Franco Basaglia: una biografia

Franco Basaglia: una biografia

Franco Basaglia: una biografia


La conquista della libertà del malato deve coincidere con la conquista della libertà dell’ intera comunità: questo, in estrema sintesi, il pensiero rivoluzionario di Franco Basaglia, lo psichiatra cui si deve l’introduzione in Italia della legge 180 e la chiusura dei manicomi.

Nacque a Venezia, l’11 marzo 1924. Secondo di tre figli, trascorse un’adolescenza tranquilla ed agiata nel quartiere di San Polo. Dopo aver conseguito la maturità classica, si iscrisse alla facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università di Padova. In questo periodo cominciò a leggere alcuni classici della filosofia, fra i quali Husserl, Heidegger, Sartre, Merleau-Ponty.

Laureatosi nel 1949, si specializzò, nel 1953, in Malattie nervose e mentali. Lo stesso anno sposò Franca Ongaro, con la quale ebbe due figli e stabilì un’intensa collaborazione anche professionale, soprattutto nella stesura di libri e saggi.

Nel 1958 ottenne la libera docenza in Psichiatria. In quel tempo prestava la sua attività lavorativa a Padova, dove era assistente presso la Clinica di malattie nervose e mentali. Prorettore dell’ateneo padovano era all’epoca Massimo Crepet, pioniere della medicina del lavoro ed amico personale di Basaglia, che già allora veniva visto, in ambiente medico, come una ‘testa calda’ e per questo un po’ emarginato.

Nel 1961, questo stato di cose indusse Basaglia a rinunciare alla carriera universitaria e ad andare a Gorizia, dove aveva vinto un Concorso per la Direzione dell’Ospedale psichiatrico. In quella città si trasferì dunque con tutta la famiglia. L’impatto con la realtà del manicomio fu durissimo. Nel manicomio c’erano cancelli, inferriate, porte e finestre sempre chiuse; catene, lucchetti e serrature ovunque. Le terapie più comuni erano la segregazione nei letti di contenzione, la camicia di forza, il bagno freddo, l’elettroshock, la lobotomia (asportazione dei lobi parietali, cioè di una parte del cervello).

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“Un malato di mente entra nel manicomio come ‘persona’ per diventare una ‘cosa’. Il malato, prima di tutto, è una ‘persona’ e come tale deve essere considerata e curata (…) Noi siamo qui per dimenticare di essere psichiatri e per ricordare di essere persone” – ripeteva il nuovo Direttore ai medici ed agli infermieri del suo manicomio.

Basaglia si era infatti avvicinato alle correnti psichiatriche di ispirazione fenomenologica ed esistenziale (Jaspers, Minkowski, Binswanger) cercando di seguire il modello della “comunità terapeutica“, di origine inglese, all’interno dell’ospedale. Per poter affrontare degnamente la malattia mentale dunque, Basaglia si convinse che ogni pregiudizio terapeutico doveva essere messo tra parentesi, sospeso. Solo in questo modo il malato poteva essere libero e raggiungibile su un piano di libertà.

I suoi riferimenti teorici furono Sartre, soprattutto per quanto riguarda il concetto di libertà, Foucault e Goffman per la critica all’istituzione psichiatrica.

Nel manicomio di Gorizia erano allora ricoverati 650 pazienti: con la direzione Basaglia cominciò, in questa istituzione, una vera e propria rivoluzione. Vennero ad esempio eliminati tutti i tipi di contenzione fisica e le terapie di elettroshock, furono aperti i cancelli, ponendo i malati nella condizione di essere liberi di passeggiare nel parco, di consumare i pasti all’aperto ecc. Per i pazienti non dovevano esserci più solo terapie farmacologiche, ma anche rapporti umani rinnovati con il personale della ‘comunità terapeutica’. I pazienti dovevano essere trattati come uomini, uomini ‘in crisi’, certo: una crisi esistenziale, sociale, familiare, che però non era più ‘malattia’ o ‘diversità’.

Sue sono queste parole sull’argomento: ‘Una cosa è considerare il problema una crisi, e una cosa è considerarlo una diagnosi, perché la diagnosi è un oggetto, la crisi è una soggettività’. Nel 1967 Basaglia curò il volume “Che cos’è la psichiatria?”, nel 1968 pubblicò “L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico”, che diffuse al grande pubblico l’esperienza dell’ospedale psichiatrico di Gorizia: un successo editoriale strepitoso.

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Nel 1969 lo psichiatra lasciò Gorizia e, dopo due anni passati a Parma alla direzione dell’ospedale di Colorno, nell’agosto del 1971, divenne direttore del manicomio di Trieste, il San Giovanni, dove c’erano quasi milleduecento malati. Basaglia istituì subito, all’interno dell’ospedale psichiatrico, laboratori di pittura e di teatro. Molti ricordano che una macchina scenica, un cavallo costruito in legno e cartapesta, fu fatto sfilare in corteo per le vie di Trieste, seguito da medici, infermieri, malati ed artisti. Nacque anche la cooperativa dei pazienti, che così cominciavano a svolgere lavori riconosciuti e retribuiti.

Ma questa volta Basaglia sentiva il bisogno di andare oltre la trasformazione della vita all’interno dell’ospedale psichiatrico: il manicomio per lui andava chiuso ed al suo posto andava costruita una rete di servizi esterni, per provvedere all’assistenza della persone affette da disturbi mentali.

La psichiatria asilare, pensava Basaglia, doveva riconoscere di aver fallito il suo incontro con il reale, essendosi limitata a fare della “letteratura” (ovvero teorie ideologiche), mentre il “malato” si trovava a pagare le conseguenze di ciò, rinchiuso nell’unica dimensione ritenuta adatta a lui: la segregazione.

La psichiatria, che non aveva compreso i sintomi della malattia mentale, doveva cessare di giocare un ruolo nel processo di esclusione del “malato mentale “, voluto da un sistema politico convinto di poter negare ed annullare le proprie contraddizioni allontanandole da sé, rifiutandone la dialettica, per potersi riconoscere ideologicamente come una società senza contraddizioni.

Nel 1973 Trieste venne designata “zona pilota” per l’Italia nella ricerca dell’Oms sui servizi di salute mentale. Nello stesso anno Basaglia fondò il movimento Psichiatria Democratica.

Nel gennaio 1977, in una affollatissima conferenza stampa, Franco Basaglia e Michele Zanetti, presidente della Provincia di Trieste, annunciarono la chiusura del San Giovanni entro l’anno. L’anno successivo, il 13 maggio 1978, fu approvata in Parlamento la legge 180 di riforma psichiatrica.

Nel 1979 Basaglia fece un viaggio in Brasile, dove incontrò psichiatri, psicologi, infermieri, studenti, ai quali, attraverso una serie di seminari raccolti successivamente nel volume Conferenze brasiliane, riferì della propria esperienza nei manicomi.

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“Il manicomio – diceva in queste conferenze – ha la sua ragion d’essere nel fatto che fa diventare razionale l’irrazionale. Infatti quando qualcuno entra in manicomio smette di essere folle per trasformarsi in malato, e così diventa razionale in quanto malato”.

