Personalizzare gli ambienti di lavoro per essere meno stressati

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ANCONA FABRIANO TERNI CIVITANOVA MARCHE E ONLINE

Diversi studi hanno scoperto che gli uffici open-space possono influire negativamente sulle prestazioni dei dipendenti. Il rumore di fondo nell’ambiente, le interruzioni cui viene sottoposto il proprio lavoro, possono diventare fonte di distrazione, compromettendo la produttività dei lavoratori. I dipendenti di questi “uffici aperti” sperimentano maggiori livelli di stress, livelli più scarsi di concentrazione e motivazione, e sembrano addirittura più propensi a usufruire di congedi per malattia.

Un recente studio rileva che i dipendenti che non hanno una loro privacy sul lavoro possono soffrire di esaurimento emotivo in modo maggiore rispetto a coloro che lavorano in un ufficio fatto di quattro pareti non trasparenti e di una porta.

Gregory A. Laurence, Yitzhak Fried, e Linda H. Slowik hanno ipotizzato che la mancanza di privacy porti i dipendenti ad utilizzare energie e risorse mentali per difendersi dalle distrazioni e dalla continua osservazione da parte di colleghi e supervisori (sottraendola al lavoro).

Quando le persone sperimentano una scarsa privacy nel loro ambiente di lavoro, essi avvertono lo stress di dover perseguire gli incarichi di lavoro e gestire nel contempo le distrazioni, le interferenze, e la sensazione di essere monitorati dagli altri.

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I ricercatori ritengono che i lavoratori open-space potrebbero essere in grado di mantenere un senso di maggior controllo sul loro spazio, personalizzandolo. Portare in ufficio oggetti personali come foto, soprammobili e disegni dei bambini, può fornire ai lavoratori un maggior senso di proprietà e di controllo sul proprio spazio, che potrebbe contribuire a tamponare gli effetti negativi della mancanza di privacy.

Per lo studio, i ricercatori hanno reclutato 87 dipendenti che lavoravano in posizioni amministrative presso l’università. Circa la metà dei partecipanti lavorava in un ufficio tradizionale (con quattro pareti opache e una porta), mentre l’altra metà lavorava in ufficio open-space, con diverse modalità di privacy (alcune pareti, tramezzi di varie altezze). I partecipanti hanno completato dei questionari che valutavano la percezione della loro vita privata e dei livelli di esaurimento, dovuto allo stress lavorativo.

L’ufficio di ogni partecipante è stato poi codificato per la privacy (in base a tipo di pareti, porta, numero di pareti, tramezzi, altezza delle pareti), e sono stati contati gli oggetti personali presenti in ogni ufficio (fotografie, manifesti, oggetti d’arte, disegni dei bambini, tazze e altri oggetti).

Relazione La sessualità femminile fra sapere e potere

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Convegno Diventare Donne
18 Marzo 2023, Castelferretti Ancona
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Poiché i lavoratori tendono a raggiungere un maggior grado di privacy in ufficio con l’anzianità, i ricercatori hanno tenuto conto della posizione lavorativa, dell’età e del genere sessuale, visto che le donne tendono a decorare il loro spazio di lavoro più degli uomini.

Come previsto, il grado di privacy è stato associato con il livello di esaurimento emotivo dei dipendenti. Coloro che lavoravano in uffici con scarsa privacy hanno mostrato di avere più elevati livelli di esaurimento emotivo. I dati hanno però rivelato che questa cosa interessava in particolare misura i dipendenti che lavoravano in ambienti con scarsa privacy e che erano anonimi, non personalizzati.

Laurence e colleghi avvertono che i loro risultati sono limitati dalla piccola dimensione del campione e dal fatto che l’intero campione proveniva da  un solo luogo di lavoro. Se questi dati venissero replicati, tuttavia, i risultati potrebbero suggerire che sia il datore di lavoro, sia il lavoratore, potrebbero ricevere vantaggi dalla personalizzazione degli spazi di lavoro, soprattutto in contesti open-space.

Dr. Giuliana Proietti

Intervento del 14-09-2024 su Sessualità e Terza Età
Dr. Giuliana Proietti

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Clinica della Coppia

Fonte:
Laurence, G.A., Fried, Y., Slowikc, L.H. (2013) “My space”: A moderated mediation model of the effect of architectural and experienced privacy and workspace personalization on emotional exhaustion at work. Journal of Environmental Psychology, 36, 144–152. doi: 10.1016/j.jenvp.2013.07.011, via Psychological Science at work, aps

Immagine:
Pxhere

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Il lavoro può accorciare l'attesa di vita

Il lavoro può accorciare l’attesa di vita

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Relazione sulle Coppie Non Monogamiche

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E’ stato già ampiamente scoperto e divulgato che avere un buon controllo sul proprio lavoro può aiutare a gestire lo stress, specie quello lavorativo. Ciò che finora non era stato mai detto è che questo controllo sullo stress è un fattore molto importante, o meglio, si tratta talvolta di una questione di vita o di morte.

Una nuova ricerca dalla Indiana University Kelley School of Business rileva infatti che coloro che occupano posti di lavoro che comportano un alto stress e che hanno scarso controllo sul loro flusso di lavoro muoiono più giovani o si ammalano più facilmente rispetto a chi può avere una maggiore flessibilità e discrezione nel gestire il proprio lavoro ed è in grado di fissare i propri obiettivi lavorativi.

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Utilizzando un campione longitudinale di 2.363 residenti nel Wisconsin di 60 anni, seguiti per un periodo di sette anni, si è scoperto che le persone che lavorano in posti di lavoro che consentono uno scarso controllo personale e che hanno ogni giorno richieste elevate vedono aumentare le loro probabilità di morte del 15,4 per cento, rispetto a chi svolge lavori poco stressanti. Al contrario, chi fa un lavoro molto stressante, ma ha possibilità di gestirlo e di programmarlo, vede diminuire del 34 per cento la sua probabilità di morte rispetto alle persone che svolgono un lavoro poco stressante.

Erik Gonzales-Mulé, autore principale dello studio ha dichiarato: “Questi risultati suggeriscono che i lavori stressanti hanno chiare conseguenze negative per la salute dei dipendenti se abbinati alla scarsa libertà nel processo decisionale, mentre i lavori stressanti possono anche essere benefici per la salute dei dipendenti, se consentono una certa libertà nel processo decisionale.”

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Dal 2002 parole che curano, orientano e fanno pensare.

