Disturbo di identità di genere: dati di prevalenza, cenni storici, definizioni
Disturbo di identità di genere e transessualismo sono i vocaboli usati per descrivere la condizione di un soggetto che desidera vivere ed essere accettato come un membro del sesso opposto; in particolare, il disturbo consiste in un intenso e persistente convincimento di appartenere al sesso opposto, in persone che non presentano alcuna anomalia fisica. Tale condizione si manifesta con malessere e disagio profondo (la cosiddetta “disforia di genere”) nei confronti delle caratteristiche sessuate del proprio corpo, sentito come estraneo; lo stesso senso di estraneità viene provato per i comportamenti e gli atteggiamenti che sono tipici del proprio sesso, all’interno del quale il soggetto non si riconosce.
Il disturbo, che nella maggior parte dei casi è autodiagnosticato, può colpire sia i soggetti di sesso femminile (disturbo female to male, FtM) che quelli di sesso maschile (disturbo male to female, MtF); i dati relativi alla prevalenza del disturbo variano in base all’epoca e al Paese in cui sono stati condotti, come mostra la tabella di seguito:
Prevalenza del transessualismo: review di alcuni studi
Studio | Paese | MtF | FtM |
Walinder 1968 | Svezia | 1:37000 | 1:103000 |
Pauly 1968 | USA | 1:100000 | 1:400000 |
Hoenig & Kenna 1973 | Inghilterra | 1:34000 | 1:108000 |
Ross et al 1981 | Australia | 1:24000 | 1:150000 |
O’Gorman 1982 | Irlanda | 1:35000 | 1:100000 |
Eklund et al 1986 | Paesi Bassi | 1:18000 | 1:54000 |
Tsoi 1988 | Singapore | 1:2900 | 1:8300 |
Bakker et al 1993 | Paesi Bassi | 1:11900 | 1:30400 |
Weitze & Osburg 1996 | Germania | 1:42000 | 1:104000 |
Wilson et al 1999 | Scozia | 1:12700 | 1:52000 |
De Cuypere et al 2007 | Belgio | 1:12900 | 1:33800 |
(Modificata da De Cuyper et al, 2007).
Il disturbo è più frequente nella forma MtF con una sex-ratio di circa 3:1.
Il transessualismo non è un fenomeno esclusivo della nostra cultura. Ad esempio, in alcune popolazioni Induiste e Buddiste dei Paesi dell’Asia Meridionale ed Orientale si crede che i transessuali abbiano vissuto una precedente vita come appartenenti all’altro sesso e che di tale esperienza portino un inconscio ricordo. Tra i nativi d’America, i transessuali hanno una funzione sciamanica. Di fatto, tuttavia, nella maggioranza delle società, il fenomeno ha una connotazione negativa: persistono ancora pregiudizi nei confronti di queste persone che, spesso vittime di molestie e violenze psichiche e fisiche, sono più vulnerabili a depressione, abuso di sostanze stupefacenti e comportamenti suicidiari. Questi rischi sono direttamente connessi a una condizione di emarginazione e a una situazione legislativa spesso incompleta ed inadeguata.
In Italia, il provvedimento che regola il procedimento di riattribuzione di sesso è stato promulgato nel 1982 (legge n.164 del 14.04.82). Tranne casi particolari in cui risulti una specifica autorizzazione da parte del Tribunale dei Minori, l’autorizzazione alla riattribuzione di sesso può essere concessa solo a quanti abbiano raggiunto la maggiore età.
Prima della promulgazione di questa legge le procedure medico-chirurgiche finalizzate al cambiamento di sesso erano illegali. Con la legge, è stato sancito che il trattamento medico-chirurgico è possibile, ma deve risultare necessario ed essere autorizzato con sentenza. La legge ha avuto inoltre un carattere “sanatorio”, legittimando situazioni di fatto già esistenti al momento della sua promulgazione.
Non sempre per i transessuali il ricorso all’intervento chirurgico di riattribuzione del sesso risulta indispensabile. D’altra parte anche questi casi necessitano di uno status giuridicamente riconosciuto, status che con la legge 164 viene subordinato esclusivamente ad una effettiva trasformazione chirurgica irreversibile. Già in alcuni Paesi del Nord Europa ad una regolamentazione analoga a quella italiana si affianca la possibilità di un’alternativa chiamata “la piccola soluzione”, diretta ad ottenere esclusivamente la modifica anagrafica del nome o dei prenomi, con sentenza peraltro non immutabile (è prevista una decadenza in caso di matrimonio o nascita di figli).