La psichiatria democratica doveva allora andare oltre la chiusura dei manicomi ed affrontare quel disagio sociale attraverso il quale miseria, indigenza, tossicodipendenza, emarginazione, delinquenza, conducono alla follia.

Diceva: “La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’ essere”.

Nel novembre del 1979 Basaglia lasciò la direzione di Trieste e si trasferì a Roma, dove assunse l’incarico di coordinatore dei servizi psichiatrici della Regione Lazio. La situazione psichiatrica romana era allora rappresentata da un manicomio enorme e da innumerevoli case di cura private.

Nella primavera del 1980 però si manifestarono, per lo psichiatra, i primi sintomi di un tumore al cervello, che in pochi mesi lo portò alla morte, avvenuta il 29 agosto 1980, nella sua casa di Venezia.

E’ il caso di dire che le sue idee non sono morte con lui, anche se sempre più spesso la legge 180 (mai perfettamente applicata e sicuramente migliorabile) viene attaccata dalle nuove correnti della psichiatria organicista.

Dr. Giuliana Proietti

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Leggi anche su Psicolinea:

Franco Basaglia – Parte I -1924-1971 – La legge 180

Franco Basaglia – Parte II – Trieste 1971-1979 – la fine del manicomio

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Franco Basaglia e la fine del manicomio, da un articolo di John Foot.

Leggi la prima parte dell’articolo

PARTE SECONDA

La fine del manicomio: Trieste 1971-1979

Trieste non aveva più un ospedale psichiatrico. Nel gennaio 1977 Basaglia tenne una conferenza stampa nella città. La notizia era un semplice annuncio: l’ospedale psichiatrico San Giovanni sarebbe stato chiuso entro la fine dell’anno. Presto ci furono così pochi pazienti all’interno del complesso che, anche chiamare tale istituzione un ‘ospedale’, era chiaramente fuori luogo. Dopo soli sei anni come direttore, Basaglia aveva raggiunto l’impossibile. L’istituzione non era semplicemente ‘negata’, era stato cancellata. Il movimento Basagliano raggiunse il suo momento di maggior fama a Trieste nel corso degli anni settanta, dopo che il San Giovanni fu il primo manicomio al mondo ad essere chiuso per motivi politici: perché coloro che lo gestivano lo consideravano un campo di concentramento. Gli eventi di Trieste portarono ad una legge nazionale – la legge 180 (la ‘legge Basaglia),’ che prevedeva la chiusura di tutti i manicomi italiani. Come è accaduta questa rivoluzione e che cosa ci ha lasciato?

Fasi della chiusura

Trieste non era Gorizia, e il 1971 non era uguale al 1961. Un vasto movimento era in pieno svolgimento in tutto il mondo e l”anti-psichiatria’ era una parte fondamentale di questa concezione ideologica. Una volta in carica a Trieste, Basaglia e la sua squadra si mossero con grande velocità. Il piano era semplice: chiudere l’ospedale psichiatrico, dall’alto, e in fretta. Tutto sembrava possibile. L’utopia goriziana divenne una realtà concreta a Trieste. Era come se il comando fosse stato puntato su: “avanzamento veloce”.

Tra il 1971 e il 1974, l’ospedale psichiatrico attraversò molti dei cambiamenti che avevano avuto luogo a Gorizia, ma si fece tutto in metà del tempo. Ai pazienti furono restituiti i loro diritti umani fondamentali e furono aperti i reparti. Le rigide divisioni di genere nel manicomio furono abolite (portando i pazienti a vivere in intimità). L’ospedale fu diviso in settori (corrispondenti a diverse zone della città e provincia), in preparazione per la sua chiusura, un’idea presa in prestito dai riformatori francesi. Basaglia era interessato soprattutto al cambiamento pratico e non era dogmatico. Era disposto a prendere in prestito idee da una varietà di fonti, purché funzionassero.

Furono istituite le cooperative. Questa fu un’altra nuova tattica, che consentì ai pazienti di entrare direttamente nel mondo del lavoro. Le cooperative sarebbero state ampiamente utilizzate in tutta Italia nei decenni successivi per ‘re-integrare’ i pazienti con problemi di salute mentale.

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Questo periodo ha visto anche la creazione di un team che manteneva contatti anche con il territorio, attraverso incontri con la popolazione. Il periodo era quello che si era venuto determinando dopo il 1968, con le occupazioni (di strutture pubbliche non utilizzate) e la spinta verso i centri territoriali permanenti in varie aree e all’interno dell’ospedale della città. Durante gli anni settanta gli spazi dell’ospedale psichiatrico di Trieste furono trasformati in uno spazio sperimentale, che ospitava arte e progetti teatrali, mostre, spettacoli, conferenze, concerti, numerosi dibattiti e incontri e congressi internazionali. I militanti, studenti, intellettuali e professionisti si davano tutti appuntamento a Trieste. Fu un momento di straordinario fermento.

Mentre in alcuni luoghi le istituzioni sono state sostituite con altre forme alternative di istituzione (un processo determinato da denominazioni diverse, come deistituzionalizzazione e anti-istituzione), Trieste fu uno dei luoghi dove il 1968 fu messo in pratica. Gli slogan che giravano nell’ospedale erano quelli del movimento: ‘La libertà e terapeutica’  o ‘La Verità e Rivoluzionaria’.

Furono aperte le prime case-famiglia, all’inizio all’interno dell’ospedale, dove una volta c’erano i reparti, ora chiusi. L’esperienza di Trieste mobilitò migliaia di persone. Si stabilirono legami profondi con la città e con studenti attivisti in tutta Italia, e anche all’estero. Molti volontari cominciarono ad arrivare nella speranza di lavorare presso l’ospedale, alcuni da scuole locali e università, altri provenienti dall’estero, così come alcuni psichiatri e medici influenzati dal pensiero di Basaglia. Come ha detto uno di questi visitatori: Trieste esercitava una “attrazione magnetica” per gli psichiatri radicali e li entusiasmava. ‘Tutti andavano a Trieste.‘ (Crossley, 2006) ‘

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Come a Gorizia e altrove, la cosiddetta deistituzionalizzazione del manicomio di Trieste negli anni settanta fu una lotta costante contro:

– la magistratura locale;
– l’opinione pubblica;
– la stampa locale (che era estremamente ostile a Basaglia e al suo team);
– i partiti di opposizione (il partito neo-fascista era molto forte a Trieste).

Tuttavia, la provincia di Trieste offrì la protezione politica. Il protagonista, Michele Zanetti, si prese su di sé la maggior parte delle responsabilità e dunque le critiche legate a queste riforme. Questo lasciava Basaglia e i suoi collaboratori relativamente liberi da quelle interferenze costanti che avevano sperimentato (in vari modi) a Gorizia e Parma.

