Le famiglie italiane: come sono, come si comportano

LE FAMIGLIE ITALIANE: COME SONO, COME SI COMPORTANO

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Autori: Dr. Giuliana Proietti - Dr. Walter La Gatta
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  • Introduzione

L’aspetto della famiglia italiana si è radicalmente trasformato a partire dalla seconda metà del secolo scorso: i legami, sia verticali, sia orizzontali, si sono allentati, a causa di importanti cambiamenti nell’istituzione del matrimonio e nella fertilità.

I segni della modernità (aumento della convivenza, nascite al di fuori del matrimonio, separazioni,
divorzi) si sono scontrati con la persistenza del modello tradizionale della famiglia “forte” (ad esempio, attraverso la lunga permanenza nella famiglia di origine), causando un corto circuito nei comportamenti e nei valori più tradizionali.

L’aspetto più dinamico è tuttavia rappresentato dall’immigrazione di famiglie straniere, un fenomeno relativamente nuovo per la società italiana, che è cresciuto insieme allo sviluppo del processo di integrazione.

  • La famiglia italiana tradizionale

All’estero le famiglie italiane vengono tradizionalmente descritte come nuclei di grandi dimensioni, caratterizzate da un elevato numero di figli, guidate da un padre patriarcale e da una madre casalinga.

Questa immagine stereotipata, risalente alle famiglie di immigrati italiani in America del secolo scorso, riflette sempre meno le reali caratteristiche della famiglia italiana, date le trasformazioni demografiche avvenute negli ultimi decenni, peraltro molto più velocemente che in altre parti d’Europa (King e Zontini 2000), le quali hanno cambiato profondamente la famiglia italiana, portando sia vantaggi che problemi.

  • Quante sono le famiglie e come si compongono

In 150 anni il numero di famiglie italiane si è più che quintuplicato (passando dai 4.674.000 del primo censimento ai 25.981.996 del 2017, Dati Istat), ma il numero dei componenti la famiglia si è progressivamente ridotto.

Nel volgere di vent’anni il numero medio di componenti in famiglia è sceso da 2,7 (media 1995-1996) a 2,4 (media 2015-2016). Aumentano le famiglie composte da una sola persona (dal 20,5 al 31,6 per cento) e si riducono quelle di cinque o più componenti (dall’8,1 al 5,4 per cento). (Dati Istat) Per fare un confronto con il passato, si pensi che la famiglia media italiana era ancora composta mediamente di di 4,7 persone (dati Istat, 2011).

Quando si parla di famiglia italiana dunque, sempre meno si fa riferimento alla coppia genitoriale con numerosi figli e sempre più ci si riferisce a coppie senza figli, famiglie monogenitoriali e, sopratutto, persone che vivono da sole, o singles.

  • I cambiamenti sociali degli anni Settanta

Questi cambiamenti sono iniziati a partire dagli anni Settanta, in seguito all’introduzione della legge sul divorzio, nel 1970, alla riforma del diritto di famiglia del 1975, alla legge sull’aborto del 1978. Tutto questo ha seguito il periodo della contestazione giovanile del 1968 e le rivendicazioni del movimento femminista, negli anni settanta.

Fu in quel periodo che il modello familiare italiano, fortemente ispirato ai dogmi della Chiesa Cattolica, entrò in crisi, contro le aspettative della stessa Chiesa, che aveva molto sottovalutato il desiderio di cambiamento degli italiani.

Il primo grande scollamento fra valori religiosi e società italiana fu infatti rappresentato dalla vittoria dei favorevoli al divorzio sancita in uno storico referendum dal 59,3% della popolazione, contro il 40,7 dei contrari. In un successivo referendum per l’abolizione del divorzio, nel 1981, la maggioranza fu ancor più travolgente: il 70% della popolazione si mostrò favorevole al divorzio.

Le “tentazioni dell’erotismo devastatore”, l’importanza della fecondità e il valore della santità del matrimonio, citati dal Papa Paolo VI come ragioni per non introdurre il divorzio in Italia, apparvero concetti ormai del tutto anacronistici.

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  • Ciò che rimane delle tradizioni familiari italiane

Nonostante i rapidi cambiamenti avvenuti tuttavia, molte tradizioni e molti valori della famiglia tradizionale italiana restano, ancora oggi, immutati. La maggior parte degli italiani, siano essi sposati, single o divorziati, tendono, ad esempio, a mantenere legami molto forti con i loro genitori, con i figli adulti e con gli altri parenti.

