Gli animali provano l'orgasmo?

Gli animali provano l’orgasmo?

GLI ANIMALI PROVANO L’ORGASMO?

Relazione sulla Terapia di Coppia dopo un Tradimento - Festival della Coppia 2023

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La scienza ha studiato l’orgasmo negli animali?

L’unica attenzione riservata al piacere sessuale degli animali è tutta concentrata nella teriogenologia, la scienza della riproduzione animale. Si tratta di una cospicua letteratura sulla inseminazione artificiale, pubblicata su riviste veterinarie.

In questi testi si parla di “libido” negli animali (maschi), ma solo perché si è interessati a conoscere le tecniche per stimolare sessualmente gli animali e portarli all’eiaculazione, la quale servirà poi per l’inseminazione artificiale delle femmine della stessa specie.

Le ricerche per comprendere se e come gli animali arrivano al piacere sono veramente poche, anche perché non è un argomento facile da studiare.

A differenza degli esseri umani, infatti, gli animali non possono descrivere i loro orgasmi, quindi è difficile capire se essi li provino davvero, e in che modo.

L’eiaculazione maschile fa supporre che i maschi provino l’orgasmo?

Si. In genere si ritiene che i maschi provino effettivamente l’orgasmo, perché è possibile osservare la loro eiaculazione (la quale tuttavia potrebbe anche avvenire senza orgasmo, non si può sapere…).

IPNOSI CLINICA: una intervista al Dr. Walter La Gatta

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… E le femmine?

La questione dell’orgasmo femminile animale è ancora poco documentata, anche se si sa che tutti i mammiferi di sesso femminile posseggono il clitoride, ovvero l’organo principale per l’orgasmo nella donna.

Per quale ragione fanno sesso gli animali?

Sicuramente non fanno sesso perché desiderano avere dei figli, in quanto non sono in grado di comprendere questo passaggio. Essi si accoppiano seguendo il solo istinto del piacere, cercando una ricompensa immediata. Questo fa dunque pensare che la gratificazione ottenuta sia abbastanza forte, tanto da compensare il dispendio di energia e il pericolo di subire lesioni  o difficoltà durante il corteggiamento, ad esempio nell’affrontare le lotte con altri soggetti per la conquista della femmina, oppure nell’esporsi in situazioni rischiose, divenendo facile oggetto di caccia dei predatori, che potrebbero attaccare l’animale mentre è coinvolto in un rapporto sessuale.

Gli animali fanno sesso, per istinto, solo nei periodi fecondi?

No. E’ un’idea sbagliata, anche se piuttosto comune, che gli animali facciano sesso solo in coppie eterosessuali e solo quando la femmina è fertile.

I bonobo sono stati i primi a dimostrare questo errore, ma sono tutt’altro che gli unici a farlo. Gli accoppiamenti omosessuali sono la norma in alcuni animali, tra cui leoni maschi e delfini. Entrambi i sessi di molti primati, cercano sia maschi, sia femmine per gli incontri sessuali e fanno sesso anche quando non sono in grado di riprodursi, come durante una gravidanza.
Questi comportamenti mostrano che il sesso serve a qualcosa di più che a un semplice scopo riproduttivo.

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Che tipo di ricerche sono state fin qui condotte sugli animali?

Gli scienziati hanno potuto dedurre che gli animali – per lo più i primati – provino l’orgasmo, attraverso la registrazione di aspetti fisiologici o comportamentali , come le contrazioni muscolari o i cambiamenti di vocalizzazione.

Gli studi sessuologici sui primati sono stati condotti principalmente sui macachi, specie di scimmie spesso usate a fini di ricerca, in quanto geneticamente simili agli esseri umani e con sistemi riproduttivi non dissimili dai nostri.

Secondo lo psichiatra Alfonso Troisi,  che ha studiato l’orgasmo femminile sui macachi giapponesi, questi animali sono più facili da studiare in laboratorio rispetto ai gorilla o agli scimpanzé, perché i macachi tendono ad avere accoppiamenti più lunghi di altre specie di primati, come ad esempio i gorilla, il che è un vantaggio se si vuole osservare il loro comportamento di accoppiamento .

In uno studio del 1998, Troisi  e il suo co-autore scrissero che ” In particolari circostanze, le femmine dei primati possono provare l’orgasmo “. Sono state osservate tuttavia numerose differenze individuali e si è scoperto che il livello di posizione dominante del macaco maschio potrebbe avere un ruolo non secondario in fase di accoppiamento.  E’ certo inoltre, in quanto lo hanno dichiarato alla stampa questi ricercatori, che in laboratorio, attraverso la stimolazione artificiale, è stato possibile ottenere l’orgasmo femminile in quasi tutte le specie di primati.

