Freud e la religione

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In questo articolo parleremo del rapporto di Freud con la religione, la religiosità e l’osservanza verso una fede.

Freud era religioso?

In Uno studio autobiografico , pubblicato nel 1925, Freud racconta che i suoi genitori erano ebrei e che lui stesso era “rimasto ebreo”. Le storie della Bibbia, fin da prima che imparasse a leggere, per sua stessa ammissione, ebbero in lui “un effetto duraturo” sulla direzione del suo interesse. Tuttavia, in una nota introduttiva alla traduzione ebraica di Totem e tabù (1930) Freud si descrive come “un autore che ignora il linguaggio delle Sacre Scritture, che è completamente estraneo alla religione dei suoi padri, così come ad ogni altra religione”, ma che “rimane ebreo nella sua natura essenziale e non ha alcun desiderio di alterare quella natura”. La famiglia Freud aveva rinunciato alla fede e alle pratiche religiose, come avevano fatto molte famiglie di fede ebraica che vivevano in comunità a prevalenza cristiana, per essere meglio accettate nella società.  Questa rinuncia, secondo Freud, aveva dato agli ebrei una notevole forza intellettuale, che altri non potevano avere, in quanto condizionati dalla religione.

Cosa era, per Freud, la religione?

Le opinioni di Sigmund Freud sulla religione sono descritte in molti suoi libri. In generale, Freud considerava la figura di Dio come una fantasia: nel libro “Il futuro di un’illusione” descrive la fede in Dio come una nevrosi collettiva, il “desiderio di un padre”. A suo modo di vedere la religione è stata una necessità nello sviluppo delle prime società umane per aiutare a frenare gli impulsi più violenti, in favore del progresso, della scienza e della ragione.

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Quale era, per Freud, la similitudine fra religiosità e nevrosi?

In Azioni ossessive e pratiche religiose (1907), il suo primo scritto sulla religione, Freud affermò che religione e nevrosi erano prodotti simili della mente umana: la nevrosi, con il suo comportamento compulsivo, rappresentava “una religiosità individuale”,  la religione, con i suoi comportamenti ripetitivi rituali, era una “nevrosi ossessiva universale”.

Che idea aveva della religione ebraica?

Nel suo ultimo libro, “Mosè e il monoteismo”, Freud, senza abbandonare il suo ateismo, cominciò a vedere la fede ebraica nella quale era nato come una fonte di progresso culturale nel passato e di ispirazione personale nel presente. Pensava che la fede in un Dio invisibile potesse migliorare la riflessione, non solo per la scienza, la letteratura e il diritto, ma anche per un’intensa introspezione. Se si riesce a contemplare un Dio invisibile, suggeriva Freud, si può anche riuscire a conoscere meglio se stessi, la propria singolarità.

In che modo la psicoanalisi può dirsi una derivazione della religione ebraica?

L’ebraismo, con il suo impegno verso un Dio invisibile, secondo Freud aveva aperto la strada per la scoperta della propria interiorità. Se le persone potevano adorare un Dio invisibile, potevano anche riflettere su ciò che non c’è, o su ciò che viene loro presentato in termini simbolici e non immediati. Questo lavoro mentale del monoteismo aveva dunque preparato gli ebrei a distinguersi nel diritto, nella matematica, nella scienza e nell’arte letteraria, avendo la capacità di pensare a un modello astratto di esperienza, in parole, numeri o linee. Freud definisce questo processo di interiorizzazione un “progresso intellettuale” e lo attribuisce direttamente alla religione monoteista.  Freud pensava che la psicoanalisi avesse donato all’umanità una modalità privilegiata per accedere alla propria vita interiore. Seppure sperava che l’umanità fosse stata un giorno capace di andare oltre la religione (così come aveva fatto una parte del popolo ebraico), vedeva in Mosè una figura che aveva apportato innovazioni concettuali capaci di cambiare il mondo, e la psicoanalisi ai suoi occhi rappresentava l’erede più importante del “progresso intellettuale” ebraico.

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Come è possibile che una figura antireligiosa prendesse spunto da un profeta?

Non fu il solo: si pensi a Nietzsche, che odiava il cristianesimo, e che però non detestava Gesù Cristo, che era anzi per lui un modello di spontaneità,  tenacia e libertà di spirito. “C’è stato un solo cristiano veramente all’altezza delle norme del Vangelo, ed è morto sulla croce”. Anche lo stesso Schopenhauer, al quale sia Nietzsche sia Freud erano profondamente debitori, era lui stesso un non credente. Per Schopenhauer la vita era dolore, tristezza e poco altro. Eppure anche lui seppe ispirarsi al cristianesimo, affermando che una fede che aveva come emblema centrale l’uomo torturato sulla croce non poteva essere del tutto fuorviante nella sua visione complessiva della vita.