La denominazione più recente che la comunità scientifica ha attribuito al fenomeno del transessualismo è Disturbo dell’Identità di Genere (DIG).
L’identità di genere costituisce, insieme al ruolo di genere e all’orientamento sessuale, un aspetto della psicosessualità.
Il concetto di “identità di genere” indica un continuo e persistente senso di sé come maschio o come femmina. L’acquisizione dell’identità di genere è un processo che comporta significati di natura sia cognitiva che affettiva.
“Ruolo di genere” indica l’espressione esteriore dell’identità di genere e rappresenta tutto ciò che una persona dice o fa per indicare agli altri o a se stesso il grado della sua femminilità, mascolinità o ambivalenza. Il ruolo di genere è un costrutto sociale, e dipende dal momento storico e da ciò che il contesto culturale designa come mascolino o femminile, e come più appropriato al ruolo femminile o maschile.
Il concetto di “orientamento sessuale” riguarda la modalità di risposta di una persona ai diversi stimoli sessuali; la dimensione principale dell’orientamento sessuale è il sesso del proprio partner, che definisce una persona eterosessuale, bisessuale, omosessuale. L’orientamento sessuale non è dicotomico ma si estende lungo un continuum, che va dall’eterosessualità esclusiva all’omosessualità esclusiva.
Il processo di acquisizione dell’identità di genere è la risultante di una collaborazione tra “natura e cultura”, vale a dire tra la maturazione biologica – che a partire dal sesso cromosomico produce, tramite la secrezione ormonale, la diversificazione sessuale del cervello e dell’organismo- e il comportamento delle persone circostanti – che dopo l’assegnazione del sesso alla nascita, si comportano nei confronti del soggetto secondo le regole sociali e le aspettative congruenti al genere attribuito.
Solitamente identità di genere, ruolo di genere e orientamento sessuale sono tra loro coerenti, ma le possibilità di rapporto tra queste componenti sono diverse. In base a questi rapporti si possono identificare:
– soggetti con identità di genere congruente con il proprio sesso cromosomico e fenotipico e con orientamento sessuale eterosessuale, omosessuale, bisessuale o parafilico;
– soggetti con identità di genere non congruente con il proprio sesso cromosomico, ma congruente con il sesso fenotipico (ad esempio, soggetti con sindrome da insensibilità agli androgeni oppure casi di riattribuzione chirurgica di sesso in età precoce in seguito a gravi traumi genitali o patologie ormonali – ad esempio sindrome da deficit di 21-idrossilasi, con genitali ambigui alla nascita);
– soggetti con identità di genere non congruente con il proprio sesso cromosomico né fenotipico e con orientamento eterosessuale, bisessuale, omosessuale o asessuato (soggetti con disturbo di identità di genere o altre manifestazioni transgender).
Dopo queste chiarificazioni è importante fare una breve digressione sul termine “transgender”, oggi così usato ed abusato. Il termine nasce negli Anni ’80 negli USA per indicare un movimento politico-culturale che si prefigge di contestare la visione eterosessista e genderista che vede nell’uomo la possibilità di avere un solo sesso, quello biologico, coerente con l’identità di genere. A questa logica statica che riduce tutto ad una realtà duale di maschio o femmina si contrappone in modo forte il transgenderismo, che vede invece un continuum di identità possibili (ai cui estremi si situano i concetti di maschio o femmina). Si tratta di un termine “ombrello” che racchiude sotto di sé tutte quelle realtà non identificabili con lo stereotipo di genere, normalmente identificato come “maschio” o come “femmina”. È chiaro quindi che con il termine transgender si fa riferimento a svariate condizioni, comprendenti ad esempio la persona transessuale operata e non, il travestito, l’omosessuale, ma anche la persona eterosessuale che semplicemente rifiuta un comportamento di genere stereotipato.
Eziopatogenesi
Riguardo all’eziopatogenesi del DIG, sono stati chiamati in causa fattori psichici e fattori biologici.
Fattori psichici
Un’eccessiva vicinanza alla madre, l’assenza del padre, un forte desiderio della madre per una figlia femmina per DIG MtF; la presenza di una madre debole e vulnerabile per DIG FtM. Questi sono stati ipotizzati essere fattori predisponenti allo sviluppo di un DIG, oltre a traumi infantili. Tuttavia, tali ipotesi non trovano un supporto empirico solido.