Presso l’Institute for Primate Studies di Norman, Oklahoma, lo psicologo William Lemmon e il suo assistente Mel Allen, hanno scoperto che ” lo scimpanzé femmina manifesta la maggior parte, se non tutti, gli indici di eccitazione sessuale e di orgasmo che si verificano nelle donne”.

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In un loro studio del 1981 si legge che:

Le risposte sessuali rilevate includono secrezione di trasudato, tumescenza del clitoride, ispessimento ed espansione vaginale, iperventilazione, tensione muscolare involontaria, spasmi alle braccia e alle gambe,  espressioni facciali particolari (ad esempio: leggero ghigno aperto, leggero ghigno chiuso, eversione delle labbra, protrusione della lingua ) e vocalizzazione ansimante .

Allen ha stimolato manualmente i clitoridi e le vagine di scimpanzé di sesso femminile per scrivere la sua tesi di Master presso l’Università dell’Oklahoma , dal titolo  “Sexual response and orgasm in the female chimpanzee (Pan troglodytes).  Allen e Lemmon hanno scritto in uno studio successivo che:

La maggior parte di queste femmine hanno permesso che la stimolazione continuasse fino all’eccitazione sessuale. Una di esse ha permesso che la stimolazione continuasse fino a raggiungere l’orgasmo in dieci occasioni diverse.

Precisamente, il numero medio di ” spinte digitali ” richieste ( eseguite ” ad una velocità di circa 1-2 al secondo ” ) prima della comparsa delle contrazioni del muscolo vaginale sono state 20,3 .

L’antropologa Suzanne Chevalier – Skolnikoff , che lavora presso la Stanford University, nel 1974 , scrivendo su incontri omosessuali tra macachi femmine,  ha così descritto la situazione:

Nelle tre occasioni registrate , il montatore-femmina ha mostrato tutte le manifestazioni comportamentali di orgasmo generalmente visualizzate nei maschi: una pausa seguita da spasmi muscolari del corpo, accompagnati dalla caratteristica espressione dello sguardo fisso, la bocca aperta, la vocalizzazione ritmica.

(Vedi illustrazione nella pagina, tratta da Stumptail Monkey Orgasms, Suzanne Chevalier-Skolnikoff, Archives of Sexual Behavior, 1974)

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E’ così anche per le altre specie?

Fra gli uccelli, il tessitore dei bufali beccorosso (Bubalornis niger) è l’unica specie che esibisce, secondo Tim Birkhead,  professore nel Dipartimento di Animal and Plant Sciences della Sheffield University, un comportamento orgasmico. Birkhead ha passato anni osservando il comportamento di questi uccelli, culminato con uno studio pubblicato nel 2001.

Questo tipo di uccello, originario dell’Africa sub-sahariana , ha un pene finto, nel senso che non ha dotti spermatici e il suo pene non diventa eretto, ma quando Birkhead ed i suoi colleghi hanno stimolato manualmente questo organo, l’uccello ha mostrato quello che è sembrato essere un orgasmo: ha mosso convulsivamente le ali e avvicinato i piedi. Questo non significa che abbia provato l’orgasmo e futuri studi potranno spiegare meglio questi comportamenti.

Quanto ai delfini, Tadamichi Morisaka , un assistente presso il Wildlife Research Center della Kyoto University, sostiene che i delfini si impegnino soprattutto in comportamenti masturbatori senza eiaculazione e lo fanno ” molto spesso”, in particolare tra maschi. Tuttavia, sostiene lo scienziato, “non abbiamo idea se i delfini provino o meno l’orgasmo , perché non esiste uno studio per misurare la loro risposta cerebrale durante l’attività sessuale”.

Morisaka tuttavia ha effettivamente osservato e documentato in un video una eiaculazione spontanea (mai registrata in un delfino) , che ha pubblicato anche in uno studio su PLoS ONE . (Nello studio si dice che eiaculazioni spontanee sono state finora registrate nei ratti, nei gatti domestici , nei facoceri , nei cavalli e negli scimpanzé).

Perché le ricerche sull’argomento sono così poche?

Il ricercatore italiano Troisi sostiene che gli anni Settanta e Ottanta siano stati gli anni d’oro per la ricerca sui primati e sull’etologia animale: al giorno d’oggi ci sono pochi soldi in giro (anche negli Stati Uniti) e i ricercatori in questo campo sono senza fondi, anche per l’opposizione dei gruppi animalisti. Inoltre, gli animali andrebbero studiati nel loro habitat, il che comporta qualche difficoltà.

Le stimolazioni degli organi genitali degli animali a fine di ricerca sono considerate etiche?

No, il tipo di studi sugli animali approvati negli anni ’70 e ’80 non sarebbero più accettati al giorno d’oggi. Stimolare una scimmia con un dildo, ad esempio, oggi non sarebbe permesso.