Freud pensava di essere il primo, dopo la riflessione religiosa, ad aver aperto una strada alla esplorazione della coscienza?

No, Freud sosteneva che anche i poeti, prima di lui,  avevano saputo parlare in modo introspettivo dei propri desideri e delle proprie angosce, ma non erano comunque riusciti a rendere sistematica e accessibile la loro conoscenza alla vita interiore, come invece riusciva a fare la psicoanalisi.

Cosa pensava del Cristianesimo?

Secondo Freud uno dei desideri umani più forti è quello di incontrare Dio – o gli dei – direttamente.  A suo avviso, parte del fascino della religione greca risiedeva nel fatto che offriva ai seguaci rappresentazioni dirette, e spesso splendide, degli immortali, oltre alla possibilità non remota di incontrarli sulla terra. Con la sua panoplia di santi, il cristianesimo aveva restituito intensità visiva alla religione, facendo però un passo indietro rispetto al giudaismo, in direzione delle fedi pagane. E questo, secondo Freud, era uno dei motivi per cui questa fede aveva prosperato nei secoli.

Un’altra riflessione di Freud sul Cristianesimo viene dal libro Totem e Tabù (1913), un testo antropologico in cui analizzava il comportamento di tribù primitive e vedeva nel parricidio, cioè l’uccisione e il divoramento del “violento padre primordiale” la creazione di un pasto totem, all’origine di rituali che poi avrebbero regolato la vita sociale, imponendo alcuni tabù. La cerimonia della festa totem, dice Freud, sopravvive ancora nella forma della Comunione cristiana.

Cosa pensava Freud del principio cristiano “ama gli altri come te stesso”?

Pensava che questo principio religioso nascesse dalla necessità di proteggere la civiltà dalla disintegrazione. Dato che la storia dimostra che l’uomo è “una bestia feroce alla quale la considerazione verso i propri simili è qualcosa di estraneo” (Il disagio della civiltà, 1930), la formazione di un sistema di valori basato sull’esigenza di sviluppare relazioni d’amore con i propri simili è una e necessità culturale, senza la quale saremmo ridotti a vivere nello stato di natura, ossia saremmo interamente esposti alle forze naturali che hanno un potere quasi illimitato di distruggerci.

Quale è lo scopo ultimo della religione, secondo Freud?

Nel libro Il futuro di un’illusione (1927), Freud parla della religione come di un’illusione che è “forse l’elemento più importante nell’inventario psichico di una civiltà”. A suo avviso, la funzione sociale della religione è quella di offrire una difesa contro “la forza schiacciante della natura” e “l’impulso di correggere i difetti della civiltà che si sono fatti sentire dolorosamente”. A suo avviso tutte le credenze religiose sono “illusioni” che non possono essere messe alla prova.

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Cosa accadrebbe se non ci fosse la religione?

Freud osserva che “la civiltà ha poco da temere dalle persone istruite e dai lavoratori del cervello” in cui i motivi secolari della moralità sostituiscono quelli religiosi, ma riconosce l’esistenza della “grande massa degli ignoranti e degli oppressi” che possono commettere omicidi. se non si dice che Dio lo proibisce, e che deve essere “trattenuta con la massima severità”.

Quale è il rapporto fra religione e civiltà?

Il modo in cui le religioni affrontano i problemi più fondamentali dell’esistenza, rappresentano il bene più prezioso che la civiltà ha da offrire. La visione religiosa del mondo, che Freud riconobbe come dotata di incomparabile consistenza e coerenza, afferma che essa sola può rispondere alla domanda. del senso della vita. (conferenza  1932 “Sulla questione di una Weltanschauung ”)

Le persone religiose sono meno intelligenti, per Freud?

Non si tratta di intelligenza, ma di una mancanza di libertà dell’intelletto di pensare al di là della propria formazione religiosa dogmatica.

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Quale era l’auspicio di Freud sulla religione?

L’auspicio era che nel futuro la scienza potesse andare oltre la religione e la ragione potesse sostituire la fede in Dio.

Cosa hanno detto i critici di questa visione di Freud sulla religione?

