull’aborto.

Le donne del terzo mondo sostenevano che non potevano preoccuparsi di altre questioni, quando i loro figli morivano di sete, fame o guerra. La conferenza si era invece incentrata sulla riduzione del numero dei neonati del Terzo Mondo, al fine di preservare le risorse della terra, nonostante fosse chiaro che a consumare queste risorse fosse il Primo, non il Terzo mondo. A Pechino, alla Quarta Conferenza mondiale sulle donne del 1995, le donne del Terzo Mondo criticarono nuovamente le priorità delle donne americane ed europee nel parlare dei diritti riproduttivi e delle discriminazioni sulla base dell’orientamento sessuale e del loro disinteresse per la proposta di piattaforma più importante per le nazioni meno sviluppate, cioè quella della ristrutturazione del debito internazionale.

Negli anni Ottanta e Novanta il femminismo, come movimento, si è praticamente spento, per riaccendersi in questo ultimo anno, in seguito alla nascita del movimento #MeToo, che lotta contro le molestie sessuali. Tutto è nato da un articolo pubblicato sul New York Times, il 5 Ottobre del 2017, nel quale numerose attrici denunciavano le sgradite avances sessuali di Harvey Weinstein, un famoso produttore di Hollywood. Il resto è cronaca.

Giuliana Proietti

Il desiderio sessuale nella donna infertile
Relazione presentata al Congresso Nazionale Aige/Fiss del 7-8 Marzo 2025 a Firenze. 

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Fonte principale:
Enciclopedia Britannica

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Molestie sessuali: cosa sono, come riconoscerle

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Le molestie sessuali: cosa sono?

Le molestie sessuali riguardano un comportamento indesiderato, di natura sessuale, che ha lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona, o di creare un clima ostile, intimidatorio, degradante, offensivo ed umiliante.

Quale è il confine fra avance e molestia?

La parola chiave è “comportamento indesiderato”. Una persona può acconsentire o accettare determinati comportamenti e parteciparvi attivamente anche anche se sono offensivi, immorali o discutibili. La condotta sessuale è da considerarsi molestia quando è indesiderata. Una richiesta di appuntamento, un commento sessuale, uno scherzo possono in alcune circostanze essere accettati ed in altre no: il consenso va ricercato ogni singola volta.

Quali sono i tipi di molestie sessuali?

Le molestie sessuali riguardano i seguenti comportamenti indesiderati:

. Violenza effettiva o tentata o violenza sessuale;
· Pressione per favori sessuali;
· Carezze, abbracci, pizzichi, baci, sfioramenti;
· Gesti sessuali;
· Lettere, telefonate o invio di materiali di natura sessuale;
· Fischi di apprezzamento;
· Massaggi (non desiderati) al collo;
· Mostrare i genitali o strusciarli sul corpo di una persona;
· Guardare una persona dall’alto in basso in segno di ammirazione;
· Fissare qualcuno;
. Bloccare il passo a qualcuno;
· Seguire una persona;
· Fare regali personali a qualcuno;
· Mostrare immagini sessuali;
· Fare gesti sessuali con le mani o i movimenti del corpo;
· Fare espressioni facciali ammiccanti, lanciare baci o leccarsi le labbra;
. Avvicinarsi eccessivamente a qualcuno.

Le molestie sessuali possono essere anche espressioni verbali indesiderate:

. Riferirsi ad un persona adulta come se fosse una bambina, una bambola o una persona “cara”;
· Fare pettegolezzi sulla vita sessuale di una persona;
· Fare commenti sessuali sul corpo di una persona;
· Fare commenti o allusioni sessuali;
· Trasformare le discussioni di lavoro in argomenti sessuali;
. Fare pressione nella richiesta di appuntamenti;
· Fare battute e commenti su argomenti sessuali;
· Raccontare barzellette o storie sessuali;
· Fare domande personali sulla vita relazionale o sessuale.

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Autori: Dr. Giuliana Proietti - Dr. Walter La Gatta
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Quanto sono diffuse le molestie sessuali sul posto di lavoro?

Una indagine (Agosto 2016) condotta nel Regno Unito dal Trade Union Congress (TUC) ha mostrato che le molestie sessuali sul posto di lavoro sono ancora molto diffuse, nonostante la normativa che le vieta. Nel 2016 più della metà (52%) delle donne e quasi due terzi (63%) delle ragazze ha subito molestie sessuali sul posto di lavoro.

Quattro su cinque donne (79%) hanno tuttavia dichiarato che non ne avrebbero parlato col proprio datore di lavoro. Lo studio ha esaminato più di 1.500 donne, scoprendo che il 35% ha ascoltato commenti di natura sessuale riguardanti le proprie colleghe, mentre sono state oggetto diretto di scherzi e battute indesiderate di tipo sessuale il 32% del campione.

Quasi 1/4 delle donne intervistate ha dichiarato di aver sperimentato toccatine indesiderate, mentre un quinto ha ricevuto avances sessuali vere e proprie. In 9 casi su 10, l’autore delle molestie è un collega di sesso maschile, e quasi 1 volta su 5 è un dirigente della vittima. Ben 4 donne su 5 hanno detto che non avrebbero segnalato la molestia sessuale al loro datore di lavoro, perché non si aspettavano alcun cambiamento a seguito della denuncia.