Dr. Walter La Gatta



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Orgasmo nel gatto. Guarda altre espressioni animali durante quello che si ritiene essere un orgasmo. BBC

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Scienza e sacrifici animali

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La sperimentazione animale è da decenni uno dei temi più controversi nel dibattito tra scienza, etica e opinione pubblica. Da un lato, l’utilizzo di animali nella ricerca biomedica ha contribuito a importanti scoperte, dallo sviluppo dei vaccini alla comprensione delle malattie neurodegenerative. Dall’altro, si sollevano interrogativi profondi sulla sofferenza inflitta, sul valore della vita animale e sulla necessità di metodi alternativi. Cerchiamo di saperne di più.

Perché si usano ancora gli animali nella ricerca scientifica?

Gli animali vengono utilizzati nella ricerca scientifica per studiare i meccanismi biologici, testare l’efficacia e la sicurezza di nuovi farmaci, comprendere l’evoluzione di malattie complesse o valutare gli effetti di sostanze chimiche. I modelli animali – in particolare roditori come topi e ratti – sono scelti per la loro somiglianza genetica con l’essere umano, la riproducibilità dei risultati e la possibilità di controllare l’ambiente sperimentale.

Senza questi modelli, molti progressi in medicina – come i trapianti, le terapie contro il cancro o i vaccini per poliomielite e COVID-19 – non sarebbero stati possibili.

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È giusto sacrificare animali per curare gli esseri umani?

Non esiste una risposta univoca. Alcuni sostengono che il fine – salvare vite umane – giustifichi il mezzo. Altri sottolineano che infliggere sofferenza a esseri senzienti, anche a scopo medico, richiede profonde riflessioni morali, soprattutto se si mette in discussione l’idea che la vita umana abbia sempre più valore di quella animale (Shanks & Green, 2004).

Chi decide quando è “accettabile” infliggere sofferenza? E qual è la linea tra necessità e abuso?

Per rispondere a questi dilemmi, negli anni sono state introdotte norme sempre più stringenti. La Direttiva 2010/63/UE dell’Unione Europea, ad esempio, stabilisce che gli animali possono essere utilizzati solo se non esistono metodi alternativi validi, e impone che la sofferenza sia ridotta al minimo, favorendo anestesia, analgesia e cure post-sperimentali.

Cosa cambia se la sperimentazione riguarda cosmetici o prodotti voluttuari?

In questi casi l’uso degli animali è ritenuto da molti ancora meno giustificabile: è etico provocare dolore per motivi di bellezza o lusso? La sensibilità pubblica e le normative in molti Paesi hanno già vietato i test cosmetici su animali.

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Esistono regole per ridurre la sofferenza animale nella ricerca?

Sì. Charles Hume già nel 1954 propose i principi delle 3R:
– Replacement (sostituzione),
– Reduction (riduzione)
– Refinement (miglioramento).

Da allora sono nate istituzioni internazionali che promuovono metodi alternativi, come il NC3R e l’ECVAM.

Quanti animali vengono usati oggi nella ricerca?

Si stima che ogni anno vengano impiegati circa 115 milioni di animali a livello globale. I roditori (topi e ratti) rappresentano il 95% del totale, mentre i primati meno dello 0,5% (Taylor et al., 2008).

Gli animali sono sempre un buon modello per l’essere umano?
Non sempre. Secondo Aysha Akhtar (2015), molti esperimenti animali non sono predittivi per l’uomo. Diversi studi e meta-analisi mostrano limiti significativi nella trasposizione dei risultati dall’animale all’essere umano.

La tecnologia offre alternative alla sperimentazione animale?

Negli ultimi anni sono emerse tecnologie promettenti che potrebbero ridurre – e in alcuni casi eliminare – la necessità di test sugli animali:

  • Modelli in vitro: cellule umane coltivate in laboratorio, spesso combinate in organoidi tridimensionali che simulano il funzionamento di organi reali.
  • Modelli computazionali (in silico): simulazioni digitali di processi biologici e farmacologici.
  • Microchip e organ-on-a-chip: dispositivi che mimano la fisiologia umana su scala microscopica.
  • Metodi basati su intelligenza artificiale: per prevedere la tossicità o l’efficacia di farmaci.

Tuttavia, per ora, nessuna alternativa è ancora in grado di replicare completamente la complessità di un organismo vivente. (Ekins et al., 2007).

Queste tecniche non comportano sofferenza animale?

Alcune, purtroppo, sì. Ad esempio, molte colture cellulari usano siero fetale di vitello (FCS), ottenuto in modo traumatico da feti bovini. Tuttavia, oggi si stanno sviluppando metodi di coltura alternativi privi di FCS.

Esistono metodi non invasivi direttamente sull’essere umano?