Continuano ad esservi giovani adulti che scelgono di abitare nella casa dei genitori (specie se questa permette una certa autonomia), o comunque non lontano dall’abitazione dei genitori.

La famiglia italiana si riunisce almeno una volta al giorno per la cena, mentre la famiglia allargata ai nonni, ai cugini e agli altri parenti si riunisce per alcune festività (in genere Natale e Pasqua) oltre che in occasione di matrimoni, comunioni, cresime, ecc.

Se i genitori sono anziani e vedovi, vengono spesso accolti in casa dai figli, per facilitare le cure da dedicare loro, perché i genitori rimangono delle figure molto importanti e il legame fra genitori e figli dura ancora per tutta la vita.

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  • La famiglia: il welfare all’italiana

Se andiamo ad analizzare le ragioni del mantenimento di queste tradizioni tuttavia, scopriamo che esse non si basano unicamente su valori e tradizioni, ma anche su specifiche scelte di carattere pratico ed economico. Mentre infatti in molti Paesi del mondo occidentale i governi mettono a disposizione dei cittadini programmi di welfare, per l’assistenza ai bambini, alle persone anziane, malate o disabili, in Italia per svolgere questi compiti si conta ancora moltissimo sull’aiuto che viene dalla famiglia.

Questo ruolo, storico, di protezione sociale della famiglia italiana si è intensificato durante gli anni recenti di crisi economica.

  • La crisi economica e la famiglia italiana

In Italia, nel 2009, il tasso di occupazione è diminuito di 1,2 punti percentuali rispetto all’anno precedente; nel 2010  è diminuito di ulteriori 0,6 punti. Il calo è particolarmente accentuato tra i lavoratori autonomi e tra quelli temporanei, in prevalenza giovani. In assenza di un sistema di ammortizzatori sociali estesi anche a chi svolge lavori discontinui, il ruolo della famiglia è divenuto essenziale. Basti pensare che il reddito dei genitori è stato in molti casi l’unico sostegno per i componenti più giovani.

Si stima, ad esempio, che nella tarda primavera del 2009, circa 480 mila famiglie abbiano sostenuto almeno un figlio convivente che aveva perso il lavoro nei dodici mesi precedenti. Le risorse impiegate in questa forma di sostegno familiare sono venute non solo dai redditi da lavoro dei genitori, ma spesso anche da quelli da pensione. (dati Bankitalia, 2012)

La metà della ricchezza delle famiglie italiane è ancora rappresentata dalla casa. Le cosiddette “attività non finanziarie” cioè abitazioni, immobili non residenziali, apparecchiature, terreni, impianti, rappresentano i due terzi della ricchezza netta delle famiglie (6.200 miliardi di euro, di cui 5.246 miliardi di euro dalle abitazioni). 

Le attività finanziarie, cioè biglietti, depositi, titoli, prestiti, azioni, derivati, quote di fondi comuni, riserve assicurative e altri conti attivi, impattano sulle famiglie per 4.300 miliardi di euro.

Più specificamente: il 48% della ricchezza del totale delle famiglie è rappresentato dalla casa, il 12% dai depositi, il 9% dalle rendite delle azioni possedute, un altro 9% dalle riserve assicurative, il 6% da immobili residenziali, mentre tutte le altre voci incidono per meno del 5%. I terreni coltivati per esempio rappresentano mediamente il 3% della ricchezza delle famiglie italiane.

L’Italia è il paese europeo con il gap maggiore fra patrimonio e reddito delle famiglie: questo dato è un indicatore di disuguaglianza sociale (Piketty, Stieglitz).

A fine 2017 la ricchezza netta delle famiglie italiane è stata 8,4 volte il loro reddito disponibile. In Germania appena 6 volte superiore, in Francia e Regno Unito meno di 8 volte superiore.  “Il livello elevato di quest’indicatore nel confronto internazionale è amplificato dal ristagno ventennale dei redditi delle famiglie italiane” spiegano i ricercatori. L’Italia è l’unica nazione che non ha visto crescere la ricchezza pro capite dalla crisi del 2008 e oggi, con 150 mila euro a persona, è in penultima posizione fra i paesi europei di dimensioni simili.