C’erano anche costanti dibattiti politici interni, che diventano sempre più intensi. Trieste ebbe anche un famoso ‘incidente’ nel 1972 (in realtà, c’era stata tutta una serie di questi incidenti, ma solo uno ottenne lo status di notizia nazionale): un paziente in semilibertà aveva ucciso la moglie a Gorizia nel settembre 1968 (evento definito appunto come un ‘incidente’), e questo mise in discussione il progetto basagliano.

Nel 1972, un ex-paziente uccise i suoi genitori a Trieste. Questo secondo ‘incidente’ ebbe meno effetto sugli psichiatri di Trieste che erano molto più preparati ad affrontare le conseguenze giuridiche e politiche che seguirono.

Questi “incidenti” fanno comprendere i rischi che Basaglia e la sua squadra si stavano prendendo. Essi si sono assunti la piena responsabilità di ciò che era accaduto, sostenendo però (in entrambe le occasioni) che il vero problema non erano questi malati, ma il sistema stesso.

Basaglia e Zanetti inserirono presso l’ospedale di Trieste medici, volontari, psicologi, sociologi, militanti, artisti e musicisti, e lo svuotarono dei pazienti. Ben 122 persone furono assunte in manicomio sotto la direzione Basaglia. A Gorizia, c’erano solo sei medici. Gli ex-pazienti ricevevano prestazioni in denaro e abitazioni. Altri pazienti, anche privati, facevano i volontari. Paradossalmente, il numero dei pazienti diminuiva e il numero degli ‘operatori’ basagliani  aumentava in maniera massiccia. Alla fine, c’erano più operatori che pazienti.

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Basaglia fu il leader indiscusso in tutta questa esperienza, molto più di quanto lo fosse stato in passato.  Franca Ongaro tuttavia, sebbene fosse spesso a Trieste, era rimasta a vivere a Venezia. ll suo ruolo a Gorizia era stato molto più centrale rispetto a quello assunto negli anni successivi. La coppia lavorava ancora insieme su una serie di libri e progetti, ma Basaglia a questo punto collaborava anche con altri. A Gorizia la famiglia Basaglia era stata una parte integrante dell’esperienza della riforma del manicomio; a Trieste, il protagonista indiscusso e capo di tutto era Franco Basaglia.

A cura di Dr. Giuliana Proietti

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Fonte:

Foot J. Franco Basaglia and the radical psychiatry movement in Italy, 1961–78.Critical and radical social work. 2014;2(2):235-249. doi:10.1332/204986014X14002292074708.

Leggi su Psicolinea la vita e l’esperienza di Franco Basaglia:

Franco Basaglia: una biografia
E inoltre, di John Foot:

Parte prima
Parte terza
Parte quarta

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Questo è il primo di una serie di quattro articoli. Si tratta di una storia di Franco Basaglia e della legge 180, scritta da John Foot.

John Foot è uno storico britannico, docente all’Università di Cambridge, specializzato in storia italiana. Nel 2014 ha scritto un lungo articolo su Franco Basaglia, lo psichiatra padre spirituale della legge 180.

A quaranta anni dall’introduzione della Legge 180 in Italia, presentiamo di seguito una sintesi di questo lungo ma interessantissimo articolo (che dividiamo in quattro parti). Suo è il libro “La repubblica dei matti” edito da Feltrinelli.

L’articolo è a nostro avviso interessante perché Basaglia e la Legge 180 in Italia sono, a torto o a ragione, fortemente legati a una visione politica di sinistra, per cui Basaglia può, a seconda di come la si pensi, essere dipinto o come un santo, o come un mostro. Questo articolo ci permette di avere una visione più obiettiva, sia del personaggio, sia della sua storia.

Su psicolinea è possibile trovare un altro articolo sulla vita di Franco Basaglia.

Biografia di Franco Basaglia

Franco Basaglia nacque in una famiglia benestante, a Venezia, nel 1924. Nella sua adolescenza fu antifascista e membro attivo della resistenza in città, durante la guerra. Nel dicembre 1944, fu arrestato trascorse sei mesi all’interno del cupo carcere di Santa Maria Maggiore a Venezia. La liberazione della città, nell’aprile 1945, gli permise di uscire di prigione.

Nel periodo post-bellico fu per poco tempo iscritto al partito socialista, ma durante la sua vita non si legò mai a un partito politico. Nel 1943 Basaglia aveva cominciato a studiare medicina e chirurgia nell’antica e prestigiosa università di Padova. Egli avrebbe poi affermato che aveva scelto la facoltà universitaria un po’ a caso. Nonostante questo fu uno studente brillante. Si laureò nel 1949 (nonostante gli anni di guerra e il suo tempo in carcere) e trascorse i successivi dieci anni a studiare filosofia e psichiatria. Sembrava che Basaglia fosse destinato ad una carriera universitaria brillante, ma come è comune in Italia, tale istituzione primo lo usò e poi lo sbatté fuori.

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Basaglia lavorò come assistente di uno stimato professore (Giambattista Belloni) dal 1949 al 1961, ma la possibilità di ricevere un vero incarico come docente non si concretizzava. Basaglia si specializzò nel campo delle “malattie nervose e mentali” nel 1958. Senza mezzi termini gli venne spiegato che non avrebbe mai fatto carriera nel sistema universitario, perché non piaceva il suo modo di lavorare e di pensare: probabilmente era troppo acuto, troppo poco ortodosso, troppo originale, non abbastanza servile. Gli fu consigliato insomma di guardare altrove, se voleva fare carriera.

Nel 1961 si liberò un posto presso il manicomio provinciale di Gorizia, al confine fra Italia e Jugoslavia (oggi Slovenia), in cui erano ricoverate 500 persone.  Il manicomio era simile a molti altri in tutta Italia (e, di fatto, in tutta Europa). Lavorare in un ospedale era visto come un lavoro senza scopo dagli psichiatri, un segno di fallimento. Gorizia, inoltre, era una città geograficamente isolata. Tuttavia, Basaglia sembrava avere poca scelta. Accettò di dirigere il manicomio di Gorizia.

Basaglia fu direttore del manicomio di Gorizia nel periodo 1961-1970. Dal 1970 al 1971 fu direttore di un grande manicomio alle porte di Parma, in una piccola città chiamata Colorno. Nel 1971, assunse la stessa posizione a Trieste, di nuovo al confine. Basaglia rimase direttore del manicomio di Trieste fino al 1979. In quell’anno si trasferì a dirigere i servizi di salute mentale nel Lazio, abitando a Roma. Tuttavia, egli era già malato e nel 1980 morì di un tumore al cervello, all’età di appena 56 anni. Sua moglie, Franca Ongaro (che aveva scritto molti dei libri insieme al marito, come coautrice), era al suo fianco.

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Dopo la morte del marito, la Ongaro fece una campagna per l’attuazione della cosiddetta ‘Legge Basaglia’ – o legge 180 – che era stata approvata nel 1978. Questa legge innovava i sistemi di cura della salute mentale e imponeva la chiusura di tutti gli ospedali psichiatrici. Ci vollero almeno 20 anni perché la legge entrasse pienamente in vigore.