Sì. Tecniche come la risonanza magnetica (MRI), la tomografia a emissione di positroni (PET) e il microdosaggio permettono di studiare il corpo umano in modo sicuro e senza danni significativi (Wilding & Bell, 2005).


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I tessuti umani possono essere utilizzati per la ricerca?

Sì. Tessuti ottenuti da autopsie, biopsie, trapianti o interventi chirurgici sono risorse preziose per studiare malattie e testare farmaci. Sono già stati creati modelli di pelle e occhi umani per sostituire test animali dolorosi.

Cosa si prevede per il futuro?

La direzione è chiara: la scienza si sta muovendo verso una riduzione dell’impiego di animali, sia per motivi etici che per motivi scientifici. Sempre più studi mostrano che i modelli animali non sempre predicono con accuratezza ciò che accade nell’essere umano, e che i metodi alternativi potrebbero fornire risposte più affidabili in alcune aree.

Tuttavia, nel breve termine, la sperimentazione animale continua ad avere un ruolo centrale in molti ambiti della ricerca biomedica. Il compito delle istituzioni scientifiche è allora duplice: garantire la massima trasparenza, e investire in tecnologie che riducano la dipendenza da modelli animali.

Fonte principale:

Reduction of Animal Sacrifice in Biomedical Science & Research through Alternative Design of Animal Experiments, lJagdish Rai, Kuldeep Kaushik, Saudi Pharmaceutical Journal Volume 26, Issue 6, September 2018, Pages 896-902

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La psicologia ci insegna a vivere bene

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Relazione sulle Coppie Non Monogamiche

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Non esiste, purtroppo, alcuna formula o guida che ci conduca alla felicità e al completo benessere, sebbene gli esseri umani abbiano provato a rispondere ai principali quesiti esistenziali tramite la filosofia, la religione e la scienza.

Qualche anno fa gli psicologi Nansook Park e Christopher Peterson della University of Michigan si sono chiesti: “Cosa significa vivere bene e come possiamo raggiungere tale obiettivo?” Nel loro articolo, gli autori hanno esaminato i vari modi in cui la psicologia ha effettivamente contribuito a migliorare la vita delle persone.

La psicologia, sostengono gli autori, ci ha finora insegnato che, per rendere la vita più felice, basta questo:

  •  l’esperienza di sensazioni positive in numero superiore a quelle negative,
  •  la sensazione che la propria vita sia ben vissuta,
  •  che possano essere utilizzati i propri talenti e punti di forza,
  •  l’avere amici su cui contare,
  •  l’avere un lavoro
  •  lo svolgere altre attività che facciano sentire la persona parte della propria comunità,
  •  il pensare che la vita abbia un significato
  •  il sentirsi al sicuro e in buona salute

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Più recentemente, Shawn Achor, che ha trascorso 12 anni a Harvard e che uno dei principali ricercatori sul legame fra felicità e successo, ha pubblicato un libro, The Happiness Advantage, in cui identifica sette principi specifici della psicologia positiva, supportati da ricerche approfondite, che possono aiutare a migliorare la vita.

Eccoli:

1: La felicità deve venire prima del successo
La felicità genera successo: è molto probabile che le persone che sono felici sul lavoro siano più produttive, mostrino capacità di leadership e abbiano valutazioni delle prestazioni più elevate rispetto ai loro pari con atteggiamento negativo. È anche molto meno probabile che queste persone si prendano giorni di riposo per malattia o siano stressate e questo permette migliori possibilità di successo sul posto di lavoro.

2: La psicologia positiva è uno strumento potente
Le ricerche della psicologia positiva possono essere utilizzate per migliorarsi la vita. Tra esse ricordiamo le principali:
– Trascorrere cinque minuti al giorno, concentrandosi sul respiro
– Fare cinque cose gentili alla settimana, rivolte alle altre persone
– Guardare ogni giorno le foto delle persone care anche se sono lontane
– Spendere i soldi in esperienze e non in beni materiali
– Usare i propri punti di forza in modo attivo

3: Pensare positivo
Insegnare alla propria mente come concentrarsi sul positivo, il che aiuta a cambiare atteggiamenti e visione del mondo. Se non ci si riesce, scrivere un diario in cui ogni giorno vengono riportate tre cose positive accadute.


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4: Cambiare la percezione di una situazione critica
Usare “Il modello ABCD”.
A = Avversità. Cosa è successo?
B = (Believe in inglese) Credenza. Come hai reagito all’evento e come potrebbe cambiare il tuo futuro?
C = Conseguenza. I risultati effettivi dell’evento, sono una tantum o avranno effetti di lunga portata?
D = Disputa. È qui che scegli l’obiettivo attraverso il quale guardare l’evento: interrogarsi, esaminare le convinzioni pessimistiche, cercando di capire se ci sono altri modi per guardare a questo evento.

