Coco Chanel, creatrice di stile e di eleganza femminile

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Coco Chanel, creatrice di stile e di eleganza femminile


Gabrielle Bonheur Chanel, meglio conosciuta come Coco Chanel è un mito mondiale in campo femminile: la ricordiamo infatti come una delle prime donne-manager europee, una persona che, partendo dal nulla, fu abile a ‘farsi da sola’, a costruire un impero nel campo della moda, dove liberò la donna da costrizioni eccessive, introducendo uno stile elegante, pratico e intramontabile. Peccato che su altri fronti non fu sempre altrettanto illuminata: conosciamola meglio.

Infanzia e Adolescenza

Coco Chanel, il cui vero nome era Gabrielle Bonheur Chanel nacque il 19 agosto 1883 a Saumur, nel sud della Francia, dove crebbe in condizioni difficili. Dopo la morte della madre nel 1895, il padre la affidò a un orfanotrofio gestito dalle suore dell’Abbazia di Aubazine, dove apprese l’arte del cucito. Questa formazione le avrebbe fornito la base per la sua futura carriera nella moda.

A diciotto anni, lasciò l’orfanotrofio per lavorare come sarta e, nel tempo libero, si esibiva come cantante in caffè e cabaret. In questo periodo acquisì il nome d’arte di Coco.

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Coco

Quanto a questo famoso diminutivo, molti pensano che fosse un diminutivo affettuoso con cui la chiamavano in famiglia (significa “bestiolina”), altre voci fanno invece riferimento alla breve carriera della giovanissima Coco nei club di Vichy e Moulins, dove veniva appunto chiamata “Coco” e si esibiva come cantante. Le due spiegazioni potrebbero non essere in contrasto fra loro. Una terza ipotesi invece sostiene che Coco venga dall’abbreviazione di “cocotte”, la parola francese che indica la “mantenuta”, cioè una sorta di prostituta privata.

Gli inizi nel mondo della moda

Coco cominciò la sua attività nel 1909, cucendo cappelli, e già nel 1914 i suoi guadagni le permisero di aprire due negozi, uno a Parigi ed un altro a Deauville. Nel 1916 aprì un salone di alta moda a Biarritz, che nel 1920 trasferì a Parigi, in una zona frequentata da gente molto abbiente, rue Cambon, dove è ancora il suo atelier.

Questo fu possibile anche grazie a una relazione, iniziata nel 1908, con Étienne Balsan, un ufficiale di cavalleria appartenente all’alta società. Grazie a lui, Coco entrò in contatto con ambienti aristocratici e conobbe Arthur “Boy” Capel, un ricco imprenditore inglese che divenne il suo grande amore e finanziò l’apertura del suo primo negozio a Parigi nel 1910.

I suoi cappelli ebbero subito successo tra le donne dell’alta società, e così avvenne anche per una linea di abiti sportivi in jersey, un tessuto fino ad allora usato solo per la biancheria intima maschile. 

Le sue creazioni di questo periodo erano particolarmente in contrasto con quelle della belle époque, allora in gran voga: i suoi modelli erano minimalisti, informali e piuttosto mascolini (ad esempio non prevedevano corsetti).

Nelle sue parole: “Fino a quel momento avevamo vestito donne inutili, oziose, donne a cui le cameriere dovevano infilare le maniche: invece io avevo una clientela di donne attive; una donna attiva ha bisogno di sentirsi a suo agio nel proprio vestito”.

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Il suo stile 

Si dice che il suo stile nacque dalla mancanza di mezzi economici, che le impediva di comprare i vestiti in voga durante il periodo della sua giovinezza; fu così che cominciò a cucirseli da sola, usando le giacche sportive e le cravatte che erano, fino a quel momento, l’abbigliamento maschile di tutti i giorni .

La sua era una moda che tendeva a nascondere il lusso, piuttosto che ostentarlo, appropriandosi di stili, tessuti e articoli d’abbigliamento che prima di allora erano stati indossati solo dagli uomini: soprattutto si ispirò all’abbigliamento sportivo, che le donne non conoscevano ancora. “Come fa un cervello a funzionare sotto a certe cose?” diceva Coco, alludendo alla moda femminile del tempo, specialmente ai corsetti.

Il suo stile inconfondibile era dunque un mix di stile maschile e femminile, arricchito da gioielli. Lo stile Chanel contribuì alla emancipazione femminile, nella misura in cui permise la diffusione degli stili “garçon” e “soup kitchen”, con un look androgino, adatto alla donna dinamica.

I suoi primi capi includevano lana jersey, che era comoda e pratica, ma non veniva considerata elegante, il ‘vestitino nero’, lo stile unisex e la moda per lo sport. Gli accessori prevedevano perle e catene d’oro, gioielli veri accanto a bigiotteria di qualità, borsette imbottite con catene dorate che si indossavano sulle spalle, scarpe con due tonalità e gardenie. Coco diceva sempre che lei disegnava solo ciò che le sarebbe piaciuto indossare: se poi piaceva anche agli altri, la cosa non poteva che farle piacere.

Tra le sue creazioni più celebri vi sono:

  • Il tubino nero (1926): un capo essenziale che divenne simbolo di eleganza e versatilità. 
  • Il tailleur Chanel: composto da giacca senza colletto e gonna al ginocchio, spesso rifinito con dettagli in tweed.
  • La borsa 2.55 (1955): una delle prime borse con tracolla, pensata per la praticità.
  • Il profumo Chanel N°5 (1921): divenuto un’icona. Era venduto in una tipica bottiglia Art Deco. Fu il primo profumo a portare il nome di uno stilista e divenne in seguito il profumo più famoso del mondo, reso ancor più leggendario negli anni 50-60 da Marilyn Monroe, che dichiarò alla stampa di utilizzarlo come ‘pigiama’.

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La ricchezza e il successo

Coco divenne molto ricca e cominciò a frequentare uomini ancor più ricchi di lei. Le piaceva ricevere in dono dei gioielli costosissimi, che poi lei prese a copiare, per farne della bigiotteria da abbinare ai suoi modelli.

Nei primi anni ’30 ebbe una relazione importante con uno degli uomini più ricchi d’Europa, il Duca di Westminster, che le chiese di sposarlo. Cocò rispose: “Ci sono state parecchie Duchesse di Westminster, ma c’è una sola Chanel”.

Negli anni ’30, Chanel era ormai un nome di fama mondiale, vestiva star di Hollywood e collaborava con artisti come Jean Cocteau e Pablo Picasso.

La chiusura della Maison e il “periodo nero”

Nel 1939 la Chanel fu costretta a chiudere il proprio atelier, quando la Francia dichiarò guerra alla Germania.

Durante la guerra ebbe una storia d’amore con un ufficiale nazista che le fece perdere il successo e la simpatia dei francesi.