Alto, carismatico e di bell’aspetto, Basaglia era un maniaco del lavoro.  Una volta raggiunto il potere, lottò duramente per percorrere la sua strada, mostrando poca tolleranza verso il dissenso. Amava parlare e discutere le cose. Di tanto in tanto poteva agire in modo autoritario; era testardo, ma sapeva anche lavorare in gruppo e era consapevole dell’importanza della costruzione di una squadra di lavoro. Basaglia era ambizioso e nella sua vita poté godere di fama e autorità, ma fu completamente disinteressato ai soldi.

Di solito si svegliava presto e lavorava fino a molto tardi, fumando molte sigarette, bevendo coca cola e occasionali bicchieri di whisky. Quasi tutti i suoi libri (dopo Padova, in particolare) sono stati curati dalla moglie, o scritti insieme a lei.

Molti rimanevano sedotti dall’intelligenza di Basaglia e dalla sua personalità (compresi quelli che non lo avevano mai conosciuto). Era carismatico e affascinante, e ispirava affetto e ammirazione, ma anche paura, gelosia e talvolta odio. Per molti divenne un eroe, ma fu un anti-eroe per coloro che si erano opposti ai movimenti legati al 1968 (così come per alcuni che erano figure chiave del 1968 stesso).


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La 180 porta il nome di Basaglia, un onore raro in Italia, soprattutto per un non-politico. Era visto come un’ uomo buono ‘, ma veniva anche criticato per quello che era visto come un atteggiamento di estrema irresponsabilità. Aveva una forte empatia con i suoi pazienti, ma fu accusato da alcuni di loro di averli abbandonati al proprio destino. Amava parlare, e discutere di tutto, ma poteva anche essere intollerante e, a volte, anche un po’ autoritario. La sua vita era a volte caotica, ma ciò nonostante non mancò mai ad un appuntamento. Il lavoro fu al centro della sua vita. Si dedicò totalmente, per quasi 20 anni, alla ‘lotta’, e pagò un caro prezzo per questo impegno. Fu definito, facendo riferimento all’agiatezza in cui era vissuto a Venezia, come un ‘leader naturale’, un  ‘aristocratico’, un  ‘patrizio’ da persone che neanche lo conoscevano.

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Gorizia, 1961-1969

Il posto di direttore del manicomio di Gorizia era decisamente poco promettente, e rischioso. Comportava infatti un isolamento politico e geografico, in un settore del sistema psichiatrico che non stava andando da nessuna parte. Accettando l’incarico, la famiglia veniva sradicata e lui doveva lavorare in un ambiente che gli dava il voltastomaco. L’unica motivazione al lavoro poteva dunque essere quella di trasformare l’intero sistema, partendo dalla periferia: sapeva che non avrebbe semplicemente gestito le cose alla vecchia maniera, come avevano fatto la maggior parte dei direttori precedenti ma, specialmente all’inizio, non c’era un piano definito, a parte il desiderio di cambiare le cose. Stare a Gorizia comportava, per Basaglia, anche dei vantaggi, fra cui il fatto che ci si trovava a lavorare in mezzo al nulla e che nessuno si aspettava qualcosa da lui. Aveva uno strano tipo di libertà che non avrebbe avuto altrove. Gli stessi goriziani ci misero molto a capire cosa stava succedendo sulla soglia delle loro case, figuriamoci cosa potevano aver capito nel resto d’Italia.

Come direttore del manicomio di Gorizia, Basaglia si convinse che l’intero sistema manicomiale era moralmente in bancarotta. Non vedeva benefici medici nel modo in cui i pazienti erano  ‘curati’ all’interno di queste istituzioni. Al contrario, si convinse che alcuni dei comportamenti eccentrici o disturbati dei pazienti fossero stati creati o acuiti dall’istituzione manicomiale. Anche se ufficialmente si trattava di ospedali, questi luoghi erano molto simili a prigioni, dal punto di vista architettonico e funzionale. La maggior parte di essi si basava su tecniche di gestione che Foucault (Foucault M. Sorvegliare e Punire: la nascita della prigione) aveva descritto come  ‘sorvegliare e punire’.

Queste convinzioni si rafforzarono in Basaglia, all’inizio degli anni sessanta,  leggendo autori come Erving Goffman, Frantz Fanon e Michel Foucault. Da Goffman (Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza) prese il concetto di  “istituzione totale”, che divenne poi una parte fondamentale del lessico basagliano. Foucault (1961), nel frattempo, aveva scritto sulla condizione storica e filosofica della follia  (Storia della follia nell’età classica) e sul contenimento della devianza.

Entrambi questi libri apparvero nel 1961, l’anno in cui Basaglia fu assunto a Gorizia. I testi circolavano in inglese (e francese) prima di essere tradotti in italiano (nel caso di Goffman proprio da Franca Ongaro), negli anni sessanta.

Ispirato da questi scritti, Basaglia mise in pratica a Gorizia una serie di riforme radicali che, nel 1968, resero l’ospedale una mecca per gli attivisti divenendo una delle capitali del movimento studentesco. Queste riforme e cambiamenti iniziarono con il miglioramento delle condizioni per i pazienti (fine delle restrizioni, riduzione del trattamento di elettro-shock, apertura dei reparti e distruzione di muri e recinzioni). Col passare del tempo, Basaglia introdusse cambiamenti più radicali e costruì un équipe di psichiatri che la pensavano come lui. I pazienti furono coinvolti in assemblee generali a partire dal 1965, che divennero la parte più pubblica e spettacolare dell’esperimento goriziano. L’alleato intellettuale e personale più forte di Basaglia era sua moglie, Franca Ongaro. Lei fu sempre presente, in tutte le lotte condotte a Gorizia.

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Le idee di Franco Basaglia sono state sempre legate alla pratica del cambiamento, ma derivano da un mix di testi e teorie. La base del suo pensiero si rifaceva alla filosofia esistenzialista, in particolare al lavoro di Jean-Paul Sartre. Credeva nel tentativo di comprendere i pazienti malati di mente attraverso la costruzione di un rapporto con loro,  ‘mettendo tra parentesi’ la diagnosi che impediva una possibile relazione. Così come Goffman, Basaglia aveva studiato i libri di Primo Levi, e gli autori che circolavano al momento all’interno della fenomenologia: Binswanger, Husserl, Minkowski. Fu anche influenzato dai teorici principali di quello che divenne noto come il movimento dell’ ‘ anti-psichiatria ‘: David Cooper, RD Laing, Thomas Szasz. Accanto a Foucault e Fanon, Basaglia lesse anche opere di psichiatri francesi come Lucien Bonnafé. Basaglia e sua moglie fecero molto per far conoscere questi testi al pubblico italiano; in particolare Cooper, Goffman e Laing. Franca Ongaro tradusse personalmente Asylums di Goffman e Basaglia suggerì agli editori la pubblicazione in Italia di questi testi nel periodo fine anni sessanta, primi anni settanta.