La ricchezza netta familiare italiana misurata in rapporto alla popolazione è risultata superiore agli altri paesi nel 2008 e nel 2009, ma negli anni successivi essa si è mantenuta su valori stabili, mentre in altri paesi è aumentata.

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L’Italia, assieme a Slovenia, è in fondo alla classifica europea dei matrimoni (3,2 dati Eurostat). 

Non ci si sposa più giovanissimi, si rinvia, si aspetta la conquista della stabilità economica, in genere dopo i 30 anni. Gli uomini arrivano al primo matrimonio con una età media di 33,7 anni (nel 2017 era 32,1), e le donne di 31,5 (ed era 29,4). Per l’Istat il motivo è l’«invecchiamento del Paese»: il numero di figli è drasticamente diminuito e in dieci anni la fascia della popolazione tra i 16 e i 34 anni è scesa di 12 milioni. Ci sono sempre meno giovani, quindi meno matrimoni e unioni civili tra giovani.

Il 2018 è stato inoltre l’anno di uno storico «sorpasso»: i riti civili hanno superato quelli religiosi, sono stati il 50,1 per cento, pari a 92 mila 182 sul totale di 195 mila 778.

Nel 1931 appena il 2,6% dei matrimoni veniva celebrato con rito civile, nel 1981, dopo le riforme sul diritto di famiglia, tale quota è salita al 12,7% per superare il 30% nel 2004, il 37,5%  nel 2009, fino al dato attuale del 50,1 dieci anni dopo. 

Le convivenze sono in costante crescita: si sono più che quadruplicate dal 1998, passando in 20 anni da 329 mila a 1 milione e 368 mila. Aumentano anche i figli nati fuori dal matrimonio: nel 2017 sono stati uno su tre 3.

Le unioni civili tra persone dello stesso sesso costituite nel corso del 2018 sono state 2 mila 808, con una prevalenza di uomini, 64,2% del totale. Il 37,2% nel Nord ovest e il 27,2% al Centro, ma è soprattutto nelle grandi città che si registrano queste unioni. A Roma e a Milano una su tre, rispettivamente 10,1 e 18,7 ogni centomila abitanti. A Napoli e a Palermo invece, il dato si attesta su una unione civile ogni 100 mila abitanti.

I dati Istat rilevano dunque un’Italia spaccata a metà: al Sud ci si continua a sposare con rito religioso; è il Nord che alza la media dei matrimoni civili. Nelle regioni settentrionali le nozze con rito civile sono il 63,9% mentre nelle regioni meridionali, dove due coppie su tre preferiscono varcare la soglia della chiesa, sono meno della metà (30,4%).

Il balzo dei matrimoni civili è in buona parte dovuto alle seconde nozze e alle successive, che sono aumentate in dieci anni dal 13,8% al 19,9%.

Il boom negli ultimissimi anni di secondi e terzi matrimoni è dovuto al divorzio breve (le seconde nozze e successive sono quasi sempre civili, 94,6%). Scelgono di sposarsi in comune anche la stragrande maggioranza delle coppie in cui almeno uno degli sposi è straniero (89,5%).

La durata media del matrimonio al momento della separazione è di circa 17 anni. In media i mariti hanno 48 anni, le mogli 45 anni.

La propensione a separarsi è più bassa e stabile nel tempo nei matrimoni celebrati con il rito religioso. A distanza di 10 anni dalle nozze, i matrimoni sopravviventi sono, rispettivamente, 911 e 914 su 1.000  per le coorti di matrimonio del 1995 e del 2005. I matrimoni civili sopravviventi scendono a 861 per la coorte del 1995 e a 841 per quella del 2005.

Nel 2015 le separazioni con figli in affido condiviso sono circa l’89% di tutte le separazioni con affido. Soltanto l’8,9% dei figli è affidato esclusivamente alla madre (si tratta dell’unico risultato evidente dell’applicazione della Legge 54/2006 sull’affido condiviso).

La quota di separazioni in cui la casa coniugale è assegnata alla moglie sale al 60% e arriva al 69% per le madri con almeno un figlio minorenne. Si mantiene stabile la quota di separazioni con assegno di mantenimento corrisposto dal padre (94% del totale delle separazioni con assegno nel 2015).