Si trattava del barone Hans Gunther von Dincklage, detto “Spatz”, ufficiale nazista, che le permise di vivere, durante gli anni dell’occupazione tedesca in Francia, al settimo piano del Ritz di Parigi. L’hotel era a quel tempo frequentato soprattutto da gerarchi nazisti di primissimo livello, come Goering e Goebbels.

Di lei, inoltre, ormai si conosceva il suo anti-semitismo (oltre agli ebrei, odiava i sindacati, il socialismo, il comunismo e la massoneria) e vi erano forti pettegolezzi sulla sua vita privata (si diceva che fosse lesbica e tossicomane, oltre che spia nazista).

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Il ritorno

Con la fine della guerra, Coco venne arrestata e liberata, poche ore dopo, grazie all’intervento diretto dell’amico Winston Churchill. Dopo la guerra la creatrice di moda negò di essere stata una spia nazista e si trasferì in Svizzera, per essere dimenticata.

Il 1954 vide il suo grandioso ritorno sulle scene della moda mondiale, forse per poter meglio fronteggiare il calo delle vendite dei profumi, forse per il disgusto da lei provato per ciò che vedeva nella moda del momento (New Look di Dior), o semplicemente per noia, per tornare ad essere una protagonista della vita mondana. Coco Chanel propose abiti pratici e senza costrizioni, ottenendo nuovamente successo, soprattutto negli Stati Uniti. Coco aveva al tempo 71 anni.

Non si sposò mai. Del resto non aveva un buon concetto degli uomini, che riteneva dei semplici accessori nella vita di una donna.

La morte e cosa ci resta di lei

Coco Chanel morì il 10 gennaio 1971 all’Hôtel Ritz di Parigi, dove aveva vissuto per anni. Aveva 87 anni e stava preparando la collezione di quello stesso anno. È sepolta a Losanna sotto cinque teste di leone (il suo numero e il suo segno), scolpite nel marmo.

Il suo stile senza tempo continua a influenzare la moda e la Maison Chanel, sotto la guida di stilisti come Karl Lagerfeld, ha mantenuto il suo spirito innovativo e raffinato.

Il suo lascito non riguarda solo la moda, ma anche un’idea di femminilità emancipata, libera dai canoni rigidi del passato.

Cocteau diceva di lei che era ‘particolare’, per quel suo creare abiti secondo regole che sembravano poter avere valore solo per i pittori, i musicisti, i poeti… Un’artista dunque, prima che una manager.

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Colette: un'icona della letteratura francese

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Colette scrisse una ottantina di libri, ma non solo per questo è un vero e proprio mito letterario, soprattutto in Francia, dove in vita è stata insignita delle più importanti onorificenze accademiche ed è stata la prima donna a ricevere funerali di stato. Tutto questo, nonostante una vita privata licenziosa e ricca di scandali. Conosciamola meglio.

Infanzia

Sidonie-Gabrielle Colette nacque a Saint-Sauveur en Puisaye il 28 gennaio 1873. Colette era il cognome del padre, il capitano a riposo Jules-Joseph Colette (zuavo, aveva perso una gamba nella battaglia di Melegnano), sposato con la vedova Adèle-Eugénie-Sidonie Landoy, detta Sido. La madre di Colette era una donna molto intelligente e sagace, ma anche stravagante: femminista, atea, non aveva timore di disturbare il parroco di Saint-Sauveur con il suo cane o nel leggere un libro di Corneille nascosto nel messale.

La famiglia della futura scrittrice era “allargata”, visto che vi era una sorellastra di primo letto, Juliet ( 1860-1908),  un fratellastro, Achille (1863-1913) e un fratello naturale, Leopoldo (1866-1940).  La famiglia Colette viveva nella campagna della Borgogna e la piccola Garielle fu molto amata dai suoi genitori. La sua bellissima infanzia è rievocata nel romanzo La Maison de Claudine.

Gabrielle cominciò giovanissima a leggere i classici e a prendere lezioni di francese da suo padre, che era un grande lettore. Sembra però che sua madre, Sido, amasse il lusso e spendesse molto, per cui la famiglia dovette affrontare seri problemi finanziari e lasciare Saint-Sauveur per stabilirsi, nel novembre 1891, a Châtillon-sur-Loing, in una casa più piccola.

Gli esordi e il matrimonio con Willy

A venti anni Gabrielle incontrò Henri Gauthier Villars, detto Willy, un tipico dongiovanni della Belle Epoque parigina, che aveva quattordici anni più di lei. Si sposarono il 15 maggio 1893. Willy introdusse la moglie nella Parigi mondana, che sorprendeva Colette, più che affascinarla, essendo lei molto giovane ed abituata a vivere nella tranquilla campagna borgognese.

Willy era un uomo molto in vista nell’ambiente artistico parigino, amava essere al centro dell’attenzione, provocare e scandalizzare. Essendo editore, pubblicitario, giornalista di satira di costume e critico musicale, veniva avvicinato da molti aspiranti scrittori di romanzi in cerca di editore: Willy pubblicava questi lavori, firmandoli come autore. Fu così che chiese anche alla moglie, che spesso diceva di annoiarsi a Parigi ed era depressa per i continui tradimenti di lui, di scrivere per lui un romanzo sul genere di “Le petit Chose” di Alphonse Daudet, che al tempo andava molto di moda.

Nacque così, nel 1900, Claudine à l’école, scritto da Colette e firmato da Willy. Fu un grande successo e ad esso seguì tutta la serie dei libri, piuttosto osé per il tempo, della protagonista Claudine: Claudine à Paris , Claudine en menage e Claudine s’en va. Willy, abile pubblicitario, seppe trasformare il personaggio di Claudine in un marchio commerciale che poi mise in vendita, ad uso di fabbricanti di oggetti vari (moda e profumi alla “Claudine”), o trasposizioni teatrali, per cabaret e caffé-concerto.

La coppia Willy-Colette, nonostante fosse onnipresente nelle riunioni della Parigi intellettuale e artistica di inizio secolo, cominciò però presto a sfaldarsi, per i continui tradimenti di lui, cui lei rispondeva con amori saffici, che il marito non riteneva dei veri tradimenti. La goccia che fece traboccare il vaso nella coppia fu la scoperta che Georgie Raoul-Duval, affascinante moglie di un miliardario americano con cui Colette aveva stretto una relazione intima, in realtà aveva una relazione in contemporanea anche con suo marito Willy.  Nel 1906 i due si lasciarono.

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L’indipendenza e la carriera artistica

Dopo il divorzio, Colette si affermò come scrittrice indipendente e intraprese anche una carriera nel teatro e nel varietà, sfidando le convenzioni dell’epoca.