Su ispirazione di Goffman, Basaglia cominciò a vedere le persone all’interno della ‘istituzione totale’ del manicomio come ridotte a “non-persone” o “uomini vuoti”.  Egli considerava i malati di mente come ‘gli esclusi’ e una ‘maggioranza deviante’ che erano stati internati contro la loro volontà e distrutti dal sistema. La sua critica sociale al manicomio era spesso rozzamente espressa: Basaglia divideva infatti le persone anzitutto in ricche e povere (“chi non ha, non è”) .

Basaglia studiò anche le idee e le pratiche legate agli psichiatri radicali che operavano in Francia, Germania e Regno Unito. Viaggiò moltissimo. Fu influenzato dalle comunità terapeutiche a cui aveva assistito o letto di prima mano, soprattutto attraverso il lavoro di Maxwell Jones a Dingleton in Scozia (un luogo visitato sia da Basaglia e sua moglie, sia dagli altri membri della équipe) e dagli esperimenti francesi di psicoterapia istituzionale. Basaglia discuteva le sue idee con figure dell’ ‘anti-psichiatria “, come Cooper, Foucault, Laing e Szasz.

Un distinto e specifico ‘Basaglian canon’ cominciò dunque ad emergere a Gorizia, a partire dagli studi filosofici e dalle ricerche sul modo in cui gli ospedali psichiatrici effettivamente funzionavano. Due libri collettivi furono prodotti dalla équipe di Gorizia: Che cos’è la psichiatria? (Basaglia, 1967) e L’Istituzione negata  (Basaglia, 1968). Quest’ultimo libro è stato tradotto in tutto il mondo (ma non in inglese) ed è diventato un bestseller in Italia. Alcuni lo hanno considerato una delle “bibbie” del 1968. Entrambi i libri erano testi ibridi, contenenti riflessioni teoriche e pratiche di cambiamento messe in atto a Gorizia, così come trascrizioni di interviste con i pazienti e assemblee dei pazienti.

Questi libri collettivi sottolineano l’idea di una ” istituzione negata” per cui la pratica di queste idee radicali all’interno dell’ “istituzione totale” poteva ribaltare le strutture di potere all’interno di questi luoghi, ed esporre le contraddizioni all’interno sia del sistema, sia della società nel suo complesso. Inoltre, questi libri descrivevano le condizioni all’interno dei manicomi, così come le strutture di classe del sistema sanitario. Infine, Basaglia e il suo team sottolinearono i pericoli di queste “istituzioni negate”, cioè comunità terapeutiche che potevano facilmente creare illusioni. Non potevano esse infatti risolvere i problemi della società da sole: erano necessari sia il cambiamento sociale, sia una riforma radicale.


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Verso la fine degli anni sessanta il linguaggio divenne rivoluzionario: slogan maoisti penetrarono anche nel movimento, con l’idea potente di poter rovesciare l’autorità e il potere.

In sintesi, tre filoni del pensiero di Basaglia presero una forma definita: anti-istituzionalismo, analisi sociale e critica pungente della classe medica. Essi erano in ogni caso tutti presenti, in forma nascente, fin dall’inizio.

Dopo Gorizia, Basaglia trascorse un breve periodo a capo del manicomio di Colorno (Parma) e sei mesi a New York, dove lavorò in un ospedale psichiatrico a Brooklyn. Nel 1971 gli fu offerto il posto di direttore del manicomio di Trieste.

A cura di: Dr. Giuliana Proietti

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FINE PRIMA PARTE

Continua.

Leggi su Psicolinea la vita e l’esperienza di Franco Basaglia:

Franco Basaglia: una biografia
E inoltre, di John Foot:

Parte Seconda
Parte Terza
Parte Quarta

Fonte:
Foot J. Franco Basaglia and the radical psychiatry movement in Italy, 1961–78.Critical and radical social work. 2014;2(2):235-249. doi:10.1332/204986014X14002292074708

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La legge Basaglia è stata un errore? Continua l’articolo di John Foot. In questa quarta e ultima parte si arriva alle conclusioni.

Leggi Parte Prima
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Leggi Parte Terza

PARTE QUARTA

Conclusione: la storia di un movimento

Nel 1978 vi fu l’approvazione delle leggi 180 e 883, che istituirono il servizio sanitario nazionale in Italia e portarono alla chiusura di tutti gli ospedali psichiatrici. Nel 1980, Basaglia morì di un tumore al cervello. Aveva solo 56 e non avrebbe visto le riforme che aveva ispirato messe in pratica. Franca Ongaro (moglie di Basaglia), portò avanti la lotta per implementare queste leggi. E’ stata una battaglia lunga e difficile, e ci sono stati numerosi tentativi di bloccare o semplicemente ignorare le riforme. Alla fine, tuttavia, la battaglia è stata vinta.

La storia del movimento radicale cominciato (all’interno e all’esterno della psichiatria) a Gorizia nei primi anni sessanta ha poi toccato tanti altri luoghi: Arezzo, Parma, Perugia, Reggio Emilia, Trieste. Un piccolo gruppo di psichiatri giovani e radicali, guidati da Basaglia a Gorizia e da altri in diverse città, si rifiutò semplicemente di accettare lo stato di cose che avevano visto nel manicomio. Nella loro spinta per cambiare le cose, questi psichiatri furono aiutati e supportati da infermieri, volontari e soprattutto (in alcuni casi) da una nuova classe di amministratori e politici. Questa classe politica del dopo guerra era per un nuovo modello di psichiatria e per la trasformazione (e, infine, la chiusura) del vecchio sistema manicomiale. Essi non erano guidati da avidità, o da desiderio di potere, ma da principi umanistici e da un imperativo morale per impegnarsi nella riforma (ritenevano semplicemente che i manicomi non fossero accettabili).

Si è trattato di un ‘no’ collettivo. E questo ‘no’ ha cambiato il mondo. Non era accettabile trattare le persone in quel modo: senza diritti, senza autonomia, senza coltelli e forchette, senza capelli, senza alcun controllo sulle cure che venivano loro somministrate. Era stato sbagliato fulminare il cervello di queste persone, o tagliarlo a pezzi, o legare i loro corpi per anni e anni. Questo movimento è stato una lotta per la liberazione, per la democrazia e per l’uguaglianza. Questi 100.000 pazienti dei manicomi erano infatti scomparsi dalla storia.

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Avevano bisogno di riemergere, di vedersi riconosciuta la loro identità e dignità. Questa generazione di politici e psichiatri del periodo post bellico erano una generazione di antifascisti. C’era qualcosa di profondamente antifascista nel movimento anti-manicomiale. Era un movimento per i diritti umani. Le persone all’interno dei manicomi erano persone.

Gli altri protagonisti di questa storia, quindi, sono i pazienti stessi. Anche loro sono stati parte del movimento, anche se raramente sono stati visti in questo modo: pazienti, come Carla Nardini a Gorizia – che era stata ad Auschwitz – o Mario Furlan (anche lui a Gorizia, e che in seguito si suicidò) A queste persone la rivoluzione della cura psichiatrica cambiò la vita, essi ne riconquistarono il controllo. Senza di loro, il movimento non avrebbe mai nemmeno cominciato a avere effetti.