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  • Livello di istruzione della popolazione

Nel 1861 su tutto il territorio italiano dominava l’analfabetismo, specialmente nelle regioni del Sud. Dopo il secondo conflitto mondiale gli analfabeti erano ancora il 12,9% della popolazione.

Negli anni Venti del secolo scorso frequentare l’università era un privilegio riservato a poche donne: ogni 100 laureati solo 15 erano donne. Nei primi anni Novanta si è verificato il sorpasso delle femmine sui maschi: le laureate hanno infatti superato il 50% (Nell’anno accademico 2008-2009 le donne laureate sono state il 56,7%. (Dati Istat).

In Italia i livelli di istruzione sono in aumento, ma restano ancora sotto la media europea: siamo indietro sia per numero di diplomati che per quello di laureati. Le donne sono ancora in vantaggio, rispetto agli uomini, nei livelli di istruzione, anche se i loro tassi di occupazione restano inferiori.

La quota di Neet (i giovani che non studiano e non lavorano) è ancora la più elevata tra i Paesi dell’Unione, mentre cresce il numero di ragazzi che abbandonano gli studi. (Dati Istat indicati nel report ‘Livelli di istruzione e ritorni occupazionali)’.

La quota di diplomati tra i 25 e i 64 anni si stima sia pari al 61,7% nel 2018 (+0,8 punti percentuali sul 2017), un valore molto inferiore a quello medio europeo, pari a 78,1% (+0,6 punti sul 2017). Su questa differenza incide la bassa quota di 25-64enni con la laurea: meno di due su dieci in Italia (19,3%, +0,6 punti rispetto all’anno precedente) contro oltre tre su dieci in Europa (32,3%, +0,8 punti rispetto all’anno precedente). Il trend degli ultimi anni è positivo. Tuttavia, tra il 2014 e il 2018 la quota di popolazione con laurea ha avuto una crescita più contenuta di quella Ue (2,4 punti contro 3 punti).

Leggi anche:  La pluralizzazione della famiglia

Sicuramente i più giovani sono anche i più istruiti: il 75,9% dei 25-34enni ha almeno il diploma di scuola secondaria superiore contro il 47,9% dei 60-64enni.

  • Donne, lavoro e Famiglia

La partecipazione femminile al mercato del lavoro è in Italia storicamente bassa rispetto ad altre realtà nazionali, anche se è cresciuta costantemente negli ultimi anni.

La maggior parte delle donne italiane è costretta a fare il doppio lavoro (occupandosi cioè a tempo pieno anche della casa). Infatti, al contrario di quanto avviene in altri Paesi, dalle donne italiane che lavorano ci si attende ancora che esse svolgano comunque alcuni ruoli tradizionali, come la cottura dei cibi, alcune faccende domestiche, la cura dei figli e dei genitori anziani (King e Zontini 2000).

Burda ed al. (2006) hanno scoperto, studiando i dati di 4 Paesi fra cui l’Italia, che ovunque il lavoro totale (definito come la somma del lavoro fuori casa e del lavoro domestico) è approssimativamente uguale tra uomini e donne. In Italia invece il lavoro totale delle donne supera quello degli uomini di 72 minuti (in un giorno rappresentativo del 1988) e di 75 minuti nel 2002.

Le donne rappresentano circa il 40% della popolazione aziendale e il 52,2% della popolazione femminile italiana tra i 20 e i 64 anni lavora, seppur in Italia il tasso di occupazione femminile risulti inferiore anche per le donne laureate rispetto alla controparte maschile (75% contro l’83,7% dei laureati).

A fine 2017 in Italia si contano 1 milione e 330 mila attività economiche a conduzione femminile (21,86% del totale) e solo il 27% delle posizioni manageriali è occupato da donne.

Qualsiasi sia il livello impiegatizio, le donne continuano a percepire guadagni inferiori rispetto agli uomini, con stipendi più bassi del 18,8% contro il 16% previsto in tutta l’Unione Europea. Inoltre le donne che hanno figli con età massima cinque anni sono meno inserite nel mondo del lavoro rispetto a quelle che non sono madri (45,8% contro un 53,2%).

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  • Famiglie e Lavoro

La madre italiana mantiene un ruolo essenziale per il buon andamento della vita familiare: è lei che appiana le difficoltà, i conflitti, che si sacrifica, economicamente e lavorativamente, per il benessere della famiglia, compiendo sforzi che, agli occhi di un europeo del Nord o di un Americano, potrebbero sembrare addirittura eccessivi.