Sul piano sentimentale, Colette strinse amicizia con Mathilde de Morny detta Missy, marchesa di Belbeuf, più anziana di lei di dieci anni, che prediligeva abiti e atteggiamenti maschili. La relazione con Missy fu molto chiacchierata, anche perché le due donne non facevano assolutamente nulla per nascondere il legame omosessuale che le univa. Una sera del 1907, Colette e la marchesa scioccarono il pubblico al Moulin Rouge, quando cominciarono a scambiarsi baci profondi sul palco, in occasione della pantomima Rêve d’Égypte: dopo la seconda rappresentazione il prefetto vietò lo spettacolo. Missy era molto prodiga di regali verso Colette, cui regalò anche una casa a Rozven, ma la loro relazione finì, quando nella vita di Colette tornarono di attualità dei personaggi maschili.

Questo periodo della vita ispirò Colette nello scrivere La Vagabonde, pubblicato nel 1910 (che per poco non vinse il prestigioso premio Goncourt) e L’Envers du music-hall, del 1913.

Intanto, per guadagnarsi da vivere, incoraggiata dal comico e mimo Georges Wague, Colette aveva iniziato nel 1906 una carriera nei music-hall, dove mimava donne orientali in abiti molto leggeri (la prefettura vietò la sua pantomima in cui appariva nuda sotto una pelle di pantera). Si esibì a Parigi al Marigny, al Moulin Rouge, al Bataclan e in altre città di provincia.

Dopo il definitivo divorzio dal marito, nel 1910,  Colette fu ammessa alla Société des Auteurs e questo fu il primo passo per intraprendere una serie di azioni legali contro l’ex, che le permisero di inserire anche il suo nome nella serie Claudine, ottenendo anche una percentuale sulle vendite, oltre che i diritti dei due romanzi Minne, anch’essi pubblicati a nome del marito, che vennero fusi in un unico, nuovo, romanzo, pubblicato con il titolo L’ingénue libertine. Iniziò in questo periodo anche le sue collaborazioni giornalistiche con il Paris-Journal e Le Matin,

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Nuovo matrimonio e nascita della figlia

Nel 1912 morì la signora Sido e due mesi dopo, il 19 dicembre 1912, Colette si sposò, incinta,  con Henry de Jouvenel, co-direttore del giornale “Le matin” . Il 3 luglio 1913, da questa unione, nacque una bambina, che i genitori chiamarono  Colette Renée, detta affettuosamente “Bel-Gazou” (Bel Cinguettio), che fu però presto affidata ad una governante inglese e allevata in campagna, a Castel-Novel, lontana dalla madre, la quale si manteneva in contatto con la figlia soprattutto per corrispondenza. (Bel Gazou fu la protagonista della storia La Paix chez les bêtes del 1916).

Con lo scoppio della prima guerra mondiale, Colette andò  a trovare il marito al fronte, a Verdun, per portargli provviste alimentari e scrivere dei reportage che la porteranno anche in Italia, dove conobbe D’Annunzio.

Nel 1919 uscì Mitsou  (Mitsou ou Comment l’ésprit vient aux filles) apprezzato anche da Marcel Proust, che ne scrisse:

Ho un poco pianto stasera, per la prima volta dopo molto tempo, eppure da un pezzo sono oppresso da dispiaceri, da sofferenze, e da seccature. Ma se ho pianto non è per tutto questo, è leggendo la lettera di Mitsou… Le due lettere finali sono il capolavoro del libro”.

Quando, dopo la guerra, Henry de Jouvenel riprese il suo lavoro di direttore a Le Matin, Colette venne nominata caporedattrice della sezione letteraria e di critica teatrale.

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Lo scandalo familiare

Poco dopo, Colette iniziò una storia con il figlio di primo letto di suo marito, che aveva allora sedici anni, Bertrand. Lei aveva 47 anni quando iniziò questa relazione, che durò cinque anni e si consumò in viaggi e in incontri clandestini in un piccolo appartamento preso in affitto da Colette. Nel 1920, ispirato a questa storia, venne pubblicato a puntate il romanzo Chéri, che suscitò scandalo, anche se fu apprezzato da André Gide, che lo commentò con queste parole: “Da un capo all’altro del libro, non un cedimento, non una ridondanza, non un luogo comune”e anche “Che splendido argomento è quello che ha scelto! E con quale intelligenza, padronanza e conoscenza dei segreti meno confessati della carne”. Lo stesso anno Colette venne insignita della Legion d’onore, con il grado di Cavaliere.

Questi sono gli anni di “apprendistato”, come li chiamò la scrittrice nel libro autobiografico del 1936, Mes Apprentissages. I suoi maggiori successi vennero tuttavia a partire dagli anni venti e seguirono due filoni: quello che narrava la vita della giovane generazione un po’ depravata del dopoguerra (Chéri, 1920 e La Fin de Chéri, 1926​​ e Le Blé en herbe 1923). Il secondo filone guardava invece al suo passato, descrivendo la campagna della sua infanzia incantata, lontano dai piaceri e dalle disillusioni delle relazioni amorose (La Maison de Claudine, 1922 e Sido, 1930).

Nel 1923 uscì a puntate su Le MatinIl grano in erba (Le blé en herbe), la cui pubblicazione venne interrotta per scandalo dopo quattordici puntate.  Lo stesso anno il libro venne pubblicato in volume e fu questo il primo libro firmato solo Colette.  Nel frattempo, travolta dallo scandalo causato da questa relazione quasi incestuosa di lei e dai tradimenti di lui, Colette e il marito iniziarono le trattative per il divorzio.

L’anno successivo Colette abbandonò il giornale del marito e cominciò a scrivere per Le Figaro, vivendo dei proventi da giornalista e continuando a pubblicare altri libri (La Femme cachée e Aventures quotidiennes).


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Terzo matrimonio

Nel 1925 la scrittrice portò in tournée la commedia Chéri, di cui Maurice Ravel musicò l’opera. In occasione di questo spettacolo, a Montecarlo, Colette conobbe Maurice Goudeket, un commerciante di perle di origine ebrea, che diventerà in seguito il suo terzo marito. L’ultima fiamma di Colette era più giovane di lei di circa quindici anni; con lui la scrittrice fu molto felice e andò a vivere al Palais-Royal, sotto le gallerie di Philip-Egalité.

Nel 1926 uscì La fine di Chéri (La fin de Chéri), il seguito di Chéri, nel quale il protagonista, perseguitato dai ricordi del suo amore per “Léa” muore suicida. Colette  continuò a lavorare in teatro teatro, nella parte di “Renée” in La vagabonde, opera tratta dal suo omonimo romanzo.