L’Italia non ha visto la nascita di un vero e proprio movimento di pazienti dopo l’esperienza Basaglia. Le numerose cooperative che sono stati utilizzate per assorbire e reintegrare migliaia di pazienti di nuovo nel mondo del lavoro sono state più vicine all’esperienza presente del Regno Unito, di un movimento di utenti dei servizi. Tuttavia, Trieste ha avuto un’enorme influenza sugli ‘operatori’ : è stata una sorta di ‘utopia concreta’ per molti e è stata al centro del dibattito psichiatrico, nel Regno Unito e altrove. La chiusura dell’ospedale di Trieste ha dimostrato cosa era possibile fare o, come disse Basaglia, che ‘l’impossibile era possibile’ .

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Il movimento ha avuto il suo inizio a Gorizia, ma la sua portata è andata ben oltre la storia di Franco Basaglia e Franca Ongaro. Come ha sostenuto uno psichiatra: ‘la trasformazione della psichiatria italiana è stato il risultato di un movimento policentrico’ (Giacanelli, 2008). I Basaglia tuttavia furono cruciali – centrali – per questo movimento di cambiamento.

Lungo la strada del cambiamento ci sono stati grandi rischi. Alcune persone sono state uccise, altre si sono suicidate. Le famiglie hanno avuto a che fare con figli, figlie, madri e padri che avevano seri problemi, e che erano stati rinchiusi per anni. Il mondo esterno si presentava come un posto difficile, in tanti modi.

E’ stato facile per gli ex-pazienti cadere nelle falle della società. Una volta che il nemico, il manicomio, era stata abolito, iniziava il vero lavoro. Come ha scritto Forgacs (2014): La storia della riforma psichiatrica in Italia non si è conclusa con l’approvazione della legge 180 nel maggio 1978. Al contrario, la fase più difficile del movimento per la riforma è iniziata quando la legge è entrata in vigore.’

Senza dubbio, il movimento è stato caratterizzato anche da numerosi “eccessi” di ideologia, esagerazioni, uso di un linguaggio acceso e pericoloso, con semplificazioni e dogmatismi, settarismo e aspre dispute su ciò che sembra, oggi, avere davvero scarsa importanza. Questi eccessi sono stati spesso ripresi dai seguaci del movimento, i cui slogan e le cui frasi vuote hanno fatto ben poco per aiutare le persone con problemi di salute mentale nel mondo reale. Basaglia stesso era consapevole del fatto che erano stati commessi degli errori.

Spesso, il linguaggio usato dal movimento ha fornito ai nemici del movimento le armi per combatterlo. Gli slogan maoisti erano comuni. Ci si è spinti troppo lontano. Troppo spesso è stato pensato e affermato che vi fosse un legame problematico tra classe sociale e malattia mentale, come se fosse un fatto ovvio. Nei tempi inebrianti e violenti degli anni settanta, i  “traditori” venivano facilmente identificati e respinti. Il movimento è stato lacerato da conflitti, divisioni personali e iperboli.

Solo a posteriori si può cercare tra le ceneri di ciò che è accaduto per tentare di portare un po’ d’ordine. Fu un momento di eccessi. La rivoluzione sembrava essere dietro l’angolo. Non era così.

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La componente chiave finale del movimento sono stati i compagni di viaggio: intellettuali, scrittori, cineasti, giornalisti, fotografi e artisti, che hanno donato il loro tempo e il loro talento per accelerare il cambiamento. Queste persone sono state fondamentali per il successo del movimento, in quanto sono state il collegamento tra le teorie dei leader e le masse.

Fu così per editori, produttori televisivi e cinematografici, registi, artisti e fotografi. Quando più di 10 milioni di persone videro nelle loro case, sui loro schermi televisivi, nel gennaio 1969, i pazienti dell’ospedale psichiatrico di Gorizia parlare al giornalista Sergio Zavoli,  il movimento ricevette una spinta, che non avrebbe mai avuto, con qualsiasi altro mezzo.

Oggi, gli ex manicomi italiani svolgono una varietà di funzioni. Alcuni sono vuoti e abbandonati. Altri sono “musei della mente ‘. Molti mantengono ancora i collegamenti con i servizi sanitari e di salute mentale. Alcuni sono scuole, altri sono università, o abitazioni. La maggior parte sono ora dei bei parchi, almeno in parte.

La società ha assorbito la maggior parte dei 100.000 malati di mente che erano stati tenuti all’interno delle istituzioni manicomiali. Questo cambiamento del sistema è venuto da un movimento che ha agito all’interno delle istituzioni stesse, in un modo che è stato unico nel mondo occidentale. I manicomi in Italia sono stati chiusi dalle persone che lavoravano al loro interno. In tal modo, queste persone hanno determinato la chiusura dei loro posti di lavoro – per sempre. Nessuno, oggi, è direttore di un ospedale psichiatrico in Italia. Il movimento ha agito contro il proprio interesse, in un modo che è stato l’opposto di clientelismo, patrocinio e nepotismo. Essi hanno negato se stessi.

Molto di ciò che si pensava nei giorni inebrianti del movimento non è avvenuto. L’interesse per la psichiatria radicale cominciò presto a svanire. Il movimento finì sulla difensiva, aggrappandosi ai successi degli anni sessanta e settanta. Come scrisse uno dei protagonisti, nel 1969:

Eravamo alla ricerca di una alternativa alla psichiatria: stavamo sperimentando e cercando nuovi modi di fare le cose. Nella nostra società, una forma alternativa di psichiatria era possibile solo in parte e solo per un breve tempo. In seguito, soprattutto nei luoghi in cui funzionava, divenne ‘pericolosa’ e poi fu repressa o integrata, neutralizzata. Tutto questo è stato inevitabile e  noi sapevamo che le cose stavano così, ma abbiamo tutti imparato molto durante questa lunga marcia. (Jervis, 1969).

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Non è facile scrivere di questo movimento, con i suoi miti, le divisioni, i silenzi e le memorie possessive. C’era qualcosa nel movimento stesso che ha creato problemi in termini di memoria. Una versione di quel passato esiste, ma è in gran parte celebrativa. Le versioni pubbliche prevalenti della storia di Trieste-Basaglia tendono, comunque, a semplificare il passato.

I dibattiti contemporanei sulle riforme e le idee di Basaglia tendono a concentrarsi su due aree. La prima è legata alla chiusura dei manicomi, e alle strutture alternative che sono state istituite in vari paesi (come in Italia) per ‘rimpiazzarli’. Una considerevole parte dell’opinione pubblica sostiene che la ‘Legge Basaglia’ sia stato un errore, che i pazienti siano stati ‘abbandonati’ e che non sia riuscito il progetto di creare strutture alternative adeguate. Ma ci sono molte parti d’Italia con servizi eccellenti, che sono ancora l’invidia del mondo.

Una seconda serie di dibattiti è legata al movimento stesso, e ai suoi eccessi. Qui vi è una tendenza a mitizzare, da un lato, e a demonizzare, dall’altro.