Fattori biologici
Nei mammiferi inferiori, la differenziazione del SNC in “senso sessuale maschile” avviene in presenza di adeguate quantità di testosterone, altrimenti evolve in direzione femminile; in studi animali, la presenza di testosterone determina la morfologia di alcuni nuclei cerebrali, nonché abolisce la capacità delle cellule ipofisarie di rispondere in senso LH ad uno stimolo estrogenico. In virtù di queste osservazioni, come possibile spiegazione del fenomeno del transessualismo, è stata invocata una discrepanza tra la differenziazione genitale e la differenziazione sessuale cerebrale. Pertanto la ricerca biomedica ha indagato tre aree nel genere umano: l’identità di genere in soggetti con una storia ormonale perinatale anomala; il tipo di risposta dell’LH agli stimoli estrogenici; la morfologia dei nuclei cerebrali.
Non sono stati trovati casi di transessualismo in maschi o femmine esposti in utero a progestinici, che possono avere effetto antiandrogenico o androgenico, nè in casi di esposizione a dietilstilbestrolo; neppure pazienti con CAH mostrano una correlazione significativa con lo sviluppo in età adulta di disturbo di identità di genere. Ci sono risultati contrastanti sull’ipotesi di un aumento dell’LH dopo stimolo estrogenico in transessuali MtF, come conseguenza di un’esposizione in epoca prenatale a livelli di ormoni sessuali anormali.
Qualcosa di più interessante è emerso relativamente alla morfologia dei nuclei cerebrali. Oggi sappiamo che esistono differenze, in termini di dimensioni e forma, a livello del SNC tra i due sessi, in particolare a livello dei nuclei ipotalamici. Sulla base di indagini strumentali a livello dell’area preottica dell’ipotalamo, si suppose l’esistenza di quello che fu definito un “nucleo sessualmente dimorfico” (SDN: sexually dimorphic nucleus), doppio per dimensioni e numero di cellule contenute nel maschio rispetto alla femmina. È stato poi identificato, a livello della regione preottica anteriore dell’ipotalamo, un altro nucleo sessualmente dimorfico; a seguire, fu dimostrato che il nucleo interstiziale dell’ipotalamo anteriore si presenta in alcune sue parti più grande nei soggetti di sesso maschile. Poi è stata la volta del nucleo della commissura anteriore, più largo nelle donne. Pochi studi sono stati condotti sui transsessuali. Nel 1985 Swaab & Fliers descrissero in 3 MtF la presenza di particolarità a livello delle strutture ipotalamiche. Due di questi pazienti presentavano un grande nucleo soprachiasmatico ed un piccolo SDN, mentre il terzo soggetto aveva l’esatta opposta configurazione. Dieci anni dopo, un gruppo di ricercatori ha riscontrato la presenza in 6 MtF di una parte centrale del nucleo del letto della stria terminale (BSTc: central subdivision of the bed nucleus of the striae terminalis) delle dimensioni (più piccola) e della forma di quella delle donne eterosessuali, quindi una struttura tipica del cervello femminile. Va ricordato che in soggetti non-transessuali che hanno dovuto assumere estrogeni non si nota riduzione di volume del medesimo nucleo. Tuttavia, il volume del BST diventa sessualmente dimorfico solo all’inizio dell’età adulta.
Come è evidente, siamo ancora lontani da un preciso inquadramento eziopatogenetico.
Aspetti diagnostici e terapeutici
E’ obbligo del clinico capire quanto la diagnosi sia irreversibile e netta e quanto un intervento medico-chirurgico porti a benessere psico-fisico e a miglioramento della qualità di vita. Per questo si è reso necessario arrivare a definire degli standard di cura.
Il soggetto che si presenta per un presunto DIG deve iniziare un percorso, che la World Health Professional Association for Transgender Health (WPATH, prima chiamata Harry Benjamin International Gender Dysphoria Association -HBIGDA) ha cercato di impostare definendo i criteri minimi di trattamento e ponendo le basi per un team basato su multidisciplinarietà ed integrazione tra le diverse figure professionali, affinché sia assicurata l’adeguatezza delle cure fornite (psichiatri, psicologi, endocrinologhi e chirurghi). Il proposito fondamentale degli standards di cura è di articolare in modo organizzato il consenso tra diversi professionisti riguardo al management psicologico, medico e chirurgico del DIG. Questi standards costituiscono una guida per la pratica professionale, fornendo i requisiti minimi per la procedura terapeutica, che si struttura in:
– un’accurata diagnosi
– l’esperienza di vita reale, preferibilmente accompagnata da psicoterapia
– la terapia ormonale
– la terapia chirurgica (riassegnazione chirurgica di sesso, RCS).