Lo studio, “Worked to Death: The Relationships of Job Demands and Job Control With Mortality,”, è stato pubblicato sulla rivista Personnel Psychology.

I ricercatori, con questa ricerca, mandano questo messaggio ai datori di lavoro;

“È possibile evitare le conseguenze negative sulla salute, se si consente ai lavoratori di fissare i propri obiettivi, impostare i propri programmi, darsi le priorità nel processo decisionale e simili”.

Dr. Walter La Gatta



Fonte:

Worked to death? IU study says lack of control over high-stress jobs leads to early grave, Medical News Today

Immagine:
Wikimedia

Una intervista sui rapporti familiari

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DSM-5: perché nel 2013 saremo tutti più malati, con qualche eccezione

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Articolo datato

Nel prossimo mese di maggio è prevista l’uscita della nuova edizione del Manuale Diagnostico e Statistico degli psichiatri, il DSM-5.

Il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, detto anche “la Bibbia degli Psichiatri”, rappresenta il tentativo, da parte del mondo scientifico, di catalogare tutti i disturbi mentali dell’essere umano, sulla base di dati scientifici.

Il DSM, pubblicato dalla American Psychiatric Association, ha la caratteristica di avere una influenza internazionale sul trattamento sanitario dei disturbi mentali ed ha notevolissime influenze sociali, dal momento che è attraverso questo manuale che si decide se una persona è “normale” o è “malata”.

Questo spiega naturalmente le controversie e le polemiche che hanno sempre circondato il DSM. Un esempio su tutti: quando nel DSM-II l’omosessualità fu definita un disturbo psichico; la definizione fu rimossa, a seguito delle molte proteste, nel 1973. Decidere cosa sia (o non sia) normale fa parte della routine quotidiana di tutti i medici, compresi ovviamente gli psichiatri. Il problema è che, in altre branche della medicina, i medici dispongono di strumenti che permettono esami clinici oggettivi. Le malattie si diagnosticano infatti con elettrocardiogrammi, radiografie, esami del sangue, TAC, biopsie… Gli psichiatri invece dispongono solo di conoscenze teoriche e pillole: niente da esaminare sotto il microscopio, niente su cui cercare dati oggettivi e incontrovertibili.

Il DSM, del resto, è nato proprio allo scopo di dimostrare che le diagnosi psichiatriche si basano su prove rigorose e codificate. In realtà, per molti critici, questo manuale sembra piuttosto dimostrare con chiarezza che lo studio della patologia psichica è tutt’ora più vicino alla letteratura che alla scienza e, proprio per questo, è estremamente sensibile alle mode, alle tendenze, ai bisogni della politica e dell’economia.

Ogni decisione, ogni cambiamento comporta infatti profonde conseguenze sociali e soprattutto economiche: denaro speso o risparmiato, dai cittadini, o dai rispettivi sistemi sanitari nazionali. La malattia del resto comporta sempre esborsi privati e pubblici su visite mediche, esami clinici, test psicologici, farmaci, obblighi nei confronti della disabilità, sostegno scolastico, assenteismo lavorativo, ecc.

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Alla nuova versione del DSM si lavora già da diversi anni, ma è solo dal Giugno 2012 che si sta mettendo a punto la stesura definitiva, dopo un periodo di un mese e mezzo, in cui la bozza del manuale è stata messa online sul sito dell’APA, per ottenere i commenti del pubblico: in primis i professionisti, ma anche pazienti, familiari, associazioni. La bozza è stata poi rimossa dal Sito e la task-force ha continuato il suo lavoro, che ormai volge al termine, in quanto la pubblicazione del manuale è attesa fra pochi mesi.

Questo confronto pubblico è servito intanto ad eliminare due proposte su cui la task force aveva a lungo lavorato: il “disturbo di ipersessualità“, che in qualche modo doveva far entrare la controversa diagnosi di “sex addiction” nel manuale, oltre alla ancor più controversa “sindrome di alienazione genitoriale” o PAS, sostenuta in particolare da molte associazioni di padri separati (che vorrebbero riconosciute le dinamiche psicologiche disfunzionali del figlio convivente con la madre, il quale mostra atteggiamenti di rifiuto nei confronti del padre, a causa di un supposto “lavaggio del cervello”). Allo stesso modo, non entreranno nella stesura finale la “depressione ansiosa“, proposta per descrivere sintomi moderati di ansia e depressione, il disturbo di elaborazione sensoriale o “sensory processing disorder”, diagnosi proposta per classificare le persone che hanno difficoltà nell’elaborare le informazioni sensoriali, come le immagini visive o i suoni.

Alcune diagnosi rimangono inalterate, anche se cambiano di definizione: è il caso della “pedofilia“, che viene ribattezzata “disturbo pedofiliaco”. Vengono inoltre aggiunti nuovi criteri diagnostici per quanto riguarda il Disturbo Post Traumatico da Stress e il Disturbo da Abuso di Sostanze. Tutto questo per avvicinarsi alle definizioni del concorrente ICD, o International Classification of Diseases, pubblicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (World Health Organization, WHO), allo scopo di facilitare la comunicazione fra professionisti.

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Una decisione che va controcorrente rispetto all’estensione generalizzata delle malattie riguarda l’ autismo, probabilmente per diminuire il numero sproporzionato di diagnosi di autismo degli ultimi anni negli USA. Diminuiscono dunque i criteri per la diagnosi di autismo, ridotti da tre (alterazioni qualitative dell’interazione sociale, alterazioni qualitative nella comunicazione, comportamenti, interessi, attività stereotipate, ripetitive e ristrette caratterizzate ) a due (disfunzioni nella comunicazione sociale e comportamenti ripetitivi). Le famiglie e le associazioni legate a pazienti autistici lamentano il fatto che un cambiamento del genere potrebbe implicare che molti pazienti che avevano ricevuto in precedenza una diagnosi di autismo, di punto in bianco potrebbero ritrovarsi ad essere considerati “normali” perdendo così il diritto alle cure e al sostegno scolastico. In particolare le famiglie di pazienti con sindrome di Asperger sono preoccupate perché pensano di avere meno speranze di guarigione per i loro familiari “ad alto funzionamento”, che si ritrovano invece in qualche modo “declassati” a semplici soggetti autistici.