Colette e il femminismo

E’ interessante notare che questa donna, libera nei costumi e emancipata, fosse di fatto contraria al movimento di liberazione della donna. Nel 1927 Walter Benjamin, filosofo, scrittore e critico letterario, la intervistò e le chiese cosa pensasse del nascente femminismo, per un giornale tedesco. E lei rispose: ‘Sapete che quando le donne acquisiscono potere sono assolutamente orribili. Sono peggio degli uomini. E non solo questo. Anche se conosco molte donne intelligenti e competenti, che potrebbero essere fantastici giudici e ministri, comunque hanno il loro ciclo ogni mese. Ed è risaputo che non si possono prendere decisioni quando si ha il ciclo’.

Primi riconoscimenti e nuove attività

Nel 1928 uscì La nascita del giorno (La naissance du jour), una serie di ricordi familiari, in particolare di sua madre. Sempre nel 1928 venne promossa al grado di Ufficiale della Legion d’onore.

In questo periodo Colette si dedicò anche alla pubblicità:  nel 1926 scrisse una pubblicità in versi per le Pellicce Max, cui seguì un testo per la Fiera del Bianco di un grande magazzino e nel 1933, per le macchine Ford e concesse l’impiego del suo volto e del suo nome per la pubblicità delle sigarette Lucky Strike.

Nel 1930 uscì Sido, il romanzo di ricordi su sua madre e, durante un viaggio in crociera, iniziò a scrivere Ces plaisirs… (il futuro Il puro e l’impuro) e pubblicò Histoires pour Bel-Gazou.

Nel 1931 morì l’ex marito Willy e Colette si fece notare per la sua assenza ai funerali. Lo stesso anno uscì un film tratto da La vagabonda, con la sceneggiatura di Colette, primo film sonoro in Francia. Uscì anche Ces plaisirs…, a puntate, sulla rivista Gringoire, ma per la scabrosità dell’argomento, la pubblicazione venne interrotta dopo solo tre puntate.

Nel 1932 Colette, a causa della crisi economica, aprì un istituto di bellezza nel quale distribuiva consigli di make-up e di bellezza alle ricche donne parigine, che truccava personalmente.  L’impresa ebbe successo e ad essa seguirono quattro succursali e altri negozi che vendevano prodotti e i cosmetici pubblicizzati e curati da Colette, con la sua immagine nelle etichette, disegnata da lei stessa.

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Nel 1933 collaborò ad una sceneggiatura per il cinema, divenne critico teatrale per Le Journal, e pubblicò La gatta (La chatte).

Nel 1935 si sposò con Goudeket e  e con lui partì per il viaggio di nozze in America, dove era inviata speciale per Le Journal.  Lo stesso anno anche sua figlia Colette si sposò, per separarsi poi, con grande scandalo, poche settimane dopo il matrimonio.

Nel 1936 la scrittrice divenne Commendatore della Legion d’onore e venne ufficialmente eletta membro dell’Académie royale belge de langue et de littérature françaises. Nel 1938 iniziò a collaborare con Paris-Soir.

Problemi fisici e tempi di guerra

Nel 1939 le venne diagnosticata un’artrosi all’anca. Allo scoppio della seconda guerra mondiale collaborò anche per Radio Paris-Mondial, assieme al marito. Quando i nazisti entrarono a Parigi e cominciarono a prelevare ebrei da inviare nei campi di internamento, tra questi vi fu anche Maurice. Colette riuscì a farlo liberare, grazie alle sue influenti conoscenze, anche se il marito uscì da questa esperienza in condizioni fisiche disastrose.

Nel 1943 l’artrosi di cui soffriva la scrittrice peggiorò e finì in seguito per immobilizzarla  completamente. In questi anni Colette, che amava mangiare ed anche cucinare, pesava circa 90 chili, ma riusciva comunque a rendersi affascinante.

Il successo con “Gigi” e il riconoscimento ufficiale

Negli ultimi anni della sua carriera, Colette ottenne un riconoscimento ancora maggiore grazie a Gigi (1944), romanzo che racconta la storia di una giovane educata a diventare una cortigiana ma che sceglie un destino diverso. Il libro ispirò il celebre film e musical di Broadway.

Nel 1945 Colette venne eletta membro dell’Académie Goncourt, seconda donna dopo la scrittrice Judith Gautier

Nel 1948 si occupò della raccolta dell’intera sua opera per l’edizione Le Fleuron, diretta dal marito, e pubblicata poi in 15 volumi (Œuvre complete, 1948-1950).

Nel 1949 la fama di Colette  era già elevatissima. Era infatti considerata un “monumento delle lettere francesi, istituzione vivente, testimone del tempo”. Nel suo appartamento al Palais-Royal Colette, semiparalizzata,  riceveva visite e  lavorava. Divenne Presidente dell’Académie Goncourt e pubblicò Le fanal bleu e il suo ultimo libro, En pays connu, una raccolta di scritti.

Nel 1951, tornata a Montecarlo sempre in cerca di cure, notò all’Hôtel de Paris una giovane attrice, Audrey Hepburn, e la scelse personalmente per interpretare la commedia Gigi, l’ultimo dei capolavori di Colette (scritto sulla carta azzurrina che lei preferiva, con una batteria di penne stilografiche sottomano e una lampada velata di azzurro, il suo fanal bleu). Il romanzo fu infatti portato sullo schermo da Audrey Hepburn e fu un successo mondiale.

L’anno seguente le sue condizioni di salute peggiorano sempre di più. Nel 1953 in occasione dei suoi 80 anni, l’idolatrata Colette ricevette altri tributi e onorificenze, quali la medaglia della Città di Parigi, l’elezione a membro onorario del National Institute of Art and Letters di New York, e il grado di Grand’Ufficiale della Legion d’onore.

La morte

Nel 1954, giunta al termine della sua lunga malattia, circondata dai suoi gatti, nel bellissimo appartamento del Palais Royal, con Parigi ai suoi piedi, Colette morì, il 3 agosto. La Chiesa cattolica, che non aveva mai apprezzato i suoi romanzi, né il suo stile di vita, rifiutò i funerali religiosi.

Ciò nonostante Colette, prima donna in Francia, ricevette le esequie di stato nella corte d’onore del Palais-Royal. È sepolta nel cimitero di Père Lachaise.

L’eredità di Colette

Colette è oggi ricordata non solo per la sua scrittura elegante e sensuale, ma anche per il suo spirito libero e la sua capacità di infrangere le convenzioni. Il suo lavoro continua a essere studiato per la sua profondità psicologica e per il suo ritratto complesso delle relazioni umane e della condizione femminile. Nel 2018 è uscito il film biografico Colette, con Keira Knightley, regia di Wash Westmoreland.

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Perché in alcune lingue si parla più velocemente

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… E’ solo una percezione?