LA FASE DIAGNOSTICA
La prima fase è quindi di tipo diagnostico, osservazionale e informativo. Prima che sia preso in considerazione qualsiasi tipo d’intervento fisico, è necessaria un’esplorazione estensiva delle risorse personali, familiari e sociali del soggetto, una valutazione puntuale del funzionamento psichico e della psicopatologia. Il gruppo medico dovrà effettuare un’accurata diagnosi differenziale con i disturbi della differenziazione sessuale (valutazione di cariotipo, dosaggi ormonali ed esame obiettivo) e con condizioni psichiche potenzialmente confondibili con DIG. Tra queste, una semplice non conformità allo stereotipo di genere, omosessualità egodistonica, crisi adolescenziale con disagio riguardo al genere, feticismo da travestimento (presente in circa il 30% dei soggetti che richiedono RCS), schizofrenia (presente in meno del 5% dei soggetti che richiedono RCS) e gravi disturbi di personalità (es. disturbo di personalità borderline). Il paziente deve poi essere informato su tutte le procedure ed i trattamenti previsti, nonché sui rischi connessi a tali trattamenti e sull’irreversibilità di alcuni di essi. Bisogna inoltre discutere con il paziente riguardo alle aspettative più o meno realistiche relative ai benefici del trattamento e aiutarlo a valutare le varie possibilità terapeutiche, sia ormonali sia chirurgiche.
I criteri diagnostici per DIG secondo il DSM-IV TR sono:
A. Una forte e persistente identificazione col sesso opposto (non solo un desiderio di qualche presunto vantaggio culturale derivante dall’appartenenza al sesso opposto).
Nei bambini il disturbo si manifesta con quattro (o più) dei seguenti sintomi:
1) desiderio ripetutamente affermato di essere, o insistenza sul fatto di essere, dell’altro sesso
2) nei maschi, preferenza per il travestitismo o per l’imitazione dell’abbigliamento femminile; nelle femmine, insistenza nell’indossare solo tipici indumenti maschili
3) forti e persistenti preferenze per i ruoli del sesso opposto nei giochi di simulazione, oppure persistenti fantasie di appartenere al sesso opposto
4) intenso desiderio di partecipare ai tipici giochi e passatempi del sesso opposto
5) forte preferenza per i compagni di gioco del sesso opposto
Negli adolescenti e negli adulti, l’anomalia si manifesta con sintomi come desiderio dichiarato di essere dell’altro sesso, o di farsi passare spesso per un membro dell’altro sesso, desiderio di vivere o essere trattato come un membro dell’altro sesso, oppure la convinzione di avere sentimenti e reazioni tipici dell’altro sesso.
B. Persistente malessere riguardo al proprio sesso o senso di estraneità riguardo al ruolo sessuale del proprio sesso.
Nei bambini, l’anomalia si manifesta con uno dei seguenti sintomi: nei maschi, affermazione di disgusto verso i propri genitali, o speranza che essi scompaiano, o avversione verso i giochi di baruffa e rifiuto dei tipici giocattoli e attività maschili; nelle femmine, rifiuto di urinare in posizione seduta, rifiuto nei confronti della crescita del seno e nei confronti del ciclo mestruale, speranza che i genitali diventino di tipo maschile, avversione verso l’abbigliamento femminile tradizionale.
Negli adolescenti e negli adulti, l’anomalia si manifesta con sintomi come preoccupazione di sbarazzarsi delle proprie caratteristiche sessuali e/o convinzione di essere nati del sesso sbagliato.
C. L’anomalia non è concomitante con una condizione fisica intersessuale.
D. L’anomalia causa disagio clinicamente significativo o compromissione dell’area sociale o lavorativa.
Il DSM-IV identifica tre categorie in base all’età del soggetto in esame (Disturbo di Identità di Genere dell’Infanzia, dell’Adolescenza o dell’Età Adulta) e altre 4 sottocategorie relative all’orientamento sessuale (sessualmente attratto da maschi, da femmine, sia da maschi che da femmine, né da maschi né da femmine). Le persone per le quali non siano applicabili i criteri sopraelencati devono essere classificate nel gruppo del Disturbo di Identità di Genere Non Altrimenti Specificato. Questi criteri diagnostici sono stati confermati anche nell’ultima versione del Manuale, il DSM IV TR del 2000.
Nella classificazione europea (ICD-10: International Classification of Diseases-10), permane il termine “transessualismo”.