5: Quando la vita ti dà i limoni… Dividili in fette più piccole
Per cambiare la propria vita in modo significativo, farlo gradualmente, un passo alla volta. Se ci sono cose che non possono essere controllate, lasciarle andare, se possono essere controllate, impegnarsi per farlo, un poco alla volta, a piccoli passi.

6: “La regola dei 20 secondi”
Per evitare una cattiva abitudine, tenere l’oggetto che porta al comportamento dannoso (telecomando della TV, una bottiglia di alcol, un pacchetto di sigarette) a più di 20 secondi di distanza, per non cadere facilmente in tentazione.

Una intervista sulla Eiaculazione Precoce

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7: Investire nella propria  cerchia sociale
Cercare sempre il contatto visivo con le persone, salutare sempre per primi e non rinunciare a occasioni in cui si possono conoscere persone nuove per allargare la propria rete sociale.

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L'essere umano, l'arte, la nudità

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Il nudo è uno dei generi ufficialmente definiti per la descrizione delle opere d’arte conservate nei musei. Secondo la definizione più rigorosa, un nudo è la rappresentazione di un corpo umano completamente scoperto e pienamente rappresentato ( “nudità completa” ), ad esclusione di qualsiasi altra cosa.

Si parla di nudo anche quando le opere presentano figure totalmente o parzialmente svestite, attraverso l’uso del drappeggio, presente sin dall’antichità come processo stilistico nella rappresentazione del corpo nudo, sia per accentuare certe forme, sia per mascherare, o rappresentare un movimento.

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La nudità nell’arte, e quindi nella pittura, nella scultura e più recentemente nella fotografia e nel cinema, ha generalmente riflesso gli standard sociali del tempo in termini di estetica e moralità. In tutte le epoche, il corpo umano è stato uno dei principali soggetti di ispirazione per gli artisti, tanto che lo ritroviamo anche nei dipinti dell’epoca preistorica.

Si pensi alla minuscola statuetta, probabilmente progettata per essere tenuta in mano, popolarmente chiamata la Venere di Willendorfe, raffigurante una donna corpulenta, forse un simbolo di fertilità, il cui viso e altri dettagli sono ridotti al minimo mentre il seno, la pancia e il sesso sono accentuati. Per gli uomini, il pene è il più delle volte indicato da una linea, anche se ci sono anche figure con un fallo prominente che richiama sempre i simboli di fecondità (30-25.000 a.C. )

Nell’antica Grecia possiamo trovare molte raffigurazioni di atleti e concorrenti delle gare antiche e delle Olimpiadi, in quanto la nudità era accettata nel contesto del bagno pubblico o dell’atletica: gli atleti gareggiavano comunemente nudi.

Il nudo maschile nell’arte greca, tuttavia, rappresenta spesso una figura di proporzioni ideali, usata sia come modo di commemorare persone reali, ma anche come rappresentazione di divinità ed eroi mitici divini (l’ideale eroico nudo). Le statue Kouroi maschili e le Korai  femminili esistono in Grecia dal 625 a.C. circa: erano statue funerarie o votive, solo che quelle maschili erano nude, mentre quelle femminili erano vestite.

Una lezione divulgativa su Freud e il suo libro "Totem e Tabù"

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Come si vede, sin dall’inizio della civiltà occidentale il maschio nudo e la femmina nuda sono trattati in modo molto diverso e hanno ruoli diversi da interpretare. Il radicato omoerotismo dell’antica società greca ha chiaramente molto a che fare con la preminenza dell’eroico nudo maschile. Intorno al IV secolo a.C., Prassitele e altri scultori iniziarono a raffigurare donne nude, in particolare la dea dell’amore, Afrodite, ma queste raffigurazioni venivano considerate più indecorose.

L’ arte dell’antica Roma non solo riconosceva la qualità della scultura greca, ma la moda del nudo si sviluppò anche in Italia, creando un enorme mercato di copie, a scopo “decorativo”, realizzate in tutto il bacino del Mediterraneo, da botteghe ellenistiche grazie alle quali l’antica statuaria greca fu così preservata.

Dopo l’ascesa del cristianesimo, la rappresentazione dei nudi in occidente diminuì drasticamente. Praticamente l’unica nudità consentita per secoli, infatti, era nell’arte religiosa, con raffigurazioni dipinte e scolpite di Adamo ed Eva (sebbene spesso drappeggiate con discrezione) e in alcune scene del Giudizio Universale. La nudità era usata in quest’arte con un significato di vergogna.

Lo stile gotico segnò un boom di ornamenti e rappresentazioni degli inferi sui timpani delle chiese: troviamo spesso figure nude, i cui genitali sono divorati da grifoni, serpenti, scorpioni.