Il filosofo Wittgenstein osservò che gran parte della forza persuasiva del lavoro di Freud derivava dalla pretesa di aver costruito una spiegazione scientifica dei miti antichi, mentre ciò che aveva fatto era stato semplicemente proporre un nuovo mito, quello della psicoanalisi.
Harold Bloom, il critico letterario più famoso nel mondo anglofono, osservò che Freud credeva che le credenze religiose fossero illusioni e delusioni, ma che lo stesso in fondo si poteva anche dire della teoria psicoanalitica. Sia le credenze religiose che le teorie di Freud possono infatti essere provate scientificamente.

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Carl Gustav Jung (1875-1961), uno dei padri fondatori della psicologia analitica, è una figura centrale nella storia della psicologia. Tuttavia, come molti personaggi storici, Jung non è immune da controversie. Una delle accuse più gravi rivolte contro di lui riguarda i presunti pregiudizi razziali, in particolare contro gli ebrei, accusa che gli venne attribuita anche da Freud. Cerchiamo di saperne di più.

Contesto Storico

Durante la prima metà del XX secolo, le teorie razziali erano largamente diffuse in Europa e spesso influenzavano vari campi del sapere, inclusa la psicologia. Jung, operando in questo contesto, fu inevitabilmente esposto a tali idee. Inoltre, la sua rottura con Sigmund Freud, che era ebreo, contribuì a creare un clima di sospetto su possibili sentimenti antisemiti.

Accuse di Pregiudizi Razziali

Le accuse contro Jung si basano principalmente su alcune delle sue dichiarazioni e scritti. Negli anni ’30, Jung fece parte della “International General Medical Society for Psychotherapy” (IGMGP), che si trovava ad avere rapporti con un’Europa sempre più influenzata dalle ideologie naziste. In alcuni dei suoi scritti dell’epoca, Jung fece osservazioni che sono state interpretate come antisemite, come le sue riflessioni sulla “psicologia ebraica” e le differenze tra la mente ebraica e quella “ariana”.

Una lezione divulgativa su Freud e il suo libro "Totem e Tabù"

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Difesa di Jung

Nonostante queste accuse, è importante considerare anche le difese di Jung. Alcuni dei suoi sostenitori sostengono che le sue osservazioni fossero più una descrizione antropologica delle differenze culturali piuttosto che espressioni di pregiudizio razziale. Inoltre, Jung stesso ha preso posizione contro il regime nazista in diversi contesti e ha collaborato con psichiatri ebrei, dimostrando una complessità che va oltre una semplice etichetta di antisemitismo.

«Come psicologo sono profondamente interessato ai disturbi mentali, in particolare quando contagiano intere nazioni. Voglio sottolineare che disprezzo la politica di tutto cuore: non sono né un bolscevico, né un nazista, né un antisemita. Sono uno svizzero neutrale e perfino nel mio paese non mi interesso di politica, perché sono convinto che per il novantanove per cento la politica sia solo un sintomo e che tutto faccia tranne che curare i mali sociali. 

Circa il cinquanta per cento della politica è detestabile perché avvelena la mente del tutto incompetente delle masse. Ci mettiamo in guardia contro le malattie contagiose del corpo, ma siamo esasperatamente incauti riguardo alle malattie collettive – ancora più pericolose – della mente. Faccio questa dichiarazione per scoraggiare sin dall’inizio ogni tentativo di coinvolgimenti in qualsivoglia partito politico. Ho delle buone ragioni per farlo: il mio nome è stato più volte portato nella discussione politica anche, come ben sapete, si trova attualmente in uno stato febbrile.

È soprattutto a causa del fatto che mi occupo delle incontestabili differenze all’interno della psicologia nazionale e razziale che si è verificata una serie di fraintendimenti quasi fatali e di errori pratici nelle relazioni internazionali e nelle frizioni sociali interne. In un’atmosfera come questa, politicamente avvelenata e surriscaldata, è diventato praticamente impossibile condurre una discussione scientifica sana e spassionata su questi problemi così delicati eppure estremamente importanti.

Discutere pubblicamente questi problemi avrebbe più o meno la stessa efficacia di un direttore di manicomio che si mettesse a discutere le particolari fissazioni dei suoi pazienti proprio in mezzo a loro. Vedete, il fatto tragicomico è che tutti sono convinti della loro normalità, esattamente come il dottore stesso è convinto del proprio equilibrio mentale.»

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Cosa ne pensava Freud?

Secondo quanto Freud comunicò ad Abraham nell’Agosto del 1908, dopo il famoso viaggio in America fatto insieme, il padre della psicoanalisi sospettava che Jung nutrisse dei sentimenti antisemitici (Abraham e Freud, Dialogo Psicoanalitico. Lettere 1965).