Il lavoro extra-domestico femminile in Italia non è stato del resto accompagnato da un adeguato sviluppo di infrastrutture o supporti sociali, né da cambiamenti significativi nella sfera domestica, per cui la situazione italiana, come quella di altri Paesi di area mediterranea, rappresenta una  ‘imperfetta transizione alla parità di genere‘.

Mencarini et al. (2004) ad esempio, studiando i dati provenienti da cinque città italiane, hanno scoperto che gli uomini che vivono in famiglie in cui anche la moglie lavora non aumentano in modo significativo la loro partecipazione ai lavori domestici dopo la nascita dei figli: semmai aumentano il loro tempo di lavoro fuori casa.

Dal medesimo studio emerge che ben  il 10% dei padri italiani non è mai di aiuto, nella cura dei figli. Tuttavia, va detto che nelle famiglie in cui il livello di istruzione fra moglie e marito è paritario la divisione egualitaria del lavoro domestico aumenta, anche se vi sono ancora forti differenze regionali fra nord e sud.

In tutti gli Stati europei  c’è una percentuale maggiore di donne, rispetto agli uomini, che si occupa della cura dei figli, dei lavori domestici e della cucina.

Nel 2016 nell’Ue, il 92 % delle donne tra i 25 e i 49 anni (con figli sotto i 18) si prendono cura dei propri figli quotidianamente, rispetto al 68 % degli uomini. Tra gli Stati membri, le differenze più ampie tra le donne e gli uomini si osservano in Grecia (95 % delle donne e 53 % degli uomini) e a Malta (93 % e 56 %), mentre quelle minori sono in Svezia (96 % delle donne e 90 % degli uomini) e in Slovenia (88 % e 82 %).

Riguardo alle attività domestiche e alla cucina, le differenze sono ancora maggiori. Nel 2016 nell’Ue, il 79 % delle donne cucina e/o svolge attività domestiche quotidianamente, rispetto al 34 % degli uomini. Le differenze più ampie tra le donne e gli uomini si registrano in Grecia (85 % delle donne e 16 % degli uomini) e in Italia (81 % e 20 %), mentre quelle più ridotte in Svezia (74 % delle donne e 56 % degli uomini) e in Lettonia (82 % e 57 %).

Per il futuro, visto che fra i trentenni di oggi le donne superano gli uomini, sia nel possesso di titoli universitari, sia a livello di performance accademica, è impensabile che le giovani generazioni femminili continuino a pensare di svolgere il doppio lavoro, come le loro madri.

La prospettiva del familismo (quando lo Stato assume che il nucleo familiare debba essere il primo responsabile del benessere dei suoi membri e dunque il primo generatore del lavoro di cura),appare sempre meno proponibile. D’altra parte è sotto gli occhi di tutti che  il benessere familiare, da quando le donne compiono meno sacrifici in favore della famiglia, ha portato una riduzione dei livelli di benessere e di qualità della vita, che non sono stati compensati da opportuni interventi di protezione sociale.

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  • Riduzione del tasso di natalità

Dall’Unità di Italia ad oggi la natalità si è ridotta di un quarto: nel periodo post unitario le coppie avevano in media 5 figli ed erano frequenti quelle con più di 6 figli (circa 2 su 5). Complessivamente in pochi decenni, l’Italia è passata da un tasso di fertilità molto alto ad uno dei più bassi tassi di fertilità nel mondo.

Non che gli italiani non desiderino avere dei figli: il problema riguarda soprattutto l’incertezza del futuro e l’accresciuto interesse nei confronti del sano sviluppo del figlio. Insomma, ci si è resi conto che i figli non solo non rappresentano più una risorsa economica per la famiglia (come accadeva nell’Italia contadina quando, sin da piccoli, venivano avviati al lavoro nei campi), ma rappresentano un costo.

Inoltre, i desideri e le aspettative di fecondità spesso non riescono ad essere realizzati, anche a causa dell’età dei genitori.