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Il Rinascimento italiano introdusse lo spirito razionalista. Secondo Leon Battista Alberti , la bellezza era “una sorta di armonia e accordo tra tutte le parti che formano un tutto costruito secondo un numero fisso, una certa relazione, un certo ordine … “

La nuova cultura rinascimentale, umanista, più antropocentrica, favorì il ritorno del nudo nell’arte, generalmente basata su temi mitologici o storici, anche religiosi, con connotazioni di eroismo e di virtù. Uno degli studi anatomici più famosi è l’ Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci.

Dopo il 1563 il nudo in generale fu bandito con molti altri soggetti nei luoghi di culto cattolici dal movimento della Controriforma I nudi di Michelangelo nella Cappella Sistina furono così ritoccati con foglie di fico, o lunghi capelli sui nudi femminili.

Ciò non proibì a persone, come i Medici o i Borghese, aristocratici o uomini di Chiesa, di ordinare per i loro appartamenti privati ​​tali soggetti mitologici che giustificavano l’uso della figura nuda. Questa fu l’occasione, per gli scultori come per i pittori, di confrontarsi con questo soggetto che non solo presentava difficoltà nella padronanza della rappresentazione dell’anatomia, ma permetteva anche di creare un’immagine della Bellezza, in quanto ideale.


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Nel XV secolo, il disegno dal vero divenne parte della pratica di laboratorio, alla ricerca del nudo idealizzato; in molti casi tuttavia le modelle spesso non erano autentiche: in posa c’erano dei corpi maschili, che poi l’artista modificava.

Altri artisti italiani come Tiziano iniziarono a raffigurare nudi femminili nel XVI secolo, a volte usandoli come evocazione di un’età dell’oro perduta, in cui il paesaggio divenne molto più importante che nei dipinti precedenti. È in questo periodo che iniziarono le prime Accademie d’Arte in Italia. Non è chiaro se in queste accademie si usassero i modelli femminili, ma i nudi divennero sempre più sensuali, anche se ancora idealizzati.

Con il XVII secolo si iniziò a vedere una rappresentazione un po’ più naturalistica del nudo, in dipinti barocchi come Susanna e gli anziani di Artemisia Gentileschi , o (più nota) l’arte del Caravaggio; qui la sensuale nudità maschile viene alla ribalta, in dipinti come L’Amore Vittorioso (nella illustrazione).

Nella scultura, Bernini creò opere di nudo altamente drammatiche come il suo David, mentre Rubens fu forse l’artista più importante per la raffigurazione della donna nuda nel XVII secolo. Ammirava l’arte antica e il Rinascimento italiano, ma i suoi nudi, sebbene altamente sensuali, sono molto più naturalistici e abbondantemente dotati rispetto alle loro controparti italiane, ancora abbastanza idealizzate. I temi principali erano ancora i dipinti storici, raffiguranti soggetti mitologici e biblici.

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Nel XVIII secolo, il nudo iniziò a essere raffigurato in un ambiente più frivolo da artisti rococò come Boucher, artista favorito di Mme de Pompadour, l’amante di Luigi XV. In totale contraddizione con le correnti precedenti, questo periodo è caratterizzato dall’evidenziazione di scene private prevalentemente femminili e molto spesso erotiche. Watteau dipinge una signora che si fa il bagno, François Boucher non esita a dipingere nuda una delle cortigiane di Luigi XV , o ad usare la propria moglie come modello della sua Odalisca.

Sembra chiaro che questi pittori usassero abitualmente modelli femminili per i loro nudi di donna, ma le grandi Accademie come l’Académie Royale francese continuarono a privilegiare i maschi fino al XIX secolo. È interessante notare che modelli femminili venivano abitualmente utilizzati nelle piccole Accademie fondate in Gran Bretagna prima della nascita della Royal Academy nel 1768.

Con il progredire del XIX secolo e l’ascesa della pittura francese, il nudo femminile divenne preminente anche nell’arte francese, sia nella pittura e scultura accademica che in opere ribelli come quella dell’artista realista Courbet, L’origine del mondo. La pittura romantica, reazione del sentimento contro la ragione , è caratterizzata da uno spiccato gusto per la drammatizzazione. I pittori non esitano più a mostrare la realtà, per quanto violenta possa essere. La pittura romantica è anche caratterizzata dall’arrivo dell’esotismo nei costumi occidentali,  i nudi esprimono sensualità e talvolta anche sessualità.

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Nella famigerata Olimpia di Manet (1863), l’uso deliberato della nudità per scioccare piuttosto che per idealizzare e solleticare, cominciò a farsi strada.  Manet mette la sua modella in una posa deliberatamente evocativa della Venere di Urbino di Tiziano, ma Olympia, che ha il volto e il corpo della modella e a sua volta pittrice Victorine Meurent,  è su un letto disfatto, ornata solo da un bracciale d’oro e da un sottile collarino di velluto con una perla a goccia, con una ciabattina ciondolante sul piede sinistro, mentre guarda direttamente verso l’osservatore, con espressione sfacciata.