Da un punto di vista clinico, i DIG FtM costituiscono un gruppo omogeneo: hanno in genere fin dall’infanzia un’identità transessuale, una preferenza verso giochi più tipicamente maschili, un orientamento verso persone del loro sesso genotipico, un’enorme sofferenza relativamente allo sviluppo mammario e al menarca.
All’interno del gruppo dei DIG MtF, sono invece evidenziabili due sottotipi:
– il primo caratterizzato dalla presenza della disforia di genere fin dall’infanzia e dalla convinzione precoce di essere nati nel corpo sbagliato (transessualismo primario, secondo Person e Ovesey); in genere in questo sottotipo l’orientamento sessuale è volto verso persone dello stesso sesso genotipico (transessualismo omosessuale secondo Blanchard).
– il secondo caratterizzato dall’instaurarsi dell’identità transessuale in epoca postpuberale, e spesso associato ad altre condizioni quali il feticismo da travestimento, l’omosessualità o il travestitismo (transessualismo secondario, secondo Person e Ovesey); in questo sottotipo in genere l’orientamento sessuale è più variabile e spesso l’attività di cross-dressing è associata a un’eccitazione sessuale alla fantasia di vedersi come donna (transessualismo autoginefilico secondo Blanchard).
Tali sottotipi hanno un importante valore clinico, in quanto nel DIG primario la prognosi relativa alla RCS è migliore. Questo non esclude i pazienti con DIG secondario dal trattamento, ma impone al gruppo medico un’estrema attenzione diagnostica e un più sostanzioso sostegno psicoterapeutico.
L’ESPERIENZA DI VITA REALE
La fase successiva alla diagnosi consiste nella cosiddetta esperienza di vita reale, vale a dire nel tentativo pratico del soggetto di vivere a tempo pieno come membro del sesso desiderato. Durante tale periodo il soggetto vive stabilmente negli abiti e nel ruolo del sesso desiderato, in modo da gestire la propria identità di genere nella vita di tutti i giorni. Questa esperienza serve a valutare la decisione del paziente, la sua capacità di funzionamento nel genere preferito, l’adeguatezza del supporto sociale, economico e psicologico. Permette al soggetto, e ai professionisti che lo seguono, di monitorare l’esperienza di vita nel ruolo desiderato e di osservare le interazioni con gli altri. Senza tale esperienza il soggetto conoscerebbe solo le sue convinzioni e fantasie private riguardo alla sua appartenenza al sesso opposto. Queste potrebbero essere irrealistiche e portare ad attese magiche riguardo ai risultati dell’intervento.
L’esperienza di vita reale andrebbe intrapresa per gradi: prima in un ambiente di fiducia e dopo in pubblico. Prima che possa essere considerata l’opportunità della riassegnazione chirurgica, deve essere condotta un’esperienza di vita reale completa di almeno un anno durante la quale il soggetto è in contatto con un professionista della salute mentale così da permettere la valutazione del successo dell’esperienza e la discussione riguardo la risoluzione dei problemi da essa posti.
LA TERAPIA ORMONALE
È proprio durante l’esperienza di vita reale che, previo esame obiettivo e valutazione di esami ematici e del cariotipo, è possibile iniziare il trattamento ormonale. Il passaggio da uno stato di genere all’altro non dovrebbe essere attuato prima che ci sia stato il tempo necessario per la persona e la sua famiglia di assimilare pienamente gli effetti di tale esperienza, al fine di evitare interventi precoci. La terapia ormonale, se tollerata dal punto di vista medico, dovrebbe precedere ogni intervento chirurgico sui genitali. La soddisfazione relativa agli effetti della terapia ormonale consolida l’identità della persona come membro appartenente al genere d’elezione e aumenta la convinzione a procedere nel percorso.
Un’insoddisfazione per gli effetti del trattamento ormonale può segnalare ambivalenza riguardo al percorso di riattribuzione. Alcuni soggetti che si sottopongono a trattamento ormonale non desiderano interventi chirurgici.
I criteri minimi, definiti dagli SOC per iniziare la terapia ormonale sono:
– una esperienza di vita reale di almeno tre mesi o un periodo di psicoterapia
– raggiungimento di un ulteriore consolidamento dell’identità di genere durante l’esperienza di vita reale o la psicoterapia
– riscontro di progressi nel superamento di problemi legati alla salute mentale
– conoscenza degli effetti degli ormoni e probabilità che il paziente li assuma in modo responsabile.
La terapia ormonale ha due scopi:
1. ridurre il più possibile i caratteri sessuali secondari espressione del proprio sesso genotipico.