Please speak slowly! Quante volte lo avete detto ad un inglese che vi parla alla velocità della luce? Tutti abbiamo la sensazione, quando non parliamo benissimo una lingua straniera, che i nativi parlino troppo velocemente. Ultimamente anche molti immigrati, che stanno imparando a fatica l’italiano, ci chiedono di parlare più lentamente. Ma è solo una percezione, o ci sono alcuni che parlano più velocemente di altri?

Le differenze nella velocità del parlato tra le lingue

Le differenze nella velocità del parlato tra le lingue hanno suscitato l’interesse di linguisti e psicologi cognitivi. Alcune lingue, come lo spagnolo o il giapponese, vengono percepite come molto rapide, mentre altre, come il tedesco o il mandarino, sembrano avere un ritmo più lento. Questo fenomeno non è casuale, ma è il risultato di una combinazione di fattori linguistici, cognitivi e culturali.

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La densità informativa

Uno degli aspetti chiave per comprendere le differenze di velocità tra le lingue è la densità informativa, ossia la quantità di informazioni trasmesse per sillaba. Uno studio di Pellegrino, Coupé e Marsico (2011) ha dimostrato che lingue con una densità informativa più bassa (come lo spagnolo) tendono a essere parlate più velocemente rispetto a lingue con una densità informativa più alta (come il cinese mandarino). Questo equilibrio consente di mantenere un flusso informativo relativamente costante indipendentemente dalla lingua utilizzata.

Una curiosità: il vietnamita è stato usato come lingua di riferimento perché le sue sillabe sono considerate dai linguisti particolarmente dense di informazioni, e a questa lingua è stato dato  un valore arbitrario 1.

L’elaborazione cerebrale

Dal punto di vista psicologico, il ritmo del parlato è legato alla capacità del cervello di elaborare le informazioni linguistiche. Le lingue che richiedono un’elaborazione più complessa a livello fonologico e sintattico potrebbero essere articolate con maggiore lentezza. Ad esempio, lingue con strutture grammaticali più flessibili e un numero elevato di morfemi per parola, come il finlandese, tendono ad avere un parlato più lento.

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Confronti

L’inglese presenta una densità di informazioni di 0,91 (alta) e viene parlata pronunciando circa 6,19 sillabe al secondo. Il mandarino, con una altissima densità di significato delle sillabe, a 0,94, è la lingua parlata più lentamente, con 5,18 sillabe al secondo. Lo spagnolo ha una bassa densità di significati: 0,63, per cui la velocità media è di 7,82 sillabe al secondo (l’italiano non sarà così diverso…). La lingua pronunciata a maggiore velocità è tuttavia il giapponese: 7,84 sillabe al secondo, grazie alla sua bassa densità di 0,49.

Influenze culturali

La cultura, inoltre, influenza profondamente il modo in cui le persone parlano e ascoltano. In alcune società, la comunicazione verbale è rapida e dinamica, riflettendo un’interazione sociale vivace (come nei paesi mediterranei), mentre in altre culture prevale un ritmo più rilassato e riflessivo (come nelle culture nordiche o giapponesi). Questo ha un impatto sulla velocità del parlato, perché le norme sociali regolano i turni di conversazione e il tempo concesso per elaborare una risposta.

Nonostante queste differenze però, alla fine, dopo un minuto di discorso, tutte le lingue trasmettono una più o meno identica quantità di informazioni. Come mai?

Perché vi è una sorta di compromesso tra densità di informazioni nelle sillabe e il loro tasso di trasmissione: un linguaggio denso, si avvarrà di meno parole.

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Freud, i sogni ed il sogno dell'iniezione di Irma

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L’iniezione di Irma è il nome dato al sogno che Sigmund Freud fece la notte del 23 luglio 1895. Freud usò l’analisi di questo sogno per arrivare alla sua teoria secondo la quale i sogni rappresentano l’appagamento di un desiderio rimosso.

“L’iniezione di Irma” fu il primo sogno che Freud analizzò meticolosamente, anche se ammise che la sua interpretazione poteva avere delle lacune e che forse non aveva scoperto completamente il significato del sogno.

Chi era Irma

Irma (vero nome Emma Eckstein) era una giovane donna che aveva un legame di amicizia con Freud e la sua famiglia. Freud l’aveva presa in cura durante l’estate del 1895, per una sintomatologia di tipo isterico, ma non aveva portato a termine il trattamento perché a un certo punto aveva proposto alla paziente-amica una particolare soluzione terapeutica che però Irma non si era mostrata disposta ad accettare.
Il trattamento di Irma fu dunque un parziale insuccesso, in quanto terminò prima di essere completato.

L’antefatto

Il giorno del sogno, il collega Otto disse a Freud che recentemente aveva avuto modo di vedere Irma. Freud gli chiese allora come stava. La risposta fu: “Sta meglio, ma non del tutto bene”.

Freud aveva interpretato questa risposta di Otto come un’allusione al carattere incompleto dei risultati della cura e dunque una sorta di rimprovero a lui e alle sue capacità professionali.

La sera stessa, Freud aveva iniziato a scrivere una dettagliata relazione su come si era svolta la terapia di Irma. Poi l’aveva sognata.

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L’iniezione di Irma: il sogno

Freud lo descrisse come segue:

Un grande salone – stavamo ricevendo numerosi ospiti. – Tra di essi c’è Irma. Io la presi in disparte, come per rispondere alla sua lettera e rimproverarla di non aver ancora accettato la mia «soluzione».

Le dissi: «Se hai ancora dei dolori è davvero solo colpa tua». Mi rispose: «Se solo tu sapessi che dolori ho ora in gola, nello stomaco e nel ventre, mi soffocano». Io mi spaventai e la guardai.

Era pallida e gonfia. Pensai che dopo tutto dovevo aver trascurato qualche disturbo organico. La portai vicino alla finestra e le guardai in gola, e lei mostrò una certa riluttanza, come le donne con la dentiera.

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Io pensai che veramente non c’era bisogno di farlo. Poi lei aprì bene la bocca e sulla destra trovai una grande macchia bianca; in un altro punto vidi delle estese croste grigiastre su delle forme notevolmente incurvate, che imitavano evidentemente le cavità nasali. Chiamai subito il Dr. M. ed egli ripeté l’esame e lo confermò…

Il Dr M. sembrava molto diverso dal solito, era pallido, zoppicava e non aveva la barba… Anche il mio amico Otto era ora vicino a lei, e il mio amico Leopoldo stava percuotendo il suo petto e diceva: «Ha un’area ottusa in basso a sinistra». Indicò anche che una parte della pelle sulla spalla sinistra era infiltrata (lo sentii come lui, nonostante il vestito)…

M. disse: «Non c’è dubbio, si tratta di un’infezione, ma non importa: interverrà la dissenteria e le tossine saranno eliminate»… Noi conoscevamo anche l’origine dell’infezione. Non molto prima, quando lei si sentiva poco bene, il mio amico Otto le aveva fatto un’iniezione di propile… propili… acido propionico… trimetilammina (e vidi davanti a me la formula stampata in grassetto)… Iniezioni di quel genere non si dovrebbero fare così sconsideratamente… E probabilmente la siringa non era pulita.