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La sindrome di Asperger, quando nell’edizione DSM del 2000 fu indicata come disturbo separato dai disturbi dello spettro autistico, determinò un’ondata di investimenti nella ricerca su questa malattia. L’Asperger torna oggi sotto l’ombrello dei disturbi dello spettro autistico (sindrome di Asperger, disturbo autistico, disturbo disintegrativo dell’infanzia e disturbo pervasivo dello sviluppo, non altrimenti specificato), in quanto si è ritenuto che la diagnosi di autismo debba essere considerata solo un primo passo, che implica poi una valutazione individuale del livello di capacità del paziente.

Altra malattia che esce di scena è il “disturbo neurocognitivo minore“, un disturbo della memoria nell’età anziana, che potrebbe evolversi in Alzheimer: questa diagnosi comprende una enorme popolazione di pazienti ogni anno (solo alcuni dei quali sono a rischio reale di demenza) e produce enormi costi, considerati inutili, di brain imaging dal momento che non vi è alcun trattamento efficace per l’Alzheimer.

A parte queste eccezioni, il manuale continua ad espandersi sempre più, come denunciano molti studiosi, fra cui Allen Frances, psichiatra della Duke University che ha presieduto la Task Force del DSM-IV e che ritiene che i supporti scientifici su cui si basa il DSM-5 siano in molti casi piuttosto dubbi.

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Ad esempio, molto criticata è la decisione di non escludere più i soggetti a lutto da una possibile diagnosi di depressione maggiore. Il lutto nel DSM-5 non viene più considerato una possibile giustificazione al basso tono dell’umore o ai comportamenti tristi e apatici. La persona che ha da poco subito un lutto viene dunque considerata esattamente come un’altra. Questa decisione è ovviamente molto controversa: i critici sostengono infatti che siamo di fronte al tentativo di medicalizzare la società e di rendere patologiche le naturali emozioni della vita, come quella della tristezza o della disperazione per aver perso una persona cara.

Vi sono però anche voci a favore di questa decisione, che sostengono che l’inclusione del lutto nella diagnosi di depressione maggiore sia dettata da 2 ragioni molto importanti: (1) non ci sono studi che dimostrano che i sintomi depressivi successivi ad un lutto differiscano nella natura, nel decorso o nella severità dagli altri sintomi depressivi; (2) il grande rischio di suicidio che la depressione comporta (4%) non giustifica la non considerazione del lutto, visto che questi pazienti giungono spesso a togliersi la vita, al pari degli altri depressi.

Osservazioni sicuramente giuste, ma che non sembrano tenere conto che l’ elaborazione del lutto richiede soprattutto tempo, anziché farmaci.

E se anche la psicoterapia nel caso del lutto, potrebbe rivelarsi addirittura più efficace di un farmaco, specialmente nei casi più lievi, riconoscono gli psichiatri, il problema non è degli psichiatri, ma dei cambiamenti strutturali profondi che dovrebbe fare la società e che esulano dallo scopo per cui è stato creato il DSM.

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Tra i disturbi alimentari è stato incluso il ‘binge eating‘ cioè il mangiare troppo e senza sensi di colpa, che potremmo definire “disturbo da alimentazione incontrollata”. Mentre il bulimico cede all’abbuffata, ma poi si sente in colpa e tenta di rimediare con condotte di eliminazione (es. vomito e uso di lassativi), il binge eater è un mangione, che non si sente in colpa, è in sovrappeso e non se ne lamenta. Se nella passata edizione per ricevere questa diagnosi occorreva cedere all’abbuffata due volte alla settimana nei sei mesi precedenti, ora i criteri sembrerebbero ridotti a una volta alla settimana nei tre mesi precedenti. Inoltre, il disturbo diventa più rilevante, passando dall’appendice del DSM al vero e proprio manuale. Anche qui, nessuno può sostenere ovviamente che fare abbuffate una volta alla settimana sia salutare, ma considerarla una malattia, potrebbe davvero apparire eccessivo.

Un altra novità è la ‘disregolazione‘ (“Disruptive Mood Dysregulation Disorder o DMDD”), che riguarda bambini persistentemente irritabili e soggetti a scatti di rabbia tre o più volte alla settimana per oltre un anno. Questa novità sembra destinata a superare le difficoltà create dalla diagnosi di disturbo bipolare nei bambini, che nel tempo era notevolmente aumentata.

Vi è poi il disturbo di escoriazione (skin picking) che sarà incluso nei disturbi ossessivo-compulsivi insieme al “disturbo di accaparramento” o hoarding disorder, per soggetti che mostrano persistenti difficoltà a privarsi delle loro cose, anche quando non le utilizzano più e, indipendentemente dal loro valore, le conservano, fino a riempire completamente la loro casa di oggetti inutili.

Il disturbo di iperattività e deficit di attenzione (ADHD), che aveva già fatto tanto discutere a causa della controversa cura del Ritalin prescritto ai bambini, viene ora esteso anche agli adulti, con la sindrome di Adult Attention Deficit Hyperactivity Disorder (ADHD), dove i sintomi sono ad esempio cambiare posto di lavoro più volte, avere relazioni che terminano bruscamente, ecc.

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Non si parlerà più di “disturbo di identità di genere” usata per persone che si sentono dell’altro sesso: il termine verrà sostituito con il più neutro ‘disforia di genere’. Questo sulla spinta dei movimenti LGBT che vedono in questo cambiamento del DSM-V un passo importante per rimuovere lo stigma contro le persone transgender basato su stereotipi sull’identità di genere, aggravati dalla parola “disturbo”. In questo modo ci si aspetta che le persone transgender non vengano più considerate “malate” a causa della loro condizione sessuale.

Ulteriori estensioni riguardano un allargamento dei criteri per i disturbi specifici di apprendimento e un nuovo capitolo sul disturbo post traumatico da stress, che riguarderà i casi di bambini e adolescenti.