2. indurre le caratteristiche secondarie del sesso di elezione.
Il trattamento ormonale varia da prima a dopo l’intervento chirurgico.
La tabella riporta il tipo di terapia più comunemente usato in diversi Centri Europei e Statunitensi prima dell’intervento chirurgico.
Centro | Terapia MtF | Terapia FtM | N° pazienti |
Academic Hospital Vrije Universiteit, Amsterdam, Netherlands | Etinilestradiolo 100 μg/die o 17βestradiolo 100 μg 2 volte alla settimana per via transdermica e ciproterone acetato 100 mg/die | Esteri del testosterone 250 mg i.m. ogni 2 settimane o testosterone undecanoato 160 mg/die | MtF 816FtM 293 |
Psychoneuroendocrinology Unit, University of Liege, Belgium | Etinilestradiolo 50-100 μg/die o estrogeni coniugati equini 1.25-2.50 mg/die o estradiolo benzoato 25 mg/settimana. Eventualmente, spironolattone 100-200 mg/die o ciproterone acetato 50-100 mg/die | Testosterone 240 mg/die in 3 dosi o esteri del testosterone 250 mg i.m. ogni 2-4 settimane | Non riportato |
Division of Endocrinology, Mount Sinai School of Medicine, New York | Etinilestradiolo 100 μg/die o estrogeni coniugati equini 1.25-2.50 mg/die e medrossiprogesterone acetato 5-10 mg/die per 10 giorni/mese per i primi sei mesi. Eventualmente, spironolattone 100-200 mg/die o ciproterone acetato | Esteri del testosterone 250-400 mg i.m. ogni 2-3 settimane | 93 FtM |
Department of endocrinology, University of British Columbia, Vancouver, Canada | Estrogeni coniugati equini 0.625 g/die aumentati a 5 g/die per 3 di 4 settimane e spironolattone 100-200 mg/die da aumentare gradualmente durante la soppressione del testosterone; inoltre medrossiprogesterone acetato 10 mg/die per 2 settimane/mese o anche in continuo | — | 50 MtF |
Max-Planck-Institute Endocrinological Clinic, Munich, Germany | Estradiolo 80-100 mg i.m. ogni 2 settimane, poi 17β-estradiolo 2-8 mg/die dopo 1 anno e ciproterone acetato 100 mg/die per 6-12 mesi fino a che i valori di testosterone si abbassano | Esteri del testosterone 250 mg i.m. ogni 2 settimane (dosaggio da ridurre nell’arco di 9-12 mesi dopo aver ottenuto gli effetti desiderati ad una iniezione ogni 2-4 settimane) | 129 in totale |
Gender Clinic, University of Texas Medical Branch, Galveston | Etinilestradiolo 100 μg/die o estrogeni coniugati equini 7.5-10 mg/die | Testosterone cipionato 200 mg i.m. ogni 2 settimane | 60 MtF30 FtM |
Department of Obstretics and Gynecology, National University of Singapore | — | Esteri del testosterone 250 mg i.m. ogni 3-4 settimane o testosterone ciclopentilpropionato 100 mg i.m. ogni settimana | 70 FtM |
Da Moore et al, 2003.
Trattamento ormonale MtF ed effetti collaterali
Gli estrogeni (estradiolo, etinilestradiolo) sono la pietra angolare per il processo di femminilizzazione dei pazienti MtF; inducono i cambiamenti fisici e psicologici in senso femminile, riducono la libido. La dose tipicamente raccomandata è dalle due alle tre volte maggiore di quella utilizzata nella terapia ormonale sostitutiva nelle donne in menopausa. Dosaggi più alti hanno il solo risultato di ottenere una più rapida crescita del seno ma non una più rapida soppressione dei livelli di testosterone.
Le formulazioni orali sono quelle più comunemente utilizzate nella maggior parte dei centri, anche se la via transdermica è la più raccomandata, soprattutto sopra i 40 anni, per i minor rischi tromboembolici. Molto rari sono i casi di somministrazione per via intramuscolare.
La somministrazione di modulatori ormonali (progestinici e antiandrogeni) può potenziare gli effetti degli estrogeni. Gli antiandrogeni (ciproterone, spironolattone) abbassano i livelli di testosterone ematico e bloccano il suo legame al recettore androgenico, con conseguente attenuazione dei caratteri sessuali maschili secondari. Inoltre, il loro effetto è per così dire doppio poiché inibiscono anche la produzione ipofisaria di gonadotropine. Il ciproterone acetato è l’antiandrogeno più comunemente utilizzato in Europa.