Subito dopo il risveglio, Freud trascrisse il sogno e così, in sintesi, lo interpretò:

Interpretazione del sogno di Irma (sintesi)

Freud prende in considerazione vari aspetti del sogno, legandoli alla propria vita reale e facendo moltissime associazioni.

Il sogno si svolgeva, ad esempio, in un salone, perché a breve sarebbe stato il compleanno della moglie e avrebbero dato una festa, ricevendo ospiti, fra cui la stessa Irma, nella casa di vacanza di Bellevue.

Freud si sofferma sul personaggio di Otto e Leopold, due sue amici e colleghi, mettendo in evidenza la rivalità professionale tra i due.  Otto era una persona impulsiva e superficiale, mentre Leopold era invece un tipo molto scrupoloso. Nel sogno però è proprio Otto a rimproverare Freud di non essere stato abbastanza scrupoloso.

Poi si parla di un liquore, regalato da Otto a Freud, il cui odore disgustoso ricordava il propile. La trimetilamina ricordata nel sogno era invece in relazione ad un errore medico del suo amico Fliess.  Due mesi prima del sogno, Freud aveva infatti indirizzato la sua amica Emma Eckstein a Wilhelm Fliess per un intervento di chirurgia nasale, le cui conseguenze erano state quasi fatali per la Eckstein, che era rimasta permanentemente sfigurata.

C’è poi, in questa storia, l’associazione con la cocaina, che Freud aveva prescritto ad un suo amico che poi era morto. Freud non gli aveva detto di somministrare l sostanza per via endovenosa, tuttavia la morte dell’amico inevitabilmente gli causò un senso di colpa.

Quanto all’iniezione, Freud si recava periodicamente da una signora per farle delle iniezioni: una volta la signora ebbe un’infezione, verosimilmente perché non era stata disinfettata bene la ferita.

Nel sogno ci sono elementi che spostano le colpe su altri personaggi, che ‘non sono bravi medici’,  che ‘non sono prudenti’, come probabilmente si era sentito l’autore del sogno nei casi dei suoi insuccessi.

La conclusione cui giunge lo psicoanalista è che quel sogno aveva lo scopo di vendicarsi di Irma per non aver portato a termine il trattamento e scaricarsi delle responsabilità della colpa.

Di Irma si era vendicato, nel sogno, sostituendola con una sua amica, di Otto attribuendogli una iniezione evidentemente pericolosa, e del Dr. M. facendogli pronunciare un parere scientificamente discutibile sulla dissenteria, come rimedio all’intossicazione.

ll sogno inoltre liberava Freud dalla responsabilità per le condizioni di Irma, dimostrando che esse erano dovute ad altri fattori che non erano di sua competenza.

LibriAutori:
Dr. Giuliana Proietti - Dr. Walter La Gatta

“Quindi il suo contenuto costituiva la realizzazione di un desiderio ed era provocato da questo

dice Freud e conclude:

“Non pretendo di aver completamente scoperto il significato di questo sogno o che la sua interpretazione sia priva di lacune.
Potrei passarci più tempo, trarne altre informazioni, e discutere nuovi problemi che esso solleva. Io stesso conosco i punti dai quali si potrebbero seguire nuove catene di pensieri.
Ma mi trattiene dal continuare questo lavoro interpretativo il riserbo che si presenta per ogni mio sogno. Se qualcuno si sentisse tentato ad esprimere un’affrettata condanna alla mia reticenza, lo inviterei a provarsi ad essere più sincero di me.
Per il momento mi basta aver raggiunto questa nuova conoscenza. Se adottiamo il metodo di interpretazione dei sogni che ho appena indicato, scopriremo che essi hanno davvero un significato e che sono lungi dall’essere l’espressione dell’attività frammentaria del cervello, come fonti autorevoli hanno affermato”.

I critici hanno invece sostenuto che il sogno di Irma è la dimostrazione che i sogni possono essere interpretati trovandovi esattamente quello che si vuole cercare: ad esempio, in questo sogno, sorprendentemente, non vi si trovano riferimenti sessuali, che pure vi sarebbero, come la bocca che Irma non voleva aprire o la siringa infetta.

Fonte: S. Freud, L’interpretazione dei sogni, ed. Newton Compton
Immagine del sogno: Psychoanalitic Electronic Publishing

Dott.ssa Giuliana Proietti

Relazione sull'Innamoramento - Festival della Coppia 2023

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I Social
Immagina la poesia: il mondo di John Lennon

L’urlo primordiale di John Lennon

L’urlo primordiale di John Lennon

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Aprile 1970… Il mondo della musica (e non solo) è scosso dalla notizia che i Beatles si sono ufficialmente sciolti. Il gruppo, considerato al momento il più famoso di tutti i tempi (e per molti, ancora oggi lo è), lascia i suoi fans increduli e sotto shock.

È Paul McCartney, in occasione della promozione del suo album da solista di debutto, ad annunciare la sua decisione di lasciare la band. Ormai da due anni però i quattro membri stanno seguendo percorsi separati: George Harrison ha intrapreso un nuovo cammino pubblicando una colonna sonora di musica indiana e un album di sperimentazioni elettroniche, Ringo Starr partecipa a delle sessions con altre band, Paul McCartney sta appunto pubblicando il suo primo album solista…ma anche John Lennon ha già preso la sua strada, annunciando ai suoi compagni l’addio il 20 settembre 1969 e poi ha trovato il vero amore in Yoko Ono… John scrive “finalmente ho incontrato Yoko e il sogno è divenuto realtà”.

Come Together Immagina la poesia: il mondo di John Lennon

Yoko Ono ha un’influenza profonda e complessa sul nostro, sia a livello personale che artistico. Alla fine degli anni ’60, quando John Lennon incontra Yoko Ono, lei sta già sviluppando il suo approccio artistico anticonvenzionale, che mescola arte visiva, musica e performance. La sua visione influenza profondamente Lennon, spingendolo a esplorare nuove idee e a riflettere su temi di pace, amore e giustizia sociale. Nonostante le critiche da parte dei Beatles e dei fan per l’influenza di Yoko su Lennon, la sua spinta alla riflessione lo aiuterà ad affrontare i suoi conflitti interiori. Chi può dire se, senza di lei, “Imagine” sarebbe mai nata?