Una particolare sezione sarà dedicata ad una serie di malattie che richiedono ulteriori indagini per essere accettate definitivamente:
sindrome psicotica attenuata, in cui la persona manifesta sintomi simili alla psicosi (ad esempio sentire delle voci), ma non si tratta di vera e propria psicosi (in quanto si è in grado di distinguere la differenza tra realtà e immaginazione)
Disturbo da uso di videogiochi: essenzialmente, una dipendenza da gioco online
Comportamenti autolesionistici non suicidari: comportamenti autolesionistici, ma che non con hanno scopo suicidario
Disturbo comportamentale suicida: disturbo di personalità che aumenta il rischio di suicidio

Si immagina che il consumo di ansiolitici e antidepressivi, con tutte queste estensioni, salirà dunque alle stelle. Il già ricordato ipercritico Allen Frances ritiene inoltre che queste estensioni del DSM saranno dannose e pericolose anche sul piano sociale, dal momento che verranno considerate malate, e curate, delle persone che non hanno alcun bisogno di trattamento, mentre non vi saranno fondi pubblici per il trattamento delle persone realmente malate, come i malati psichiatrici, che finiranno per essere reclusi nelle carceri sovraffollate. Inoltre, ricorda Frances, vi saranno complicazioni mediche indirette, dovute all’eccesso di trattamenti farmacologici (spesso gli antipsicotici producono un enorme aumento di peso e portano al diabete e alle malattie cardiache). Per non parlare del problema dei sovradosaggi di farmaci regolarmente prescritti, che producono visite al Pronto Soccorso e ricoveri dovuti ad overdose, con tassi superiori perfino ai consumatori di droga comprata in strada. Una denuncia abbastanza seria, considerata la fonte autorevole da cui deriva.

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Sul cui prodest, tutti i critici sono d’accordo, non sembra vi siano molti dubbi: sono infatti vistosi gli interessi dell’industria farmaceutica, che con la creazione e l’estensione di tante malattie psichiatriche vedrebbe i suoi antipsicotici essere sempre più diffusi, quasi come fossero caramelle.

Si spera solo che il medico prudente si ricordi sempre che il DSM anzitutto non è affatto una Bibbia, come invece spesso si dice, ma un semplice manuale, tanto che in molti Stati, come ad esempio il Regno Unito, non è neanche il principale punto di riferimento per le diagnosi psichiatriche (che è invece l’ICD, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità). Inoltre, si spera sempre che a prevalere, nel momento della diagnosi sia, se non l’etica professionale, almeno il buon senso.

Dr. Giuliana Proietti

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Dr. Giuliana Proietti

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Pubblicato anche sull’Huffington Post

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Amnesia Globale Transitoria (TGA)

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Più di 50 anni dopo la sua descrizione iniziale, l’amnesia globale transitoria (TGA) rimane una delle sindromi più enigmatiche della neurologia clinica.

La TGA è definita come l’insorgenza improvvisa di un’amnesia anterograda e retrograda che dura fino a 24 ore, sebbene lievi deficit neuropsicologici subclinici con sintomi vegetativi concomitanti possano durare per giorni dopo l’episodio. Il deterioramento della memoria dei pazienti con TGA acuta mostra una profonda riduzione della memoria anterograda e una più lieve riduzione della memoria episodica retrograda, comprese le funzioni esecutive e il riconoscimento.

Incidenza

Dati epidemiologici recenti collocano l’incidenza annuale di TGA tra 3,4 e 10,4 casi ogni 100.000 abitanti.

Età e sesso

La TGA si presenta più comunemente nella settima decade di vita. In tutti gli studi, l’età media di un episodio varia da 61 a 67,3 anni.  In uno studio del 2006, il 96% dei soggetti con TGA (n=142) presentava un’età compresa tra 51 e 80 anni. Gli studi epidemiologici non riescono a identificare i soggetti di età inferiore ai 55 anni. Diversi studi su piccola scala mostrano una leggera predominanza femminile.

Ricorrenza

A seconda della durata del follow-up, il tasso annuo di recidiva della TGA varia dal 2,9 al 26,3%. Uno studio del 2005 con un periodo di follow-up di 7 anni, che è il periodo di follow-up sistematico più lungo riportato, ha riscontrato un tasso di recidiva dell’8%.  Un altro studio che ha reclutato soggetti per un periodo di 10 anni (n=142), tuttavia, senza un periodo di follow-up designato dopo la prima occorrenza, ha riscontrato un tasso di recidiva del 6,3%, se sono stati presi in considerazione gli episodi probabili.

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Fattori di rischio

Una storia di emicrania è uno dei fattori di rischio più importanti associati allo sviluppo di TGA. In uno studio basato sulla popolazione del 2014 (n=316.602), i pazienti con emicrania avevano una probabilità significativamente maggiore di sviluppare TGA rispetto ai loro controlli abbinati, con un tasso di incidenza di 2,48.  Inoltre, tra i soggetti che hanno sviluppato TGA dopo i 40 anni, quelli con una storia di emicrania avevano un’età di insorgenza significativamente più giovane (56,6) rispetto al gruppo di controllo (61,4). Non sono state trovate associazioni tra vari sottotipi di emicrania e TGA.

Anche i fattori di rischio cardiovascolare sono ben studiati nel TGA. Uno studio ha rilevato che i soggetti di controllo abbinati per età e sesso (n=293) avevano una probabilità significativamente ridotta di avere iperlipidemia e cardiopatia ischemica rispetto ai soggetti con TGA (n=293).  Inoltre, uno studio retrospettivo su 85 soggetti con TGA ha rivelato che le persone con una storia di due episodi di TGA mostravano una frequenza maggiore di ateromasia carotidea e cardiopatia ischemica rispetto a quelli con una storia di un solo episodio di TGA. Inoltre, si è osservato che la diagnosi di cancro non porta un aumento del rischio di TGA, secondo uno studio prospettico di coorte con 5,365,608 soggetti in esecuzione tra il 2001 e il 2009.

Comorbidità psichiatrica

Uno studio ha confrontato la malattia psichiatrica in 51 soggetti che hanno avuto un TGA con 51 soggetti che hanno avuto un TIA. La malattia psichiatrica è stata definita come avere “una diagnosi di depressione o disturbo d’ansia” o aver ricevuto “trattamento con farmaci specifici per almeno 3 mesi”. I soggetti TGA avevano una percentuale significativamente più alta di malattie psichiatriche rispetto ai controlli TIA (39,2% vs 13,7%, odds ratio aggiustato per età e sesso [OR] =2,86).  Inoltre, una percentuale significativamente più alta di soggetti con TGA (33,3%) riportava una storia familiare di malattie psichiatriche rispetto ai soggetti con TIA (13,7%).

La TGA è una diagnosi clinica. Fu descritta per la prima volta nel 1956 come un “episodio isolato di confusione con amnesia” non altrimenti associato ad altri deficit neurologici. I soggetti sono stati descritti come ripetitivi tendenti a ripetere le stesse domande, sebbene per lo più ruotassero attorno alla perdita di memoria stessa. Fisher e Adams hanno coniato il termine TGA nel 1958; tuttavia, è stato solo nel 1964 che hanno dettagliato un rapporto di 17 pazienti con amnesia anterograda e confusione a esordio improvviso che si sono risolti in poche ore.