Il trattamento ormonale permette innanzitutto il raggiungimento di due target fondamentali: soppressione della produzione endogena di androgeni (testosterone) e femminilizzazione dell’aspetto corporeo, prima di tutto con incremento del volume mammario. L’aumento del volume mammario inizia generalmente dopo 2-3 mesi dall’inizio della terapia ormonale e continua per due anni; solo un terzo dei soggetti raggiunge un volume da essi ritenuto accettabile. Per quanto riguarda i peli corporei, i migliori risultati si hanno dopo circa quattro mesi di trattamento; purtroppo nella maggior parte dei casi queste persone sono costrette a ricorrere a sistemi di depilazione presso centri di estetica. La produzione di sebo crolla rapidamente. Inoltre la terapia causa riduzione del volume testicolare e soppressione delle erezioni. Comunque, l’aspetto dei genitali maschili non viene modificato fortemente dagli estrogeni. Si può apprezzare clinicamente una riduzione del volume testicolare del 25%, che per alcuni pazienti è incoraggiante quale segno di progresso. La soppressione delle erezioni spontanee è riferita da molti ma non da tutti i soggetti, alcuni dei quali continuano a presentare erezioni nei momenti di eccitazione sessuale.
Dopo gonadectomia tutti i Centri mantengono la terapia estrogenica, anche se con dosaggi non uniformi; l’atteggiamento più comune è quello di passare ad un dosaggio pari alla metà del dosaggio precedente all’intervento. Il razionale nel continuare la terapia estrogenica è quello di mantenere l’“aspetto femminile” e la densità minerale ossea.
L’ intrinseca bassa morbilità e mortalità della popolazione relativamente giovane che viene generalmente ad essere trattata per disforia di genere, i piccoli numeri disponibili in studi comparati e l’inevitabile mancanza di un gruppo placebo di controllo, rendono difficile la distinzione tra i rischi della disforia di genere in se stessa e i rischi attribuibili al trattamento ormonale. Risulta aumentata la percentuale di morte dovuta a suicidio e ad AIDS; sono più frequenti i mutamenti di umore in senso depressivo. Tra gli effetti collaterali della terapia, il più importante è rappresentato dagli eventi tromboembolici; sembra comunque ragionevole attenersi alla raccomandazione di utilizzare terapia estrogenica transdermica, almeno dopo i 40 anni (si consiglia screening dell’assetto coagulativo prima dell’inizio della terapia estrogenica). Si raccomanda di interrompere la terapia estrogenica 3 – 4 settimane prima degli interventi di chirurgia maggiore, per evitare i rischi legati ad uno stato di ipercoagulabilità.
È noto che durante la terapia con estrogeni si ha un aumento dei livelli circolanti di prolattina; durante il trattamento degli MtF i valori possono anche raggiungere livelli maggiori di 1000 mU/L (20% dei casi), che in un 7% dei soggetti rimarranno persistentemente elevati. Nel 2% dei casi è stato riscontrato slargamento della sella turcica, ma non ci sono evidenze staticamente significative di una maggior incidenza di prolattinomi, tanto che i casi descritti sono quasi aneddotici.
Per quanto riguarda un eventuale maggior rischio di carcinoma mammario, i dati sono discordanti: secondo lo studio di van Kesteren del 1997 condotto su 816 MtF, nessuno ha sviluppato eteroplasia mammaria; studi precedenti, su casistiche più piccole, asserivano però il contrario.
Sono riportati casi molto sporadici di carcinoma prostatico.
Aumenti transitori degli enzimi epatici, non attribuibili ad altra causa se non al trattamento ormonale, sono stati riscontrati approssimativamente nel 3% dei casi.
Possono presentarsi casi di colelitiasi de novo, ma con un’incidenza di poco maggiore a quella della popolazione generale.
A lungo termine il trattamento estrogenico porta, inoltre, ad un aumento delle HDL e a una diminuzione delle LDL e dell’attività della lipasi epatica (che riduce le HDL e aumenta le LDL piccole e dense), ma purtroppo anche ad aumento dei trigliceridi, della pressione arteriosa, del tessuto adiposo sottocutaneo e viscerale e alla diminuzione dell’attività della lipasi lipoproteica e della sensibilità all’insulina.
Il rischio cardiovascolare legato all’assunzione di terapia ormonale negli MtF non è ad oggi esattamente conosciuto, ma i dati disponibili suggeriscono che non ci sia un sostanziale incremento, né per coronaropatie né per cerebrovasculopatie.