Le interviste

 

Lennon, sempre alla ricerca di risposte, è anche segnato dalla tossicodipendenza. Ha conosciuto per di più Timothy Leary e le sue teorie stravaganti culminate nella convinzione che l’assunzione di LSD  in dosi appropriate e in un contesto ambientale ben definito, (preferibilmente sotto la supervisione di un professionista) potrebbe favorire cambiamenti positivi nei comportamenti degli individui.

Tra gli obiettivi principali delle sue ricerche ci sono l’individuazione di trattamenti più efficaci per l’alcolismo e la cura e l’educazione dei criminali recidivi. A causa dei suoi atteggiamenti anticonformisti, viene dichiarato da Richard Nixon come “l’uomo più pericoloso d’America“. Vengono approvate severe leggi antidroga e celebrato un processo in cui viene condannato per possesso di droghe. Pare che la famosa canzone “Come Together” dei Beatles sia stata ispirata da una richiesta di Leary che ne vuole fare il suo lo slogan per la campagna a Governatore della California.

Vivendo un periodo di nevrosi John Lennon un giorno riceve una lettera con un libro intitolato “The Primal Scream”, che lo colpisce per la parola scream, “urlo” primordiale. Il libro racconta la storia di un paziente che, sotto la terapia di Arthur Janov, regredisce emotivamente all’infanzia, urlando come un bambino “Mamma, Papà!”. Un urlo disumano che però pare liberarlo di antiche paure.

Quest’esperienza impressiona Lennon, che decide di contattare Janov, trovando in quel concetto la possibilità di un urlo liberatorio per se stesso. Infatti il concetto è che questo grido, che si suppone simboleggi il ritorno al dolore originario vissuto durante l’infanzia, può aiutare una persona a fare i conti con emozioni bloccate e a curare traumi psicologici.

Il grido diventa così un mezzo per “rompere” le barriere emotive, liberando l’individuo dal dolore nascosto. Janov è convinto che con questo metodo si possa curare non solo la nevrosi ma anche l’omosessualità, la tossicodipendenza, l’alcolismo, l’asma, ulcere e mal di testa. E’ stato lui stesso ad inviare una copia a John Lennon e a Mick Jagger dei Rolling Stones. John Lennon accetta una terapia di sei mesi che però rimane incompiuta perché l’Immigration and Naturalization Service si rifiuta di prolungare il visto dei Lennon. Anche se John ha fatto solo quattro mesi di terapia, dice che ha beneficiato moltissimo dell’esperienza. Si riprende, impara delle lezioni su se stesso che non scorderà più e trova il materiale per il suo album traendo ispirazione dall’esperienza fatta: “La terapia è stata la cosa più importante che mi sia capitata oltre a conoscere Yoko e a essere nato”.

Esce il disco “John Lennon/Plastic Ono Band” che è realizzato in contemporanea con il debutto discografico di Yoko Ono: “Yoko Ono/Plastic Ono Band”. Non solo i titoli, ma anche le copertine dei due dischi sono speculari: sulla copertina dell’album di Yoko, lei è sdraiata su Lennon, mentre su quella dell’ex Beatle è lui ad essere sdraiato su di lei. sul retro una foto di Lennon da bambino, su quello di lei una foto di Yoko da bambina.

L’album presenta una struttura unica, con 5 canzoni per facciata, che seguono un schema speculare. Ogni canzone della facciata A si alterna con la canzone corrispondente della facciata B, creando una sorta di dialogo musicale tra le tracce. In questo modo, la prima canzone della facciata A si rispecchia nella prima della facciata B (1A con 1B), la seconda della facciata A si specchia nella seconda della facciata B (2A con 2B), e così via per tutte le tracce dell’album. Questo gioco di specularità conferisce un ulteriore livello di profondità all’ascolto, quasi come se le canzoni fossero specchi riflettenti l’una dell’altra.

Clinica della Timidezza
Dal 2002 parole che curano, orientano e fanno pensare.

A nostro avviso rappresenta la vetta più alta della carriera di Lennon in quanto l’artista si è immerso profondamente nell’esplorazione della propria anima. È un disco che non può non impressionare, caratterizzato da parole dirette e una strumentazione essenziale: piano, chitarra, basso e batteria. L’album inizia e si conclude con due canzoni dedicate alla madre: “Mother” e “My Mummy’s Dead”. Fin dalle prime note, siamo catturati da un senso di sgomento, accentuato dal suono di campane funebri; Lennon esprime in Mother il suo “primal scream”… un ritorno alla sua infanzia: “Mother, you had me but I never had you” e prosegue “Father, you left me but I never left you”. Invita poi i bambini a non fare come lui: “Children, don’t do what I have done, I couldn’t walk and I tried to run.”

Gli ultimi due minuti si chiudono con un crescendo di grido (un vero e proprio “primal scream”) ripetuto dieci volte, sempre in modo più disperato e angosciante, fino a svanire con un gemito di estrema sofferenza: “Mama don’t go, daddy come home”… Ci immaginiamo Lennon sdraiato a terra che si  contorce in una disperazione che, pur dolorosa, lo condurrà alla liberazione. In sintesi, “Mother” può essere vista come un “grido primordiale” musicale, un tentativo di Lennon di esorcizzare i suoi demoni interiori. È una canzone che fa venire i brividi.

Il lato B dell’album si apre con Remember, una canzone che si sviluppa in modo speculare. Qui, John Lennon suona il piano, accompagnato da Ringo Starr alla batteria, in un arrangiamento dal ritmo “staccato”. Il brano invita il giovane ascoltatore a riflettere sul passato: “Ti ricordi quando eri giovane? Ricordi quando gli uomini ti lasciavano a mani vuote? Ricorda quando eri piccolo e come ti sembravano alte le persone!”

Lennon prosegue, parlando di come i suoi genitori speravano che lui diventasse una stella del cinema. Poi l’artista lancia un messaggio di speranza: “Bene, se tu dovessi cambiare idea e lasciarti dietro il passato, ricorda, ricorda oggi! Non ti rattristare per come è andata, non ti preoccupare di ciò che hai fatto.” A questo punto, si sente il suono di un’esplosione, un riferimento alla notte del 5 novembre, celebrata in Gran Bretagna con fuochi d’artificio in onore di Guy Fawkes. La canzone, come tutta l’opera, si configura come un viaggio tra riflessione, rimpianto e, infine, accettazione.

Proseguendo con le canzoni delle due facciate, troviamo la traccia 2A, Hold On, e la 2B, Love. Dopo aver attraversato la terapia dell’urlo e della riflessione sul passato, si giunge finalmente a un senso di liberazione dalle paure e si è pronti ad amare. In Hold On, Lennon esorta se stesso e gli altri a resistere: “Hold on, John, and you’ll see that everything will be fine, you’ll win the fight.” È un messaggio di speranza e di fiducia, che contrasta con la disperazione delle tracce precedenti. In Love, il concetto di amore viene esplorato in modo quasi infantile nella sua semplicità: “Love is real, real is love, Love is emotion, emotion is love, Love is wanting to be loved, asking to be loved,” e così via. La strumentazione si riduce ulteriormente, diventando minimalista: solo chitarra o poco altro, lasciando lo spazio alla purezza delle parole.