Hodges e Warlow hanno successivamente sviluppato criteri per la sindrome clinica nel 1990  e da allora, questo è stato utilizzato come base per la diagnosi di TGA. Hanno diviso i pazienti nelle seguenti tre categorie: TGA puro, probabilmente amnesia epilettica e probabilmente TIA. I criteri di esclusione per il TGA puro includevano sintomi neurologici focali, come atassia, debolezza degli arti e disturbi sensoriali. Dei 153 pazienti esaminati tra il 1984 e il 1987, 114 hanno soddisfatto i criteri proposti per il TGA puro. La maggior parte degli attacchi in questo gruppo è durata tra 1 e 8 ore. Sia i gruppi TGA che quelli non TGA hanno mostrato disorientamento nel tempo e domande ripetitive, sebbene il gruppo TGA abbia dimostrato domande più ripetitive con il 92% rispetto al 71% nei gruppi non TGA. La maggior parte dei pazienti con TGA presentava un gap amnesico retrogrado permanente per gli eventi immediatamente prima e durante l’attacco, sebbene ciò fosse osservato anche in casi non TGA.

Le interviste

 

Criteri diagnostici di TGA di Hodges e Warlow

  • Gli attacchi devono avere dei testimoni
  • Ci deve essere un’amnesia anterograda durante l’attacco
  • Il deterioramento cognitivo è limitato all’amnesia
  • Nessun offuscamento della coscienza o perdita dell’identità personale
  • Nessun segno/sintomo neurologico focale
  • Nessun aspetto epilettico
  • L’attacco deve risolversi entro 24 ore
  • Nessun trauma cranico recente o epilessia attiva

Eventi precipitanti

Uno studio su 142 casi di TGA ha rilevato fattori precipitanti in 131 di questi episodi (89,11%).

  • Stress emotivo (ad es. innescato da endoscopia gastrica, annuncio di nascita/morte e giornata di lavoro difficile/estenuante),
  • Sforzi fisici (ad es. giardinaggio, lavori domestici e segatura del legno) e contatto con l’acqua/cambiamento di temperatura (ad es. bagno caldo/ doccia e bagno freddo) sono stati osservati più frequentemente immediatamente prima di un attacco.
  • L’ansia innescata da conflitti a casa o al lavoro,
  • Problemi di salute e stress finanziari sono stati spesso segnalati settimane prima del TGA e sono considerati “eventi remoti”.Negli studi sulla TGA, la percentuale di stress emotivo, sforzo fisico e contatto con l’acqua/cambiamento di temperatura erano rispettivamente del 29, 25 e 14%, rispetto al 48, 9 e 0% rispettivamente nei gruppi di controllo. Eventi remoti di ansia ed esaurimento sono stati riportati rispettivamente nel 24 e nel 33% dei casi di TGA e nel 6 e 90% nei controlli. P <0,000) e gli eventi precipitanti remoti sono risultati statisticamente significativi, fornendo una forte evidenza che il TGA si verifica in determinati contesti.

Sintomi associati

Il mal di testa e la nausea/vomito sono i più comuni sintomi associati, presenti ciascuno nel 10% dei casi di TGA subito dopo l’attacco.  Sono stati segnalati anche capogiri, brividi o vampate di calore, paura di morire, estremità fredde, parestesie, emotività, tremori, dolore toracico e sudorazione. Quinette et al. hanno proposto che tali sintomi associati fossero manifestazioni somatiche di ansia e hanno scoperto che, rispetto ai controlli, gli episodi di TGA erano più frequentemente correlati al Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, IV edizione, criteri degli attacchi di panico.

In sintesi, sebbene esistano molteplici criteri di esclusione, l’amnesia anterograda confermata da un testimone e il deterioramento cognitivo limitato all’amnesia è il principale criterio di “regolamento” per TGA. Inoltre, l’amnesia deve durare meno di 24 ore. Mal di testa, vertigini e nausea sono i disturbi di accompagnamento più comuni.

Infine, nell’89% dei casi, alcune attività possono essere segnalate immediatamente prima che si verifichi un attacco. Lo sforzo fisico (compresa l’attività sessuale) è l’evento precipitante più comune, seguito da stress emotivo e sbalzi di temperatura.

Hodges e Warlow hanno eseguito scansioni di tomografia computerizzata (TC) sull’83% dei casi di TGA puri nel loro studio (n=95), riscontrando piccole alterazioni della sostanza bianca, lesioni dei gangli della base o lucenze periventricolari nel 12% di questi pazienti (n= 11). Queste aree, tuttavia, non si trovano in strutture note relative alla memoria. Le prove attuali indicano la formazione della memoria precoce all’interno della rete ippocampale/corteccia entorinale e il suo eventuale trasferimento a memorie remote immagazzinate nella rete della neocorteccia. Particolare attenzione è stata data al campo cornu ammonis (CA1) dell’ippocampo, che è stato ipotizzato giocare un ruolo centrale nella fisiopatologia della TGA data la sua straordinaria sensibilità allo stress cellulare. Studi più recenti hanno riscontrato cambiamenti nell’imaging fortemente correlati al TGA utilizzando l’imaging ponderato per la diffusione della risonanza magnetica (DWI). Questi risultati sono tipicamente unilaterali e tendono ad essere piccoli (1–3 mm), focolai ad alto segnale che si trovano nel campo CA1 dell’ippocampo. Queste lesioni sono più evidenti 24–48 ore dopo l’episodio iniziale di TGA, che corrisponde al periodo di picco di attivazione per la microglia nei modelli di ictus.

In alternativa, ci sono casi di TGA con coinvolgimento ippocampale bilaterale e anche multifocale e anche casi con danno ischemico o emorragico ad altre regioni del cervello. Questi rapporti contrastanti non aiutano a chiarire l’iniziale problema neuronale nel TGA. Allo stesso modo, l’eziologia alla base del TGA rimane oscura con molteplici meccanismi proposti, come ischemia arteriosa, congestione venosa, emicrania e disturbi psicogeni.

I primi ricercatori hanno ipotizzato che eventi aterosclerotici o tromboembolici interrompano il flusso sanguigno all’ippocampo, che è fornito dall’arteria cerebrale posteriore e dalle arterie dell’ippocampo. Anche la congestione venosa e l’insufficienza della valvola della vena giugulare sono eziologie ipotizzate, dato che molti pazienti riferiscono manovre associate a Valsalva prima di un evento TGA.

