Nella mente di un dittatore al tramonto

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Il classico dittatore è sempre bravissimo nel fare molte cose, come ad esempio sopprimere il dissenso, ammutolire la stampa, annullare la speranza: è così che riesce a stare al potere per 30 o 40 anni. Ciò che invece proprio non sa fare è comprendere gli umori del popolo e comportarsi di conseguenza.

Il biologo e antropologo Chris Boehm, che lavora presso la University of Southern California studia il moto rivoluzionario degli esseri umani sotto l’aspetto psicologico. Secondo lo studioso, gli esseri umani sono dei primati che hanno organizzato la loro comunità in chiave strettamente gerarchica, raccolta intorno ad un leader, cui viene riconosciuta un’autorità, utile per il bene comune. C’è però da ricordare che i nostri antenati cacciatori-raccoglitori sono stati un gruppo molto egualitario, in cui si lavorava insieme e in cui l’aspirazione alla dominanza da parte di qualcuno (generalmente di sesso maschile) veniva affrontata e “risolta” con grande velocità. Sarebbe proprio in questa atavica caccia al bullo che vanno rintracciate le origini del moto rivoluzionario.

“La spinta rivoluzionaria è la reazione universale al potere che viene esercitato su di noi in modo illegittimo”, dice invece Jonathan Haidt, uno psicologo morale presso l’Università della Virginia. Fare la rivoluzione “è assolutamente eccitante ed inebriante per le persone”.

Come è accaduto recentemente in Egitto, le forze di mobilitazione si coaguloano intorno ad una nazione profondamente stanca, in cui tutti i piccoli fuochi di ribellione accesi nel Paese ma dispersi, in particolari condizioni si uniscono, creando un grande incendio.

“A questo contribuiscono molte cose”, dice il professore di Scienze Politiche Ian Lustick della University of Pennsylvania: ” la densità delle reti sociali, la velocità con cui i secondi seguono i primi ed i terzi i secondi. Il modello è sempre lo stesso e prevede una cascata di eventi, che porta ad un punto di non ritorno”.

Naturalmente, anche una rivoluzione che sembra veloce col senno di poi può sembrare terribilmente lenta mentre è ancora in svolgimento, come è accaduto nei diciotto giorni trascorsi tra l’inizio della rivolta egiziana e la cacciata di Mubarak. Sin dall’inizio, tutti gli osservatori avevano capito che la posizione di Mubarak era insostenibile: come mai c’è voluto così tanto tempo perché il dittatore egiziano si decidesse a lasciare il potere?

Prima di tutto, mai sottovalutare l’impenetrabilità della bolla presidenziale. “I dittatori non amano il dissenso e si circondano di sicofanti”, dice Haidt. “E’ una cosa abbastanza comune: i dittatori non hanno idea di cosa veramente pensi di loro il popolo ”

David Ottoway, uno studioso del Woodrow Wilson Center di Washington, DC, è stato un inviato del Washington Post in Egitto – ed era sulla tribuna in cui, nel 1981, il predecessore di Mubarak, Anwar Sadat, fu assassinato. Nei mesi precedenti, ricorda Ottoway, Sadat aveva cercato di consolidare il suo potere in modo molto simile a come ha fatto Mubarak, con violenze e arresto dei suoi avversari politici. Quando l’Occidente condannò queste mosse, Ottaway ricorda che Sadat, letteralmente, subì un crollo psicologico.

“Era stato un eroe mondiale per lungo tempo, ma poi la stampa occidentale si era rivoltata contro di lui” ricorda Ottoway. “Lui rispose prendendo a calci il giornalista di Le Monde. Cacciò la NBC. In una conferenza stampa, qualcuno gli chiese se si fosse consultato con Washington prima di iniziare la repressione interna e lui si arrabbiò moltissimo, dicendo che non avrebbe risposto ai diktat occidentali. Non poteva credere che qualcuno potesse metterlo in discussione”.

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“C’è sempre una voce nel cervello del dittatore, che gli consiglia di lasciare subito” dice Lustick ma poi finisce per credere ad altre voci che si mostrano sicure, che sembrano più forti, che lo trattengono dal lanciare la spugna. E’ successa la stessa cosa allo Scia di Persia o a Nicolae Ceausecu. Entrambi hanno fatto dei discorsi, nei quali giuravano che non se ne sarebbero mai andati via e poi… All’improvviso se ne sono andati.

Questo è forse l’ultimo atto indegno di questi dittatori vanagloriosi: i loro atti finali non hanno nessuna finalità eroica, se non quella di salvare la propria pelle e le proprie fortune (Mubarak sembra avere salvato entrambe). La transizione fra l’estrema rigidità e la capitolazione è rapidissima: è come vedere un cane che vi ringhia contro e che sembra pronto all’attacco, il quale poi improvvisamente scappa, con la coda fra le gambe.

Dr. Giuliana Proietti, psicoterapeuta, Ancona

Fonte:

What Was Mubarak Thinking? Inside the Mind of a Dictator, Time

Immagine:

Charlie Chaplin dal film The Great Dictator

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