La musica o il tempo dell’Altro: Laurent Boyer il passeur di canzoni

La musica o il tempo dell'Altro: Laurent Boyer il passeur di canzoni

La musica o il tempo dell’Altro: Laurent Boyer il passeur di canzoni

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La musica è, secondo la bella espressione di Alain Didier-Weil, “il tempo dell’Altro”, un momento di comunicazione emotiva che supera la capacità della parola. Così, quando il bambino riceve quella nota musicale che è la voce di sua madre – prima di percepirne il significato -, egli ne percepisce inizialmente un ritmo che si incarna in una melodia, la quale acquisisce senso in quanto si avvale di quella struttura sincronica che è l’armonia. Eppure, la musica e soprattutto la canzone hanno bisogno di “passeurs(n.d.t. con questo termine si intendono i trafficanti di clandestini, coloro che agevolano il passaggio fra un confine e un altro)  e fare il ritratto di Lawrence Boyer è come declinare una storia della canzone francese come si è diffusa nei media francesi (televisione e radio) per oltre due decenni.

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Un passeur di canzoni

E ‘ con Radio 7 che Laurent Boyer mosse i primi passi alla radio. Surveillant (n.d.t. sorta di supervisor) in un liceo mentre si preparava ad un concorso per l’insegnamento delle lettere classiche (CAPE) frequentò un Master di Musicologia presso l’Università di Jussieu, che lo portò negli studi di Radio France, per scrivere una tesi sul lavoro dell’editoria musicale in radio. Nel 1981 vi fu la liberalizzazione delle frequenze  e questo amante della canzone realista francese (Brassens, Brel, Nougaro, Ferre, Dutronc …) – «  Potevo cantare a memoria  « Supplique pour être enterré à la plage de Sète » di Brassens »– viene assunto grazie ad un provino sulla musica della West Coast, con cui si dilettava nel suo attico. Vi fu allora un grande momento di libertà sulle onde radio e, spinto dal suo gusto per la musica francese, egli passò da una radio libera all’altra. “E’ stato incredibile, arrivavamo con le nostre valigie di dischi e potevamo trasmettere quello che ci piaceva”. Poi allestì un piccolo studio con un pianoforte, una batteria e dalle 20 alla mezzanotte invitava artisti francesi: cantanti già noti (Samson, Higelin, Gainsbourg, Lavilliers …) e giovani artisti. “Spesso Gainsbourg veniva ad ascoltare un’ora o due questi nuovi talenti”, ricorda. “Ho voluto democratizzare l’accesso alla canzone, ma anche condividere quel momento unico che nasceva dal mio rapporto con un artista”.

Fu allora, quando collaborava con M6, che riprese il format di Discorama creato negli anni ’60 da Denise Glaser: due sedie, un muro bianco, uno scambio, un filmato girato in bianco e nero da Jacques Audouard, il regista di Discorama, la macchina da presa è sensibile ai segnali del corpo (una mano, uno sguardo, un tremore …) per mostrare ciò che non si può dire. Poi gira in esterno un ritratto di Mylène Farmer a Budapest e si rende conto che, lontano dallo studio, quando si affievolisce un po’  la tecnica, la parola è più facile. “Mylène Farmer mi ha dato più di quanto avrei immaginato potesse dare: è diventata espressiva, espansiva, loquace. E mi ha sconvolto”. Il formato di Fréquence star era nato: far vedere e sentire qualcosa di intimo. La canzone diventa una guida per un’archeologia essenziale, quella della sensazione, quella delle profondità che muovono molto più di quanto non si riesca completamente a razionalizzare.

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Mostrare il soggetto  dal vivo: una maieutica?

Lasciare tempo al tempo, posizionare l’artista nel suo universo, “nel suo habitat“, dice Laurent Boyer, “quando la passione e il desiderio, della memoria e del ricordo abbellito, vanno al di là della tecnica e dello strumento. L’oggetto TV è sclerotizzante … ma quando ci si spinge fuori di esso, ci si prende del tempo per godersi un luogo o un ricordo, in una conversazione che prende forma a poco a poco, si tratta di una sorta di maieutica. Quando ho girato un Fréquence Star dedicato a Lavilliers, ci sono volute più di 2 ore prima che prendesse la sua chitarra e si mettesse a suonare… Fu un dono”. Si tratta di tirare fuori le proprie verità nascoste, di esprimere una conoscenza nascosta in sé stessi, ciò che non sappiamo di conoscere. Poiché creare è (anche) raccontare l’intimità, in una specie di necessità interiore, in una continuità di senso tra l’esterno e l’ interno. Creare significa riprodurre sé stessi sulla base di un incontro con l’alterità interna. “E’ come un rocchetto di filo quando devo tirare il filo che ne esce un poco, che non rappresenta né l’inizio della bobina, né la fine, ma solo un filo che ne esce, che mi permetterà poi alla fine di tirare fuori qualcosa di autentico“. Si tratta del tentativo di riappropriarsi di una parte intima del sé davanti alla invadenza delle telecamere, in una società dello spettacolo che prende il simulacro  per la realtà, in un mondo in cui il significato viene cancellato in favore della sua ricostruzione, dove il “reale” viene ridotto a soli segni auto-referenziali della sua esistenza”.