Inoltre, gravi reazioni emotive ed emicranie possono contribuire alla destabilizzazione del settore CA1 dell’ippocampo attraverso il rilascio massiccio di glutammato. Le sezioni seguenti esplorano questi meccanismi postulati in modo più dettagliato.

Terapie Sessuali

Ischemia arteriosa e congestione venosa

TGA e TIA sono caratterizzati da un inizio improvviso di perdita reversibile della funzione che si verifica in pazienti all’interno di una fascia demografica simile. L’età media di esordio riportata è di 60–66 anni per TGA e 69–71 anni per TIA, con esordio modale, per entrambi, di età superiore ai 50 anni.  Nonostante queste somiglianze, l’analisi statistica ha mostrato in modo affidabile profili dei fattori di rischio aterosclerotici significativamente ridotti, inclusa una ridotta prevalenza di cardiopatia embolica, diabete mellito, ipertensione e malattia aterosclerotica dell’arteria carotidea, nei pazienti con TGA rispetto a quelli con TIA.

6I dati di coorte di popolazione hanno anche indicato in modo coerente che una storia di TGA non espone i pazienti a un rischio più elevato di eventi cerebrovascolari e, infatti, studi recenti suggeriscono una prognosi più favorevole per i pazienti con TGA rispetto ai pazienti con TIA per quanto riguarda il rischio di futuri eventi cerebrovascolari . Inoltre, un’analisi retrospettiva non ha mostrato alcun aumento del rischio di eventi cerebrovascolari futuri a seguito di un evento TGA rispetto ai controlli sani abbinati, confutando ulteriormente un’ipotesi aterosclerotica.

Diverse importanti caratteristiche cliniche della TGA argomentano inoltre contro l’ischemia arteriosa come probabile meccanismo. La durata media di un episodio di TGA supera ampiamente quella osservata in TIA, con una durata media documentata di 4-8 ore e >97% degli episodi di durata >1 ora. Nella TIA, al contrario, la stragrande maggioranza degli episodi dura meno di 60 minuti, e la maggior parte di questi dura solo pochi minuti. Inoltre, l’assenza di disfunzioni neurologiche focali associate durante l’episodio TGA, come debolezza lateralizzante e deficit del campo visivo, non è coerente con l’ipotesi ischemica, che ci si aspetterebbe in caso di un evento ischemico acuto che coinvolga neuroanatomia confinante.

La fisiopatologia alla base di eventi precipitanti e comorbidità spesso citati che accompagnano il TGA (incluse attività simili a Valsalva, tratti della personalità ansiosi e fobici, fattori di stress emotivo e immersione in acqua calda o fredda) ha supportato un meccanismo arterioso.

L’aumento dell’incidenza di TGA tra particolari tratti della personalità e la precipitazione di fattori di stress emotivi suggeriscono che la vasocostrizione cerebrale indotta dall’iperventilazione reattiva può provocare cambiamenti nell’emodinamica cerebrovascolare all’interno della regione dell’ippocampo.  La tecnologia di imaging funzionale supporta tali cambiamenti reattivi, dimostrando una relativa ipoperfusione all’interno dei lobi temporali mediali (MTL) nei pazienti con TGA. I risultati tra gli altri studi, tuttavia, sono stati incoerenti e non è chiaro se i risultati siano di natura causale o reattivi a squilibri nel metabolismo cerebrale.

La risonanza magnetica strutturale (MRI) fornisce anche supporto per un meccanismo ischemico, con DWI-MRI che mostra evidenza di iperintensità puntata dell’ippocampo laterale anormale nei pazienti con TGA. L’analisi dell’aspetto e dell’evoluzione di queste lesioni nel tempo ha mostrato somiglianze con le lesioni precedentemente descritte da danno ischemico cerebrale, con tassi di rilevamento riportati che vanno dal 57 al 100% nei pazienti con TGA. Queste lesioni coinvolgono principalmente il campo neuronale ippocampale CA1, una regione nota per essere coinvolta in modo critico nel processo di consolidamento della memoria e per essere vulnerabile allo stress.

Le lesioni associate al TGA sono state osservate in modo più affidabile 24-72 ore dopo l’esordio dei sintomi e hanno dimostrato di scomparire subito dopo. Inoltre, la durata tipica degli episodi di TGA (4-6 ore) non è coerente con questa natura ritardata e reversibile delle lesioni DWI-MRI, che quando presenti nel caso di TIA vengono rilevate molto prima e persistono più a lungo.

La congestione venosa con flusso cerebrale retrogrado è un’altra importante ipotesi per la fisiopatologia alla base del TGA. L’ attività simil-valsalva provoca un aumento transitorio della pressione intratoracica con ostruzione del ritorno venoso, con conseguente potenziale trasmissione retrograda della pressione al sistema vascolare venoso cerebrale che drena le strutture coinvolte. Altri eventi precipitanti frequentemente citati (immersione in acqua fredda, esercizio fisico e fattori di stress emotivi) sono meccanicisticamente analoghi in quanto aumentano il tono simpatico con diversione centrale del volume venoso periferico nel tentativo di preservare il flusso agli organi vitali, che allo stesso modo si traduce in elevate pressioni venose centrali . I fautori riconoscono anche l’anatomia del drenaggio venoso cerebrale come prova di supporto, poiché il deflusso venoso dalle regioni dell’ippocampo bilaterale converge verso una grande vena comune di Galeno prima di divergere successivamente alla confluenza dei seni venosi che supportano la perturbazione della funzione ippocampale bilaterale precedentemente non spiegata da ipotesi ischemiche.

Numerosi studi hanno dimostrato un aumento significativo della prevalenza dell’insufficienza della valvola venosa giugulare con flusso retrogrado della vena giugulare tra i pazienti con TGA rispetto ai controlli sani abbinati. Questa associazione è stata rilevata tramite MRI e Doppler ed è stata particolarmente comune tra i pazienti che hanno riportato un concomitante evento precipitante. Lo studio più ampio dimostra una prevalenza dell’80% di insufficienza della valvola venosa giugulare interna con flusso retrogrado tra 142 soggetti con TGA rispetto a solo il 25% tra i soggetti di controllo. Tuttavia, diversi studi recenti hanno messo in discussione il significato di questa scoperta. Uno studio che utilizza l’ecografia Doppler transcranica dei vasi intracranici per registrare la direzione e la velocità del flusso sanguigno nelle vene giugulari interne, nelle vene basali di Rosenthal e nella grande vena di Galeno ha confrontato i risultati a riposo e durante manovre simili a Valsalva. Sebbene confermi un’elevata prevalenza di insufficienza della valvola giugulare tra i pazienti con TGA, il reflusso venoso intracranico non è stato osservato nei TGA o nei soggetti di controllo. Ciò è stato confermato da uno studio che utilizzava l’angiografia con risonanza magnetica del tempo di volo per osservare il reflusso venoso giugulare anomalo all’interno del TGA e controllare i pazienti, ma allo stesso modo ha riscontrato tassi bassi in ciascun gruppo di studio (flusso intracranico retrogrado in 7/167 nel gruppo TGA, 8/167 in emergenza gruppo di controllo dei visitatori della stanza e 3/167 nel gruppo di controllo abbinato sano).