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Le tracce successive, le terze di ciascun lato, si caratterizzano per un ritmo più incalzante, quasi da hard rock, con un predominio di batteria e basso e la voce di Lennon che esplode in urla potenti. I Found Out (3A) inizia con Lennon che allontana da sé qualsiasi “aspirante guru”, rifiutando chiunque cerchi di influenzarlo. Il brano prosegue con la sua riflessione sul fatto che le risposte che ha ricevuto dai vari “guru” si sono rivelate illusorie, suggerendo che è meglio credere in se stessi. In Well, Well, Well (3B), Lennon racconta un giorno della sua vita quotidiana, fatto di eventi semplici come mangiare con Yoko e fare una passeggiata. Tuttavia, nel brano emergono anche temi più complessi, come la “rivoluzione” e la “liberazione delle donne”. Alcuni critici hanno anche individuato nel testo riferimenti sessuali abbastanza espliciti, che aggiungono una dimensione provocatoria alla canzone.

Arriviamo ora alle quarte canzoni di ogni facciata. Nel lato A troviamo “Working Class Hero”, mentre nel lato B c’è “Look at Me”. Per quanto riguarda la Dylaniana Working Class Hero, suonata solo con chitarra, merita di essere riportato tutto il testo:

“Appena nati vi fanno sentire piccoli,
non vi danno tempo, invece dovrebbero darvelo tutto,
finché il dolore è così grande che non sentite più nulla.
A working class hero is something to be (2 volte).

Vi fanno soffrire a casa, vi picchiano a scuola,
vi odiano se siete intelligenti e vi trattano da stupidi,
finché diventate così fottutamente pazzi
che non riuscite più a seguire le loro regole.
A working class hero is something to be (2 volte).

Quando vi hanno torturato e messo paura per quasi venti anni,
poi si aspettano che facciate carriera,
quando sapete benissimo che non riuscite a funzionare
perché siete pieni di paure.
A working class hero is something to be (2 volte).

Vi tengono drogati con la religione, il sesso e la TV,
e pensate davvero di essere bravi, senza classi e liberi,
ma per quanto posso vedere siete solo dei fottuti cafoni.
A working class hero is something to be (2 volte).

Continuano a dirvi che potete andare più in alto,
ma prima dovete imparare a sorridere mentre uccidete,
se volete essere come i “folks on the hill” (i politici dell’Irlanda del Nord).
A working class hero is something to be (2 volte).

Se proprio volete essere degli eroi,
dovete seguire me (2 volte).”

Alcune parole del testo vengono censurate con asterischi che sostituiscono la parola “fucking”. I commenti su questa canzone sembrano superflui: Lennon ha trovato una via di fuga da una società che impone un unico modo di vita e ci spinge a seguirlo per superare le difficoltà. Guardiamolo… e impariamo, sembra voler dire in Look at Me (4B), suonata anch’essa con la sola chitarra e la tecnica del finger-picking… Parole d’amore rivolte alla propria amata.


“Isolation” è l’ultima traccia del lato A, scritta quando Lennon ha appena lasciato i Beatles e una pioggia di critiche si abbatte su di lui, accusandolo per il suo nuovo rapporto con Yoko Ono. Questa situazione ha portato la coppia a una forte crisi, ma è stata anche fonte di ispirazione per la canzone. A un certo punto, Lennon alza la voce quasi gridando:
“Non mi aspetto che voi capiate dopo che mi avete causato così tanto dolore.
Dopo tutto, non siete da incolpare, perché siete solo umani
e quindi vittime della follia generale…”

L’ultima canzone dell’album, non considerando “My Mummy’s Dead”, che chiude effettivamente l’album, è “God”. “Dio è un semplice concetto con cui misuriamo il nostro dolore”, un messaggio forte che Lennon ripete due volte. È un rinnegare tutto il passato: John elenca una serie di “dèi” e “fedi” in cui dichiara di non credere più:
“Io non credo in” (ripetuto ogni volta davanti a, nell’ordine): la magia, l’I-Ching, la Bibbia, i Tarocchi, Hitler, Gesù, Kennedy, Buddha, i Mantra, la Gita (testo sacro indiano), lo Yoga, i Re, e persino gli idoli della sua adolescenza: Elvis Presley, Bob Dylan e, addirittura, i Beatles!

Che cosa rimane? “Credo solo in me, in Yoko e in me, e questa è la realtà”.
“Il sogno è finito. Cosa posso dire? Il sogno è finito. Ieri ero il tessitore di sogni
ma ora sono rinato, Ero il tricheco (riferimento alla famosa canzone dei Beatles I’m the Walrus),ma ora sono John e così, cari amici, dovete solo andare avanti.
Il sogno è finito.”

Dieci anni dopo, il suo assassino, Mark Chapman, un fanatico religioso cristiano, giustificherà la sua azione dicendo di aver ascoltato John Lennon/Plastic Ono Band nelle settimane precedenti l’omicidio e di essersi infuriato con Lennon per aver dichiarato di non credere in Dio… e neppure nei Beatles.

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L’album si conclude con My Mummy’s Dead, una traccia che sembra essere suonata su un vecchio giradischi, donando alla chiusura un’atmosfera di malinconica desolazione. È un finale che amplifica ulteriormente il tema di perdita e liberazione che permea l’intero lavoro, lasciando l’ascoltatore con una sensazione di vuoto e introspezione.

“La mia mamma è morta,
non riesco a mettermelo in testa,
anche se sono passati così tanti anni.
La mia mamma è morta.
Non posso spiegare
tanto dolore,
non potrei mai mostrarlo.
La mia mamma è morta.”

Per concludere…John Lennon, come abbiamo scritto all’inizio, riduce la sua poesia al più crudo e nudo dei linguaggi limitando la musica al minor numero di strumenti per dare più rilievo a parole semplici ma forti…

Lanfranco Bruzzesi

***

Arthur Janov (Los Angeles, 21 agosto 1924 – Malibù, 1º ottobre 2017) psicoterapeuta, è famoso per aver creato una nuova terapia, conosciuta come “teoria dell’urlo primario”. Janov fu direttore dell’istituto di psicoterapia Primal Center a Santa Monica e autore di numerosi libri, il più importante dei quali è The Primal Scream, nel quale afferma che i disturbi mentali possono essere curati tramite una terapia che comporti l’espressione di vissuti legati all’infanzia. Tra i suoi pazienti più famosi John Lennon e Yoko Ono.

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