Vicini alle preoccupazioni sociali del loro tempo, i pittori realisti prediligevano studi di nudi femminili sul posto, in situazioni quotidiane, prendendo le modelle dalle classi sociali inferiori: prostitute o amanti perché fino a quel momento, i modelli di nudi accademici erano ancora sempre maschi.

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In questo periodo cominciò ad essere usata anche la fotografia: si sa che Delacroix iniziò a usare le fotografie, ma la fotografia fu utilizzata anche come pornografia fin dai suoi primi inizi, mentre l’arte diventava sempre più lontana dal canone idealizzato delle Accademie.

Nel periodo dell’impressionismo, il nudo femminile continuava ad essere molto popolare. I nudi di Renoir, con la loro sensualità lucente e satinata, sembrano infatti ravvivare lo spirito di Rubens, ma venivano raffigurati negli ambienti della vita moderna tanto amati dagli impressionisti, piuttosto che come figure di storie mitologiche. Degas ha una visione un po’ meno sentimentale dei suoi nudi, spesso raffigurandoli in un ambiente davvero molto umile. Alcuni post-impressionisti, come Matisse nella sua Joie de Vivre, hanno cercato di unire una rinascita di temi classicizzanti come ambientazione per i loro nudi, con l’uso di nuove tecniche e colori.

Con  le Demoiselles d’Avignon (1907) di Picasso , invece, assistiamo di nuovo a un deliberato sovvertimento della tradizione idealizzante classica del nudo femminile. L’artista raffigura quattro prostitute, disegnate con contorni quasi cubisti e innaturali, in pose provocatorie e con indosso i volti di antiche sculture iberiche e grottesche maschere africane, incorniciate da un impassibile malloppo classicizzante di panneggi. Nella sua carriera, Picasso ritornò spesso alle tradizioni classiche e rinascimentali del nudo, con le sue associazioni con un’età dell’oro passata.

In effetti, la storia del nudo nell’arte occidentale sembra spesso essere un dialogo ricorrente – a volte intimo, a volte abusivo – con l’arte classica, quando il nudo era il modo naturale di essere per la rappresentazione della figura umana da parte degli artisti.

Nell’arte contemporanea, con la nostra conoscenza moderna della psicologia freudiana delle pulsioni sessuali sommerse, le raffigurazioni della nudità sembrano sempre più spesso voler annullare deliberatamente la linea sottile tra arte e pornografia. I disegni di Egon Schiele abitano spesso questo territorio. Lucien Freud, uno dei più importanti pittori britannici di nudo, con la sua spietata mancanza di idealizzazione dei corpi dei suoi soggetti spesso accentua la loro vulnerabilità, la loro animalità.

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Diego Velázquez, Venere e Cupido (1648 circa); olio su tela, 122,5×175 cm, National Gallery, Londra

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La Francia: un Paese triste. E gli altri stati europei?

La Francia: un Paese triste. E gli altri stati europei?

La Francia: un Paese triste?

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La Francia, un tempo famosa per la sua joie de vivre da tempo sembra soffrire di depressione diffusa. Già nel 2013 una ricerca di un’ accademica francese, Claudia Senik, professoressa presso la Paris School of Economics, suggeriva che i cittadini francesi erano tristi.

Nello studio osservava che i francesi erano paradossalmente tristi, nonostante un generoso stato sociale, l’accesso universale e gratuito all’assistenza sanitaria, agli ospedali, alle scuole pubbliche e alle università,  una settimana lavorativa di 35 ore, molti cittadini stranieri che aspiravano alla cittadinanza e 150.000 britannici che avevano scelto di viverci.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità osservava, nello stesso periodo, che il tasso di suicidio in Francia era molto più alto che in qualsiasi altro “vecchio Paese europeo”, ad eccezione della Finlandia. Il suicidio era, in Francia, la seconda causa di mortalità tra i 15 e i 44 anni dopo gli incidenti stradali, e la principale tra i 30 e i 39 anni.

Dopo aver analizzato i dati sulla soddisfazione di vita, la Senik scoprì che i francesi che vivevano in altri paesi riportavano comunque livelli di felicità inferiori rispetto ai nativi, mentre gli immigrati che si trasferivano in Francia erano più felici della popolazione autoctona. Tuttavia, più a lungo gli immigrati vivevano in Francia e si integravano nella società, meno dichiaravano di essere felici.

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Potrebbe esserci qualcosa nella cultura che rende infelici i francesi?