L’Italia, nel 2018, è stato il Paese Ue con il tasso di natalità più basso (il 7,3 per mille). E’ quanto evidenzia Eurostat nella nota di commento ai dati sulla popolazione nei 28 Stati membri dove complessivamente lo scorso anno, per la seconda volta consecutiva, il numero dei morti ha superato quello delle nascite (5,3 milioni contro 5 milioni). Se tra il primo gennaio 2018 e il primo gennaio 2019 la popolazione totale Ue è salita da 512,4 a 513,5 milioni, osserva Eurostat, è stato solo grazie all’immigrazione.

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  • La transizione all’età adulta

Fino a non moltissimi anni fa, la transizione verso l’età adulta era chiaramente delineata da marcatori che si verificavano secondo passaggi ben definiti: la fine della scuola, l’entrata nel mondo del lavoro, il matrimonio. Oggi questi marcatori sono diventati più flessibili: si può scegliere infatti di studiare e lavorare allo stesso tempo, si può entrare nel mercato del lavoro ma poi lasciarlo per la breve durata dei contratti o per frequentare corsi di specializzazione, si può convivere a lungo prima di sposarsi o decidere di non sposarsi affatto, pur convivendo.

La crisi economica ha ulteriormente accentuato un fenomeno, quello dei “bamboccioni“, come definito dall’ex ministro Padoa-Schioppa.

Secondo l’Istat più della metà dei giovani fra i 20 e i 34 anni (5,5 milioni), celibi e nubili, che vive con almeno un genitore.  In Croazia sono il 93,1 % e in Slovacchia l’89,2 %, l’Italia entra nel podio (88,3 %). Sono soprattutto i maschi (73,3%) ad essere più inclini a recitare il ruolo di ‘Tanguy’, rispetto alle coetanee dell’altro sesso (62,9%). In ogni Stato membro, infatti, la proporzione di giovani donne all’interno del nido familiare risulta inferiore a quella degli uomini.

La famiglia di origine infatti ha sempre rappresentato per i giovani italiani il nido caldo ove poter costruire la fiducia in se stessi, prima di entrare nel mondo adulto. Dopo gli anni settanta questo tempo vissuto dal giovane adulto nel contesto familiare è stato reso più facile dal cambiamento della famiglia italiana, più disponibile a sostenere le giovani generazioni, sia affettivamente che economicamente, con vantaggi reciproci per figli e genitori in questo prolungamento della convivenza.

All’interno della casa dei genitori infatti, la giovane generazione può costruirsi uno spazio di autonomia, pur potendo contare sul sostegno familiare, sul calore affettivo e sull’aiuto dei genitori, in caso di necessità. La tendenza “Forever young” è piacevole anche per i genitori, che apprezzano la possibilità di dare ai figli ciò che essi in gioventù non hanno ricevuto, fra cui anche un buon rapporto genitori-figli, costruendo il rapporto ideale che avrebbero voluto avere da giovani con i loro genitori, con uno stile di comunicazione partecipativo, basato sul dialogo, sull’affetto e sulla comprensione.

Contrariamente a quanto accadeva nei decenni passati, ai giovani adulti viene data una grande libertà nel processo decisionale all’interno della casa, grazie alla possibilità di negoziare le decisioni, senza gravi conflitti. I giovani si dichiarano in genere soddisfatti del rapporto con i genitori, che ritengono aperto e privo di problemi.

Questo genere di rapporti tuttavia non sempre sono fruttuosi per i figli, perché possono contribuire a bloccare lo sviluppo personale,  scoraggiando i giovani a lasciare il nido.

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In Italia, 9 su 10 soggetti si dicono contenti dei rapporti con i propri parenti e «le relazioni familiari confermano i più alti livelli di apprezzamento: nel 2017 il 90,1% delle persone si ritiene soddisfatto». Al di fuori della famiglia, i dati ribadiscono come in Italia «prevalga un atteggiamento di cautela verso il prossimo». La fiducia negli altri, infatti, non cambia sostanzialmente rispetto al 2016: il 78,7% delle persone ritiene che «bisogna stare molto attenti».

Secondo l’ufficio di statistica l’atteggiamento di cautela nei confronti del prossimo è presente in tutto il Paese ma è soprattutto il Mezzogiorno a risultare “guardingo”. Al Sud, infatti, solo il 15,8% della popolazione di 14 anni e più ritiene che gran parte della gente sia degna di fiducia, mentre al Nord tocca il 22,1% e al Centro il 21,2% (con la media nazionale che, appunto, si attesta al 19,8%).

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