Il medico ha ‘obbligo di risultato’. E lo psicologo?

Secondo la Corte di Cassazione, la prestazione medica comporta non solo un «obbligo di mezzi» ma anche un «obbligo di risultato», il che significa che il medico non è tenuto solo a operare secondo scienza e coscienza, servendosi di tutti i mezzi che la moderna scienza gli mette oggi a disposizione, ma anche a migliorare obiettivamente la situazione del paziente. Se il risultato ottenuto non è quello che era lecito attendersi dato lo sviluppo della conoscenze e dei mezzi scientifici disponibili, tocca al dottore provare che si sono verificati eventi del tutto imprevedibili e irrisolvibili.

La vicenda dalla quale è nata la sentenza è relativa a un intervento di settorinoplastica su una giovane donna che intendeva eliminare un grave disturbo funzionale di respirazione. L’intervento non aveva risolto alcunché e la paziente si era dovuta sottoporre a un secondo intervento per fortuna risolutivo. La causa civile intentata dalla donna contro il medico che l’aveva operata senza successo si era conclusa in modo sfavorevole per la paziente e successivamente la Corte d’Appello aveva confermato la precedente decisione.

La Cassazione ha ribalto entrambe le decisioni precedenti ed ha puntualizzato che se l’attività medica non consegue il risultato «normalmente ottenibile» tocca al medico provare che si è verificato un evento imprevedibile e non superabile adottando un’adeguata diligenza (sentenza numero 8826 del 13 aprile 07 Cassazione Terza Civile).

Se il medico è uno specialista, aggiunge la Cassazione, la sua attività andrà giudicata con maggior rigore perché da uno specialista è lecito attendersi una condotta scientifica particolarmente qualificata tale da rendere il risultato positivo una «conseguenza statisticamente fisiologica» di una prestazione professionale diligente. Come dire che rivolgendosi a uno specialista della patologia che si deve curare i giudici riterranno del tutto «normale» che l’intervento o la terapia abbiano successo. In caso contrario toccherà al medico discolparsi, dimostrando di non avere sbagliato e non al paziente (e al suo avvocato) dimostrare che c’è stato un errore.

Fonte: Corriere della Sera

Commento: A livello personale, come paziente di medici, ritengo che la sentenza sia sacrosanta. Come psicoterapeuta, mi chiedo se tale direttiva possa essere estesa anche alla ‘cura della parola’. Credo che la cosa non sia possibile nei fatti: rispetto alla professione medica infatti, noi psicologi abbiamo una infinita variabilità di protocolli possibili da utilizzare, la cui scelta difficilmente è legata a ragioni oggettive, ‘dimostrabili’.

Va anche detto che il buon esito di una terapia psicologica non può prescindere dalla motivazione e dall’impegno del paziente, cose che nella terapia medica possono essere anche del tutto ininfluenti.

Ciò nonostante, credo che accettare il concetto di “esito positivo della terapia” potrebbe essere una sfida stimolante, da accogliere anche nella nostra professione. Vi sono pazienti infatti che continuano la loro ‘analisi interminabile’ per decenni, diventando, a tutti gli effetti, dipendenti dal terapeuta e dalle sue parole di comprensione ed incoraggiamento, come se esse fossero una droga per l’anima. Essi non hanno alcuna intenzione di ‘guarire’ ed anche il terapeuta potrebbe non trovare ragioni sufficienti per accelerare il percorso terapeutico. E allora, mi chiedo, non sarebbe deontologicamente più corretto, dopo 6-12 mesi di psicoterapia, accettare di fare un primo bilancio del proprio lavoro, magari attraverso una prova oggettiva (ad esempio con un test psicologico di dimostrata validità) e, basandosi sui risultati ottenuti, valutare, insieme al paziente, se continuare o meno la terapia (o almeno, ‘quel’ tipo di terapia?)

Dott.ssa Giuliana Proietti

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