Questo si domandò la Senik oltre dieci anni fa, ma scartò l’ipotesi, riscontrando che i francofoni in Svizzera o in Canada erano felici quanto le persone di altre comunità. Il paradosso rimase dunque inspiegato.

Le cose in Francia sono migliorate?

Non sembra. Da poco è stato pubblicato un nuovo rapporto francese che comunque si riferisce al periodo pre-pandemia.  Analizzando i livelli di depressione in Europa, con particolare attenzione ai giovani e agli anziani, i risultati hanno posto nuovamente la Francia in cima alla classifica europea per prevalenza depressiva.

Secondo l’analisi condotta da DREES, l’organo statistico dei ministeri francesi della salute e del sociale, la Francia presentava nel 2019 un tasso di depressione dell’11% — il più alto tra tutti i Paesi europei analizzati prima dell’emergenza COVID-19.

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I dati provengono dall’European Health Interview Survey, un’indagine svolta ogni sei anni su un campione di circa 300.000 persone nei paesi dell’Unione Europea, in Norvegia, Islanda e Serbia. La misurazione della depressione si è basata su otto domande tratte dal Patient Health Questionnaire, uno strumento validato in ambito clinico.

La pandemia ha influito sull’aumento dei disturbi mentali?

Sì, diversi studi successivi alla pandemia mostrano un aggravamento della crisi di salute mentale, in particolare tra i giovani. Il nuovo rapporto DREES, pur basandosi su dati pre-pandemici, fa da importante punto di riferimento per osservare l’evoluzione della depressione nel tempo.

Quali fasce d’età sono state maggiormente analizzate?

Il focus è stato posto sui giovani tra i 15 e i 24 anni e sugli anziani sopra i 70. Le due categorie mostrano tendenze molto differenti a seconda delle aree geografiche europee.

Cosa succede tra gli anziani nei paesi dell’Europa meridionale e orientale?

Nei Paesi dell’Europa meridionale ed orientale la depressione è più comune tra le persone anziane. In Portogallo, Romania e Croazia, ad esempio, oltre il 15% degli anziani ha riportato sintomi depressivi. Il dato è spesso associato a condizioni di salute precarie, isolamento sociale o vedovanza.

Cosa dicono i dati sulla salute fisica e la depressione negli anziani?

Lo studio evidenzia un legame diretto tra cattiva salute fisica e depressione. In Croazia e Lettonia, dove circa il 40% degli anziani segnala uno stato di salute negativo, i tassi di depressione raggiungono rispettivamente il 16% e il 9%.

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Ci sono differenze di genere?

Sì. Le donne anziane risultano più depresse rispetto agli uomini della stessa fascia d’età. Anche tra i giovani, le ragazze sembrano essere più vulnerabili, con fattori aggravanti legati all’immagine corporea e all’uso dei social media.

E tra i giovani europei? Dove si registrano i tassi più alti di depressione?

I giovani più depressi si trovano nei Paesi del Nord Europa — in particolare Danimarca, Svezia e Finlandia — seguiti dai Paesi dell’Europa occidentale. Nei Paesi dell’Est e del Sud Europa, invece, la depressione giovanile è meno diffusa.

Cosa potrebbe spiegare questa tendenza geografica inversa tra giovani e anziani?

Secondo Lisa Troy, autrice del rapporto, è sorprendente notare come nei Paesi del Sud e dell’Est Europa i giovani mostrino bassi livelli di depressione, mentre gli anziani ne soffrono di più. Al contrario, nel Nord Europa i giovani sono molto più colpiti rispetto agli anziani. In alcune nazioni settentrionali, la depressione tende addirittura a diminuire con l’età.

Quali sono i fattori di rischio principali per la depressione nei giovani?

Lo studio indica che i giovani maggiormente colpiti sono quelli isolati socialmente, senza un’attività lavorativa o scolastica, e con un reddito basso. Inoltre, la presenza di problemi di salute fisica aumenta il rischio depressivo di circa 32 punti percentuali.

I social media giocano un ruolo?

Sì, secondo Jocelyne Caboche, neurobiologa del CNRS (Francia), i social possono amplificare il malessere attraverso confronti sociali negativi, pressione sull’immagine corporea, riduzione del sonno e cyberbullismo, in particolare tra le ragazze.

Cosa suggerisce il rapporto in termini di politiche pubbliche?

Caboche sottolinea che, sebbene in Francia vi sia un buon livello di assistenza sanitaria ed educativa, servono maggiori investimenti nella psichiatria e nell’innovazione terapeutica, soprattutto a beneficio della popolazione anziana.

Dr. Walter La Gatta



Fonti:
French are ‘taught to be gloomy by their culture’, The Guardian
France was the most depressed Country in Europe – Euronews 26-01-2025

Immagine:
Freepik

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