“Ammiro nell’altro il talento che non ho, senza frustrazioni, solo per il desiderio di capire”, dice il conduttore. Comprendere l’atto della creazione significa avere a che fare con i punti di debolezza del soggetto, con i luoghi delle sue vulnerabilità, con i suoi atti di riparazione, poiché è sugli aneddoti e sugli eventi della vita che ogni autore si costruisce e costruisce la sua opera, a partire dalle sue mancanze. Nel dicembre 2011, Laurent Boyer su France 3 conduce il programma « Emmenez moi…chez Serge Lama », un programma che sarà ritrasmesso durante il mese di agosto 2012, dedicato al lavoro di una vita di Serge Lama e tra i pasti nel paese, un momento di confidenza in una chiesa, o una passeggiata al sole, Lama racconta i suoi traumi infantili,  i problemi dell’infanzia di cui trattano le sue canzoni e se vi opera un fascino, il fascino labile e fragile della relazione, è a causa della sua caducità, che non ha senso se non nella comprensione e nell’emozione del momento.

Altri tre ritratti sono in via di realizzazione, fra cui quelli di Michèle Laroque e di Laurent Géra. Per Laurent Boyer, al di là dei gusti personali, tutti gli autori hanno un interesse “gli autori sono vicini al loro mondo nei loro testi”Souchon che porta il tema delle separazioni nei suoi brani ; Cabrel radicato nel territorio di Agen con il suo lato D’Artagnan, Nougaro che traduce la sua regione soprattutto nell’uso della lingua; Higelin che rassomiglia a ciò che canta; Renaud che usa le parole della strada, o artisti di oggi come Bénabar, Camille, Delerm e il rap che dà movimento alle parole. “L’artista assorbe le emozioni, le ingerisce, le digerisce e le rigurgita“. La canzone è l’arte della progettazione, dove in un breve testo si deve rappresentare l’idea-chiave, la musicalità delle parole, l’emozione, un’alchimia, ma è anche un’opera che trasmette qualcosa, che si realizza caricandosi di volta in volta del contributo emotivo e immaginativo dell’interprete. L’arte ha “il potere di trasformarsi in un mezzo definito, una idea vaga , un’emozione” (Dewey).

Ma la musicalità delle parole non è sufficiente per determinare il fascino di una canzone, anche se la musica francese è segnata dal primato della canzone in cui il testo ed il significato hanno maggiore importanza delle dimensioni melodiche e ritmiche. Laurent Boyer cita  “Je chante” di Trenet, dove su una melodia gaia e conviviale, su un ritmo festoso je le vois quand je fais les journées Trenet à Narbonne”‘), la canzone racconta la storia di un uomo che andrà ad impiccarsi … o la canzone politica di Murray Head « Say it ain’t so » (“Dite che non è così”) che il pubblico francese vive come una canzone d’amore.

Ciascuno esiste per il suo incontro con l’Altro. La musica è relazione, essa “rende ogni ascoltatore un poeta” (Jankélévitch), la canzone è condivisa. Nei suoi ritratti, Laurent Boyer compone ciò che accade, mette in discussione le nostre certezze, autorizza l’altro a dire, a dirsi, organizza dei passaggi, individua la realtà mutevole della storia di una persona, ciò che ha senso e dà consistenza al soggetto, per metterlo alla portata di un gran numero di persone. Ma al di là della tecnica, l’arte del ritratto è una sorta di mise en abyme (n.d.t. storia nella storia) che rivela anche le caratteristiche di chi la fa. Fare un ritratto, più precisamente fare un ritratto di chi fa ritratti per professione, è una sfida (“parlo poco di me stesso, preferisco parlare piuttosto degli altri”, dice) a comprendere ciò che c’è fra le pieghe di un discorso, l’affioramento della realtà che si manifesta nella relazione fra sé stesso  e gli altri, dei quali racconta i percorsi di vita attraverso i media.

Béatrice  Mabilon-Bonfils
Traduzione a cura di psicolinea.it

Immagine:
Laurent Boyer, Wikipedia

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