L’infertilità è l’inevitabile prezzo da pagare per questi pazienti.
Esistono quindi delle controindicazioni alla terapia ormonale, assolute (grave ipertensione diastolica, cardiopatia ischemica, valvulopatie, disturbi di conduzione, cardiomiopatia, miocarditi recenti, pregresse tromboflebiti o episodi di tromboembolismo, patologia cerebrovascolare, epatopatia come movimento delle transaminasi dndd, epatite, abuso di droga, alcolismo) e relative (iperprolattinemie, familiarità per carcinoma mammario, forte tabagismo, grave obesità, grave dislipidemia).
Trattamento ormonale FtM ed effetti collaterali
Per gli FtM, l’obiettivo è indurre virilizzazione e bloccare il ciclo mestruale. La terapia si basa sull’utilizzo di testosterone, la cui somministrazione causa aumento dei peli corporei (anche a livello del volto) e calvizie di tipo maschile, aumento di peso e riduzione della massa grassa a livello dei fianchi, aumento del volume clitorideo, moderata atrofia mammaria,. Le formulazioni e la dose consigliate sono uguali a quelle utilizzate nel trattamento del paziente maschio ipogonadico. L’utilizzo di progestinici accelera la scomparsa del ciclo mestruale.
Gli effetti collaterali della terapia con testosterone includono infertilità, acne, instabilità del tono dell’umore, aumento del desiderio sessuale; le ovaie divengono simili a quelle dell’ovaio policistico.
Le controindicazioni al trattamento sono le patologie cardiovascolari e cerebrovascolari, pregresse tromboembolie, grave obesità, diabete mellito scompensato. Dopo l’intervento chirurgico la terapia viene continuata per mantenere la virilizzazione e prevenire l’osteoporosi.
LA TERAPIA CHIRURGICA
Dopo almeno 12 mesi di esperienza di vita reale e almeno 6 mesi di terapia ormonale, se il soggetto è consapevole delle modalità e dei rischi dell’RCS, ha ottenuto un ulteriore consolidamento dell’identità di genere e ha fatto progressi nel superamento di problemi legati alla salute mentale, è possibile per lui accedere alla terapia chirurgica.
Dopo l’RCS, il gruppo medico avrà la funzione di monitorare la terapia ormonale e il benessere psichico del paziente.
Prognosi
Sebbene le casistiche siano ancora limitate, il DIG adeguatamente trattato sembra avere un miglior decorso rispetto ai casi che non giungono ad un’osservazione medica competente e che presentano un maggior rischio di scompensi timici. L’insoddisfazione post-intervento chirurgico è rara e spesso associata ad una diagnosi non corretta o ad un percorso di adeguamento mal gestito.
I fattori prognostici positivi individuati dalla letteratura sono: richiesta di RCS in età inferiore a 30 anni, stabilità mentale ed emotiva, orientamento omogenotipico, esperienza di vita reale per almeno un anno, conoscenza e piena accettazione della RCS, appoggio psicoterapeutico.
Un gruppo di figure professionali dedicato alla gestione del disturbo è la miglior risposta che si può offrire a queste persone, che necessitano di una assistenza a lungo termine, di un accompagnamento durante il loro difficile cammino e di poter curare il loro stato di salute senza incorrere in discriminazioni.
lisa Bandini*, Alessandra D. Fisher*, Lisa Buci*, Giancarlo Balercia° Gianni Forti$, Mario Maggi*
Centro Interdipartimentale Assistenza Disturbo di Identità di Genere (CIADIG)., * S.O.D. Andrologia e Medicina della Sessualità e $ S.O.D. di Endocrinologia, A.O.U.Careggi, Firenze; °Andrologia Medica, Cl. di Endocrinologia, A. O. R. Torrette, Ancona
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Contatti: m.maggi@dfc.unifi.it., elisa.bandini@inwind.it., g.balercia@ao-umbertoprimo.marche.it
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Il Prof. G. Balercia, responsabile del settore di Andrologia Medica e del Laboratorio di Andrologia e Genetica dell’Infertilità Maschile presso la Clinica di Endocrinologia dell’Az. Ospedali Riuniti di Ancona – Università Politecnica delle Marche è a disposizione per eventuali ulteriori chiarimenti in merito all’argomento trattato. Gli eventuali quesiti potranno essere proposti al seguente
indirizzo e.mail: g.balercia@ao-umbertoprimo.marche.it