In sintesi, sebbene i risultati fisiologici suggeriscano un’associazione significativa con TGA, ci sono prove limitate per la congestione venosa come eziologia per TGA. L’evidenza attuale non è in grado di spiegare la mancanza di associazione con altre cause di congestione venosa, tra cui insufficienza cardiaca congestizia e trombosi venosa cerebrale. Non è inoltre chiaro perché tali pressioni transitorie possano indurre gli effetti di lunga durata osservati nel TGA. Ulteriori domande circondano la vera associazione con gli eventi precipitanti riportati, incluso il motivo per cui la ricorrenza degli episodi è così rara quando possono essere provocati da un’attività simile a Valsalva. È probabile che i meccanismi vascolari svolgano un ruolo nella fisiopatologia del TGA, ma il ruolo esatto resta da scoprire.

Adolescenza

Editore: Xenia, Collana: I tascabili
Anno edizione: 2004 Pagine: 128 p., Brossura
Autori: Giuliana Proietti - Walter La Gatta

Emicrania

Un’altra ipotesi è che il TGA possa essere una sequela di emicrania dovuta alla profonda depressione dell’attività cerebrale che si trova in tutta la corteccia, estendendosi attraverso l’ippocampo, portando a disfunzioni transitorie e successivamente a TGA. È questa stessa depressione corticale che si pensa dia origine all’aura che si trova nei malati di emicrania ed è causata dal rilascio di glutammato massiccio e da una successiva ondata di depolarizzazione corticale di breve durata.

Questo meccanismo è stato dimostrato in modelli animali dalla stimolazione locale dell’ippocampo: una reazione simile potrebbe essere suscitata negli esseri umani attraverso l’esperienza di forti eventi emotivi o altri stimoli intensi che portano a un ampio rilascio di glutammato dall’ippocampo. Data questa relazione tra emicrania e disfunzione ippocampale transitoria, è possibile considerare la possibilità di una relazione eziologica tra emicrania e problemi di memoria transitori mostrati dai pazienti con TGA. Tuttavia, c’è una carenza di prove a sostegno di questa teoria. Attualmente, l’evidenza a supporto di una connessione tra emicrania e TGA è principalmente associativa e la causalità non può essere stabilita con alcun livello di confidenza significativo data la natura osservativa di questi studi.

Cause psicogene

Una delle eziologie meno studiate di TGA è di origine psicogena. In questi casi, il fattore scatenante è spesso un evento emotivo o un fattore di stress psicologico. Si incontra classicamente nelle popolazioni più giovani ed è spesso associato a un’indifferenza soggettiva per la perdita di memoria sperimentata. Nella maggior parte dei casi, i deficit di memoria autobiografica, che il più delle volte sono intatti nel TGA, sono apprezzati con capacità di formazione della memoria anterograda relativamente funzionanti. Fisiologicamente, il problema sembra interrompere il circuito di apprendimento affettivo formato tra amigdala, ippocampo, striato e corteccia prefrontale. La TGA potrebbe essere vista come una malattia di insufficienza ippocampale temporanea, in cui i suoi effetti inibitori sull’amigdala vengono interrotti, il che potrebbe portare a un’interruzione nella formazione della memoria.

Altre prove suggeriscono che circa la metà dei pazienti con disturbi psicologici come eziologia precipitante del TGA aveva anche un tratto di personalità fobico associato.

L’amnesia psicogena può essere collegata a diversi disturbi psichiatrici tra cui il disturbo da stress post-traumatico e i disturbi dissociativi, in cui la perdita di memoria potrebbe essere considerata un meccanismo psicologico difensivo.

I dati raccolti da due studi geriatrici hanno utilizzato la Geriatric Depression Scale nei pazienti con TGA, dimostrando che il 40% dei pazienti con TGA aveva sintomi depressivi. Uno studio più dettagliato ha studiato i tratti della personalità fobica di 51 pazienti con TGA e ha stabilito che l’82% aveva comportamenti di evitamento patologico.

I pazienti con TGA hanno un’alta prevalenza di comorbilità di stress emotivo e tratti di personalità ansiosi. Circa un terzo degli episodi di TGA si verifica dopo stress fisico o psicologico, il che suggerisce l’interruzione della formazione della memoria a causa dell’interruzione delle catecolamine ischemica o indotta dallo stress. Ci sono alcune prove di un’associazione tra TGA e sindrome di Takotsubo. Quest’ultimo è caratterizzato da una disfunzione miocardica del ventricolo sinistro transitoria e acuta che imita l’infarto del miocardio che si verifica anche dopo stress fisico o psicologico.

La diagnosi differenziale comprende malattie strutturali (vascolari), amnesia epilettica, delirio, intossicazione, trauma cranico ed emicrania. Quando a un medico generico viene presentato un caso tipico, non sono necessari ulteriori test diagnostici, come MRI ed EEG. Questo vale anche quando un tale paziente ha fattori di rischio vascolare. Tuttavia, quando i segni neurologici focali accompagnano l’amnesia anterograda, sono giustificati il neuroimaging e il consulto neurologico. Se è interessata anche l’amnesia retrograda ed è presente stress emotivo, il medico deve considerare l’ipotesi di amnesia psicogena.

Secondo i criteri standard accettati, i deficit di TGA si risolvono entro 24 ore. Numerose ricerche sono state dedicate al profilo cognitivo dei pazienti con TGA a seguito della risoluzione dei sintomi della fase acuta; tuttavia, i risultati sono stati misti.