Quasi i 3/4 delle donne che avevano denunciato le molestie sessuali hanno infatti riferito che non vi era stato alcun cambiamento positivo. Il 16% ha detto di aver ricevuto un trattamento addirittura peggiore sul posto di lavoro, rispetto a prima della denuncia.

Quali sono le conseguenze per le donne molestate?

Le donne molestate possono sperimentare una serie di conseguenze negative, compresi problemi di salute fisica e mentale, interruzioni di carriera e guadagni inferiori. Inoltre, le molestie sessuali possono limitare o scoraggiare le donne dall’avanzare in carriere più remunerative e possono contribuire al persistente divario salariale di genere.

Le molestie sessuali possono infine intersecarsi con altre forme di discriminazione sulla base dell’etnia, dell’orientamento sessuale, dell’età, della disabilità o semplicemente del genere sessuale. Infatti, sul lavoro possono esservi anche discriminazioni di genere, senza le tipiche avances: quando, ad esempio, si molesta una persona solo in quanto donna.

La ricerca suggerisce che solo un piccolo numero di coloro che subiscono molestie (una persona su dieci) denuncia formalmente le molestie subite, a causa della mancanza di strumenti di reclamo accessibili, semplice imbarazzo, o paura di ritorsioni (Cortina e Berdahl 2008).

Perché è stato importante il movimento MeToo?

In anni recenti il movimento #MeToo ha aumentato la visibilità delle molestie sessuali e le influenze negative che questi indesiderati comportamenti portano nella vita di una persona.

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Quali lavoratrici, in particolare, subiscono molestie sessuali?

Nel 2015 l’Ente americano EEOC ha convocato una Task Force per studiare le molestie sul posto di lavoro e capire meglio perché le molestie sono così diffuse al lavoro e cosa può essere fatto per prevenirle.  Si è visto così che sono particolarmente a rischio le persone che:

• Ricevono delle mance

Lavoratori nel settore “alloggi e servizi di ristorazione” cioè personale di sala e ai piani che ricevono  spesso delle mance, hanno una percentuale significativamente maggiore di ricevere molestie  (Frye 2017 ).

• Lavorano in un contesto isolato

Molti lavoratori, come custodi, addetti alle pulizie, lavoratori alberghieri e lavoratori agricoli, che lavorano spesso in spazi isolati, riportano percentuali di molestie sessuali e aggressioni più elevate della media (Fernández Campbell 2018, Yeung e Rubenstein 2013, Yeung 2015). L’isolamento rende le cose più facili per gli abusanti che possono sentirsi incoraggiati dalla mancanza di testimoni (Feldblum e Lipnic 2016).

• Non hanno lo status di immigrato regolare o un permesso di lavoro 

I lavoratori privi di documenti o quelli con visto temporaneo possono essere particolarmente a rischio di molestie e aggressioni: nell’agricoltura, nelle fabbriche, nel lavoro domestico e servizi di pulizia  (Bauer e Ramirez 2010, Hegewisch, Deitch e Murphy 2011, Yeung e Rubenstein 2013, Yeung 2015). La maggior parte di questi lavoratori non denuncia le molestie e le violenze per non mettere a rischio il loro status di immigrati. (Bauer e Ramirez 2010, Smith, Avendaño e Ortega 2009).

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• Lavorano in un luogo a prevalenza maschile

Le donne che lavorano in occupazioni in cui sono una piccola minoranza (Willness, Steel e Lee 2007) o in ambienti incentrati su compiti tradizionalmente maschili (Fitzgerald et al., 1997), possono essere particolarmente vulnerabili alle molestie e alle violenze. Uno studio del National Defense Research Institute del 2014 sulle violenze sessuali e le molestie nelle Forze Armate ha stimato che il 26% delle donne che vi lavora ha subito molestie sessuali o discriminazioni di genere nell’ultimo anno. Uu altro studio della National Academy of Sciences ha documentato alti livelli di molestie nei confronti del personale femminile che insegna nei dipartimenti universitari di scienze, ingegneria e medicina (National Academy of Sciences 2018).

• Lavorano in un ambiente con forti squilibri di potere

Data la minore probabilità che le donne occupino posizioni “senior”, questi luoghi sono un fattore di rischio per le molestie e le violenze sessuali. Il personale più giovane può essere soggetto a comportamenti irrispettosi da parte di soggetti che possono permettersi di non rispettare i regolamenti interni  (Feldblum e Lipnic 2016).

Questi fattori di rischio strutturali spesso si intersecano e sono esacerbati dal razzismo e dalla discriminazione sulla base dell’età, della disabilità, del genere sessuale, o dell’etnia. Inoltre, lavorare in posti di lavoro a basso salario può comportare un rischio più elevato di molestie (Sepler 2015): è probabile infatti che chi prende una paga minima lavori in aziende  piccole, non sindacalizzate, senza meccanismi di denuncia ufficiali. Guadagnare poco può anche rendere più difficile per un lavoratore lasciare il lavoro, o rischiare di perderlo, presentando un reclamo.

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