Concludendo, si può dire che la ‘Legge Basaglia’, con tutti i suoi limiti e le sue inadeguatezze, rimane uno dei più grandi esempi di riforma legati alle teorie e alle pratiche radicali degli anni sessanta e settanta.

A cura di: Dr. Giuliana Proietti

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Franco Basaglia - Parte III - storia e memoria viste da Londra

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Trieste e Franco Basaglia: continua l’articolo di John Foot, sintetizzato da Psicolinea in quattro parti. In questa parte viene spiegato perché le idee di Basaglia non sono conosciute in Inghilterra e perché esse godono, in quella nazione,  di una cattiva fama.

Leggi Parte Prima
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PARTE TERZA

Trieste: storia e memoria

A partire dagli anni settanta Trieste divenne un punto di riferimento per il cambiamento. Era il simbolo di ciò che poteva essere fatto, del radicalismo, in generale, di una rivoluzione sociale, culturale e medica. Molto più di Gorizia, Trieste divenne una ‘utopia concreta’, un luogo in cui la trasformazione poteva essere toccata, sperimentata, vista con i propri occhi. Basaglia presiedeva tutto questo, portandosi nel bagaglio l’esperienza di Gorizia e di Parma. Non era interessato a creare un’altra ‘gabbia dorata’, o una comunità terapeutica sul tipo di quella di Maxwell Jones.

Tutto questo era superfluo, una perdita di tempo. Il lavoro chiave sarebbe stato al di fuori del manicomio, nella città di Trieste e in tutta la provincia. Era giunto il momento non solo di abbattere i muri, ma anche di costruire qualcosa di completamente nuovo, in alternativa all’ospedale psichiatrico stesso. Il tempo non sarebbe andato perso in conflitti interni con medici, infermieri ostili o amministratori. Le cose si stavano muovendo con decisione nella direzione che i Basagliani volevano. Si erano, letteralmente, presi il manicomio.

Le assemblee generali utilizzate a Gorizia furono abbandonate e sostituite con riunioni quotidiane del personale per decidere la strategia. Molto più che a Gorizia, la strategia adottata a Trieste era arrivata ben oltre le mura del manicomio. L’intera opinione pubblica era stata galvanizzata da una strategia mediatica sofisticata, in alleanza con artisti, direttori di teatro, attori, musicisti, registi e altri. Trieste divenne un punto di riferimento per la sinistra di tutta Europa e oltre. Per esempio, un certo numero di attivisti del movimento anti-psichiatrico radicale SPK (collettivo pazienti socialisti) di Heidelberg, in Germania, la cui attività era stata dichiarata illegale dalle autorità locali, andarono a lavorare a Trieste (e alcuni ci sono rimasti per anni).

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Quando Basaglia divenne direttore a Trieste nel 1971, c’erano 1.182 pazienti nell’ospedale psichiatrico, il 90% dei quali erano non volontari ed internati in base alle disposizioni previste dalla legge del 1904, (questa legge disciplinò il sistema degli ospedali psichiatrici in Italia fino alle riforme degli anni sessanta e settanta). Inoltre, vi erano dei pazienti volontari, come prevedeva una legge del 1968. All’inizio del 1977, all’interno dell’ospedale psichiatrico erano rimasti solo 51 pazienti ‘forzati’ all’internamento, anche se c’erano ancora molti ‘ospiti’ (433) o ‘volontari’ (81). Nel mese di agosto del 1980, nove anni dopo l’arrivo di Basaglia, il manicomio di Trieste chiuse definitivamente.

Oggi, Trieste non ha ospedali psichiatrici e l’Italia stessa è senza manicomi. Il San Giovanni è diventato un parco, e ospita una scuola, parte dell’università, vari servizi sanitari, cooperative e bar. Si tratta di un luogo tranquillo e bello, che è parte integrante della città. Questo, da solo, è un lascito duraturo del movimento che ha avuto inizio in quasi completo isolamento nel 1961 a Gorizia.

La ragion d’essere del manicomio, costruita come era sulla separazione, l’esclusione e il silenzio, fu minata. Il periodo di chiusura fu rumoroso e gioioso, e impossibile da ignorare. Da una istituzione totale, costruita su regole molto rigide, la violenza e l’idea di un mondo chiuso, il manicomio di Trieste venne trasformato in un luogo creativo aperto, un luogo dove la libertà e il dibattito erano più frequenti di quanto avveniva nel mondo esterno, un modello per il cambiamento, un anti-manicomio. Ora è un’altra cosa: è un ex-manicomio.

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Una traduzione mancante nel mondo di lingua inglese?

La storia, la biografia e il lavoro professionale di Franco Basaglia e di psichiatria democratica, il movimento da lui in parte guidato e ispirato sono stati, con poche eccezioni, costantemente male interpretati nel mondo di lingua inglese (e in particolare nel Regno Unito, anche se una sola eccezione è Ramon, 1988).

Prendiamo, ad esempio, i giudizi di due dei maggiori storici della ‘follia’ e dei ‘manicomi’. Nel 2002, Roy Porter ha scritto: ‘In Italia, la leadership del movimento è stata assunta dallo psichiatra Franco Basaglia, che ha contribuito a progettare la rapida chiusura delle istituzioni (provocando il caos)’ (Porter, 2002). Nel 1994, Porter si riferiva a Basaglia come a ‘Enrico Basaglia’ e lo etichettava come un ‘chiassoso anti-psichiatra’ (Porter e Micale 1994). Il giudizio di Andrew Scull su Basaglia è stato ugualmente breve, nel 2011: ‘In Italia, con il movimento guidato dal carismatico Franco Bassaglia [sic], la sinistra politica ha guidato la carica’ (Scull, 2011). Un resoconto più equilibrato e ben informato (anche se con alcuni errori) può essere trovato in Burns (2013). Tuttavia, anche qui, Basaglia è descritto come un ‘marxista gramsciano’.

Le origini di questi giudizi imprecisi dipendono da molte cose. In primo luogo, il lavoro di Basaglia non è stato tradotto in lingua inglese; neanche (e soprattutto) L’Istituzione negata (Basaglia, 1968). Questo libro invece fu rapidamente tradotto con successo in numerose altre lingue. Non ci sono spiegazioni convincenti per questa ‘non-traduzione’, anche se ci sono molte voci in proposito (alcuni sostengono che Laing bloccò una traduzione, ma non si è trovata alcuna prova a sostegno di uesta ipotesi. La mancata traduzione de L’Istituzione negata rappresentò un problema per gli ex-membri della équipe e, forse, in particolare, per Basaglia. Essi volevano avere influenza nel mondo di lingua inglese, un mondo che era stato fonte di ispirazione per loro e per la loro pratica.

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Altri scritti di Basaglia e del suo team sono stati tradotti in inglese in modo frammentario e di solito sono difficili da trovare o sono pubblicazioni in gran parte accademiche, spesso pubblicate molto tempo dopo che gli eventi descritti nel lavoro erano accaduti.