Una meta-analisi del 2009 ha esaminato i dati di 25 diversi studi e ha confrontato 374 soggetti TGA con 760 soggetti di controllo nei seguenti cinque domini: memoria a lungo termine con episodio anterogrado, memoria a lungo termine con episodio retrogrado, memoria a breve termine, memoria semantica ed esecutiva funzione. Oltre le prime 24 ore, non vi era alcuna differenza significativa tra pazienti e controlli in nessuno dei cinque domini per il periodo di 30 giorni dopo l’esordio del TGA. Allo stesso modo, uno studio con un periodo di follow-up mediano di 1.128 giorni non ha riscontrato differenze significative nelle prestazioni tra i pazienti con TGA e controlli sui compiti di memoria episodica, memoria semantica, memoria di lavoro, funzioni esecutive e attenzione. In alternativa, uno studio con periodi di follow-up di 4 mesi e 1 anno ha riscontrato deficit nella memoria anterograda nei soggetti TGA rispetto ai controlli; tuttavia, solo quando i dati di entrambi i periodi di follow-up sono stati raggruppati insieme. Inoltre, alla visita di follow-up di 4 mesi, punteggi più alti sulle scale di ansia e depressione erano correlati a prestazioni peggiori nei test di memoria retrograda e anterograda, rispettivamente.

Per definizione, la TGA è una condizione autolimitante che si risolve senza intervento; pertanto, non è indicato un trattamento specifico. Sebbene il decorso medio di un episodio amnestico in TGA sia di 4-6 ore, con la maggior parte che si risolve entro 8 ore, i trattamenti proposti potrebbero dipendere dalla scoperta dell’eziologia sottostante. 

Se la presentazione in TGA era secondaria a ischemia reversibile, come è stato suggerito da alcuni casi clinici che utilizzano DWI, così come altri rapporti che hanno notato l’insorgenza di episodi di TGA dopo manovre simil-Valsalva che possono ridurre temporaneamente il flusso sanguigno cerebrale, allora pu essere utile l’ottimizzazione del sistema cardiovascolare con gestione della pressione sanguigna e della frequenza cardiaca, o terapia con statine.

Alcuni studi suggeriscono un’eziologia epilettica del TGA, poiché i risultati dell’elettroencefalogramma sono stati indicativi di scariche epilettiche, ma altri studi caso-controllo non hanno trovato tale correlazione. Pertanto, i farmaci anticonvulsivanti non sarebbero un’opzione di trattamento proposta sulla base delle prove disponibili.

In conclusione, non ci sono trattamenti consolidati e basati sull’evidenza per il TGA fino ad oggi, probabilmente a causa della breve durata dei sintomi sperimentati e della mancanza di fisiopatologia universalmente accettata.

L’incidenza annuale di TGA è di 3-8 casi ogni 100.000 persone, sebbene il 6%-10% dei pazienti con TGA sperimenterà un secondo o un terzo episodio. Pertanto, sebbene possa essere difficile prevedere un episodio di TGA, potrebbe essere possibile ridurre il rischio di episodi futuri.

Dr. Giuliana Proietti


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Dr. Giuliana Proietti - Tel. 347 0375949

Fonte:
Spiegel DR, Smith J, Wade RR, et al. Transient global amnesia: current perspectives. Neuropsychiatr Dis Treat. 2017;13:2691-2703. Published 2017 Oct 24. doi:10.2147/NDT.S130710

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Smettere di fumare: un beneficio per sé e per gli altri

Smettere di fumare: un beneficio per sé e per gli altri

Saluto del CIS - Dr. Walter La Gatta

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Decidere di smettere di fumare è una scelta che porta numerosi vantaggi, non solo per la propria salute, ma anche per il benessere delle persone che si frequentano. Non solo il fumo attivo, ma anche quello passivo ha effetti negativi documentati, per cui liberarsi da questa dipendenza può innescare un effetto positivo anche per altre persone.

Quali sono i benefici personali nello smettere di fumare?

Abbandonare il fumo comporta miglioramenti significativi per la salute, perché diminuisce il rischio di sviluppare patologie cardiovascolari, respiratorie e vari tipi di cancro. Inoltre, già dopo poche settimane, la capacità polmonare aumenta, facilitando la respirazione e l’attività fisica.

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Vi sono anche benefici estetici?

Certamente: la pelle appare più luminosa, i denti meno ingialliti e l’alito migliora sensibilmente.

La decisione di smettere di fumare ha effetti benefici anche su chi ci sta vicino?

Si, in genere funziona così: in primis eliminando il fumo, si protegge la salute dei familiari, degli amici e dei colleghi dall’esposizione a sostanze nocive, ma questa scelta può anche ispirare altri fumatori a intraprendere lo stesso percorso, creando un ambiente più sano.

Come nasce questo effetto a catena?

Un fumatore è più disponibile ad abbandonare la sigaretta se lo fa il coniuge, un amico, un collega ecc. E’ provato che si tende a smettere di fumare in piccoli o grandi gruppi di persone che frequentano una determinata cerchia.

Questo vale anche per i due membri della coppia?

Si, si è visto che, se uno dei membri di una coppia smette di fumare, l’altro ha 67 possibilità in meno su 100 di continuare a fumare.

Dr. Walter La Gatta

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Fino a che punto può allargarsi questa catena di persone che smettono di fumare?

Alcune ricerche hanno mostrato effetti su persone fino a tre gradi di separazione.

Smettere di fumare fa bene anche per i propri animali domestici?

Si, smettere di fumare non è solo una scelta importante per la propria salute, ma rappresenta un atto di cura nei confronti degli animali domestici. Occorre tenere presente che il fumo passivo non colpisce solo gli esseri umani: cani, gatti e altri pet sono esposti ai suoi effetti nocivi in misura significativa, con conseguenze che possono compromettere il loro benessere a lungo termine.

Gli animali domestici, vivendo a stretto contatto con chi fuma, inalano le stesse sostanze tossiche presenti nel fumo di sigaretta. Questo può causare patologie come bronchiti croniche, asma e altre malattie respiratorie. I gatti, in particolare, sono più vulnerabili perché le particelle di fumo si depositano sul loro pelo e vengono ingerite durante la pulizia.

L’esposizione al fumo passivo è stata associata a un maggiore rischio di tumori polmonari nei cani, soprattutto nelle razze con naso lungo, e di linfoma nei gatti. Gli animali sono meno resistenti a queste sostanze tossiche, poiché hanno un sistema immunitario meno preparato a contrastarle.

Oltre al fumo, anche i mozziconi di sigaretta rappresentano un pericolo per i pet?

Si, visto che possono essere ingeriti, causando intossicazione acuta e problemi gastrointestinali.

Dr. Walter La Gatta


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