Freud sembra che non si sia mai confrontato direttamente con Jung sull’argomento, ma sicuramente questa sensazione influì sulla successiva decisione di allontanarsi da lui.

Nel 1912 Freud scrisse a Otto Rank (Gay, P. (1988) Freud. Una vita per i nostri tempi. Bompiani) e, parlando dei problemi con Jung rivelò questa sua sostanziale incapacità di integrare ebraismo e antisemitismo sul suolo della psicoanalisi. Nel 1914, in un altro libro, dal titolo, “La storia del movimento psicoanalitico,” Freud parlò apertamente di “alcuni pregiudizi razziali” dell’ex amico Jung (Freud, Per la Storia del Movimento Psicoanalitico, 1914).

Abraham ben spiega le ragioni delle incomprensioni fra i due psicoanalisti, che apparentemente parlavano di psicoanalisi, ma che in realtà contrapponevano due differenti visioni del mondo: quella di chi è in qualche modo legato alla Legge dei Padri e quella di chi cerca la verità nella filosofia.

Dice Abraham: Devo infine rilevare ancora che Jung contravviene seriamente al suo principio di prendere per norma solo la verità e non il sentimento morale, accostandosi alla sessualità infantile e all’inconscio con valutazioni etico-teologiche. È proprio verso questo lato che vorrei, in chiusura, erigere le difese. Si tratta di proteggere la psicoanalisi da influssi che potrebbero farne ciò che la filosofia fu in passato: la ancilla theologiae.

(Karl Abraham, «Critica al “Saggio di esposizione della teoria psicoanalitica” di Carl G. Jung» (1914), in Opere, in 2 vol., Bollati Boringhieri)

Dott.ssa Giuliana Proietti

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Arnold Zweig, celebre romanziere e drammaturgo del XX secolo, è stato non solo un protagonista della letteratura tedesca, ma anche una figura con un legame significativo con la psicoanalisi di Sigmund Freud e con la sua identità ebraica. In questo articolo cerchiamo di approfondire il rapporto tra Zweig, Freud e l’ebraismo.

Arnold Zweig: La Vita e le Opere

Arnold Zweig (10 Novembre 1887 – 26 Novembre 1968) è noto per i suoi romanzi, che esplorano temi sociali, politici e umani, in particolare contro la guerra. Di umili origini (il padre faceva il sellaio) e di discendenza ebraica, era nato a Glogau, nell’attuale Polonia. Aveva frequentato il ginnasio a Kattowitz (Katowice), concentrandosi particolarmente in materie come storia, filosofia e letteratura. In seguito, aveva studiato in diverse università, fra cui Wroclaw, Monaco, Berlino, Göttingen, Rostock e Tübingen.

Zweig partì volontario nell’esercito tedesco durante la Prima Guerra Mondiale e fu destinato al Fronte Occidentale. Era il tempo dello Judenzählung (“censimento dei giudei”), misura istituita dall’Alto Comando Militare tedesco nell’Ottobre 1916 per determinare se le accuse di scarso patriottismo nei confronti degli ebrei tedeschi fossero vere. Si diceva infatti che gli ebrei fossero in gran parte imboscati e che essi evitassero la prima linea, scegliendo posizioni più sicure, lontane dal fronte.

La guerra lo cambiò moltissimo, trasformandolo da patriota prussiano a convinto pacifista, socialista, sionista. Costretto ad emigrare in seguito alle persecuzioni razziali, si rifugiò nel 1933 in Palestina. Ritornò in patria solo nel 1948, a Berlino Est, dove divenne presidente dell’Accademia delle arti tedesca e ricevette il Premio Lenin nel 1958.

Scrisse Der grosse Krieg der weissen Manner (La grande guerra degli uomini bianchi), 1913-1957, in parecchi volumi e fu anche autore di saggi sulla questione ebraica e di opere teatrali: Abigail und Nabal (Abigail e Nabal), del 1913 e Ritualmord in Ungarn (Delitto sacrificale in Ungheria ) del 1919, sulla persecuzione antisemita e Austreibung 1744 (La cacciata 1744).


Il Rapporto con Sigmund Freud

Arnold Zweig fu uno dei molti intellettuali e artisti che furono più influenzati e affascinati dal lavoro di Sigmund Freud. La psicoanalisi di Freud, con il suo approccio alla comprensione dell’inconscio e dei motivi nascosti dietro il comportamento umano, ebbe un impatto significativo sulla scrittura e sulle idee di Zweig. I due ebbero anche una corrispondenza personale, e Zweig scrisse su Freud in diverse occasioni.