Vi è una collezione/studio dei suoi scritti curata da Scheper-Hughes e Lovell nel 1987, e un breve e molto citato articolo (Basaglia, 1981) apparso sulla rivista di psichiatria Critical Ingleby nei primi anni 1980. Tuttavia, la mancanza di una traduzione de L’Istituzione negata è stata particolarmente importante. In primo luogo, questo è il testo centrale del movimento, ed è stato influente in Francia e Germania. I lettori di lingua inglese non hanno mai avuto la possibilità di leggerlo. In secondo luogo, Basaglia è stato oggetto di una serie di studi estremamente ostili, ma influenti, in lingua inglese, negli anni ottanta, sulla scia della ‘Legge Basaglia’ e dei dibattiti nel Regno Unito circa la chiusura dei manicomi e le reazioni contro l”anti-psichiatria’ (Jones e Poletti 1984, 1985). Questi articoli hanno provocato dei commenti critici su Basaglia e sulla ‘Legge Basaglia’ in importanti libri sulla riforma psichiatrica e sul significato della malattia mentale, in particolare alla luce dei tentativi di riguadagnare il terreno perduto con Laing e il movimento dell’anti-psichiatria.

Un esempio lampante di questo tipo di analisi può essere trovato in The reality of mental illness (Roth e Kroll (1986). Questo libro è stato inteso come una controreplica agli anti-psichiatri ed è stato ampiamente letto in quel periodo. Sembrerebbe essere stata questa la fonte dei giudizi sprezzanti scritti da Porter e Scull. Roth e Kroll non erano neanche a conoscenza che Basaglia fosse morto nel 1980, quando scrivevano che ‘Basaglia è un marxista‘ (1986). Essi continuavano a sostenere che l’analisi di Basaglia sulla malattia mentale fosse stata ‘ideologicamente guidata, molto ingenua e, in un certo senso, molto dura’.

Basaglia è stato accusato senza mezzi termini di aver sbattuto i malati mentali in strada, per motivi politici, e la legge 180 è stata descritta come un ‘disastro’, in termini sociali e umani. La conclusione di questi autori fu che i pazienti mentali erano stati ‘sfruttati … come pedine in una lotta ideologica’ (1986). Roth e Kroll concludendo i loro commenti, si sono detti favorevoli all‘abrogazione della legge 180.

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La critica tagliente di Roth e Kroll aveva preso spunto, a sua volta, da un famigerato articolo pubblicato da Jones e Poletti (1985) sul British Journal of Psychiatry. Questo articolo, lungo sei pagine, aveva provocato un grande dibattito sulla rivista, tra cui una raffica di commenti critici. Nel loro articolo, Jones e Poletti parlavano della ‘esperienza italiana’ e della attuazione della legge 180, che fu approvata nel 1978, facendo solo riferimenti superficiali a ciò che era successo prima.

L’unico testo Basagliano esaminato in ogni dettaglio è stato un discorso che Basaglia fece nel Regno Unito nel 1979. Gli autori affermavano che l’approvazione della legge 180 era vista come una delle ‘grandi storie di successo della storia psichiatrica’ nel Regno Unito, e che pertanto ne volevano presentare un quadro più equilibrato. Il loro lavoro si è basato su una ricerca degli studi pubblicati e su un ‘viaggio di studio’ condotto in Italia nel 1984. In questo ‘tour’ essi visitarono una serie di istituti di salute mentale, ‘scelti a caso’. Essi hanno così sostenuto che la legge 180 aveva perso il sostegno popolare, e che sarebbe stata abrogata (il che ancora non è avvenuto). La parte finale di questo articolo esamina ciò che gli autori chiamavano “gli effetti negativi “della legge (prendendo a caso alcuni titoli di giornale, peraltro mal citati).

Questa legge dunque è stata accusata di tutta una serie di problemi sulla base di prove inconsistenti, e una parte di questa colpa è stato imputata alle idee e pratiche di Basaglia stesso. Scrivono infatti Jones e Poletti (1985) :

Una terza ragione [per i fallimenti della legge 180] è la possibile confusione tra il pensiero di Franco Basaglia, gli obiettivi attuali di Psichiatria Democratica, l’intenzione della legge 180, e il risultato. La teoria politico-sociale, la campagna di pressione di gruppo, la disposizione legislativa e lo stato dei servizi sette anni dopo, sono causalmente e temporalmente collegati, ma non identici. Basaglia, che aveva a cuore la condizione dei suoi pazienti, potrebbe averne avuta una visione molto diversa nel 1985, se fosse vissuto.

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L’articolo di Jones e Poletti del 1985 provocò molte prosteste (si veda, ad esempio, Saraceno, 2012), e gli autori furono costretti  a chiarire il loro pensiero in un articolo. Ciò implicò per loro ulteriori viaggi in Italia durante i quali, questa volta, visitarono Trieste. In un secondo articolo (1986), il quadro dipinto era dettagliato e positivo (su Trieste). Essi sostenevano tuttavia che l’ospedale non fosse in realtà stato ‘chiuso’ e misero in discussione i servizi istituiti in città (Jones e Poletti 1986; le critiche sono state di Lovestone 1985, 1988; Ramon, 1985; Tansella, 1986).

C’è stato un ampio dibattito tra i professionisti, gli attivisti e i ricercatori nel Regno Unito sulla esperienza Basagliana e soprattutto sul’impatto della legge 180, con valutazioni positive e negative del caso italiano, ma solo la parte negativa di questo dibattito sembra essere stata ripresa da molti commentatori. Non è vero che la reazione nel Regno Unito a questa legge e alle sue conseguenze sia stata universalmente negativa, ma alcuni punti di discussione sono stati dimenticati o marginalizzati. Così, può accadere che Basaglia possa essere semplicemente liquidato come un anti-psichiatra e le sue riforme ugualmente respinte, in quanto semplicemente portatrici di ‘caos’.

Molti attivisti e professionisti sono stati ispirati dall’esperienza Basagliana, in particolare dall’esperienza di Trieste, le discussioni storiche che si sono succedute però non hanno, con pochissime eccezioni, preso questo in considerazione (per un’eccezione, vedere Crossley, 2006) . La mancanza di testi chiave in lingua inglese, in particolare L’Istituzione negata (1968) e Che cos’è la psichiatria? (1967) hanno certamente impoverito il dibattito che ha avuto luogo. Questi commenti e questa focalizzazione solo su una parte della discussione hanno probabilmente portato Porter e Scull alle loro sprezzanti conclusioni.

Questo articolo è, in parte, un tentativo di correggere questa interpretazione, e di fornire (in lingua inglese) al movimento Basagliano un contesto storico e una testimonianza su quanto accadde prima della riforma del 1978. C’è ancora infatti un filone consistente di anti-Basagliani nel mondo accademico, come ad esempio, Romanucci-Ross e Tancredi, 2007, i quali descrivono la legge 180 e il movimento di Basaglia come un ‘esperimento fallito’ e un ‘grave errore culturale ‘.

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