Iniziò nel 1929, quando Freud era molto popolare all’interno della comunità ebraica e veniva considerato come un eroe, e Arnold Zweig gli dedicò un saggio: “Freud e il genere umano”, nel quale celebrava Freud come liberatore dalle religioni e dal terrore patologico.

L’Ebraismo e l’Identità di Zweig

Come molti ebrei tedeschi dell’epoca, l’identità ebraica di Arnold Zweig era una parte importante della sua vita e del suo lavoro. Nonostante fosse stato battezzato come cristiano all’età di sette anni, Zweig era profondamente legato alla sua eredità ebraica. Questo si rifletteva nelle sue opere, che spesso esploravano temi legati all’ebraismo, all’antisemitismo e alla ricerca di un senso di appartenenza in una società che spesso li respingeva.

Freud, Ebraismo e Identità Culturale

Il lavoro di Freud ha avuto un impatto significativo sulle riflessioni di Zweig sull’ebraismo e sull’identità culturale. La psicoanalisi di Freud, con il suo esame delle radici inconsce dei pregiudizi e delle dinamiche sociali, ha fornito a Zweig un quadro concettuale per comprendere meglio l’antisemitismo e la complessa relazione tra identità ebraica e identità tedesca.

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La corrispondenza con Freud

Arnold ZweigFreud conosceva lo scrittore Arnold Zweig e con lui frequentemente scambiava opinioni su quanto stava accadendo alla comunità ebraica.

In una lettera del 2 dicembre 1927 Freud scriveva ad esempio a Zweig:

Sulla questione dell’antisemitismo ho poca voglia di cercare spiegazioni, in questa materia provo una forte inclinazione ad abbandonarmi ai miei sentimenti e mi sento confermato nel mio credo, interamente non scientifico, che gli uomini sono mediocri e nell’insieme delle povere canaglie…”.

La corrispondenza durò molti anni e sempre sugli stessi temi. Dopo l’ascesa di Hitler al potere, dalla Palestina, dove si era rifugiato, Zweig mantenne una fitta corrispondenza con l’amico Sigmund Freud.

Nel dialogo tra i due illustri ebrei è possibile cogliere gli echi del travaglio che portò Freud a scrivere i tre saggi sull’uomo Mosè, il suo testamento spirituale.

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Nel 1934 Freud scriveva infatti ad Arnold Zweig:

Non sapendo che cosa fare nei momenti di ozio, ho scritto qualcosa e contrariamente alle mie intenzioni iniziali ne sono stato così preso che ho accantonato tutto il resto. Non cominci a rallegrarsi fin d’ora al pensiero di leggerlo, poiché scommetto che non lo leggerà mai.

Mi lasci però spiegarLe di cosa si tratta. Il punto di partenza del mio saggio Le è noto: è lo stesso del Suo Bilanz.(Cioè la persecuzione degli ebrei in Germania) Dati i recenti divieti vien fatto da chiedersi di nuovo come mai gli Ebrei sono diventati ciò che sono e perché si sono tirati addosso un odio così inestinguibile. Ben presto ho scoperto una formula adatta al caso: è stato Mosè a creare gli Ebrei. Perciò il mio saggio si intitola L’uomo Mosè, romanzo storico (più appropriatamente del Suo romanzo su Nietzsche).

Esso si divide in tre parti: la prima interessa per il suo carattere romanzesco; la seconda è complessa e noiosa; la terza è ricca di contenuto e di pretese. L’impresa cede nell’ultima parte che rivela ai profani qualcosa di nuovo e fondamentale – sebbene non nuovo per me dopo Totem e Tabù. E’ proprio il pensiero di questi profani che mi fa tener segreto l’intero saggio. Poiché qui viviamo in un’atmosfera di rigida fede cattolica.

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Si dice che la politica del nostro paese sia nelle mani di un certo padre Schmidt, che è il confidente del Papa e che disgraziatamente si occupa anche lui di etnologia e di religione; nei suoi libri non nasconde il suo orrore per la psicoanalisi e specialmente per la mia teoria dei totem…Ora è lecito attendersi che una mia pubblicazione attiri una certa attenzione e non sfugga a quella ostile del Padre. In tal modi rischierei di far bandire l’analisi da Vienna e di far cessare ogni pubblicazione. Se il pericolo riguardasse me solo, la cosa mi impressionerebbe poco, ma privare i membri di Vienna dei loro mezzi di sussistenza comporta una responsabilità troppo grande. Va inoltre considerato che questo mio contributo non mi sembra avere delle basi abbastanza solide e non mi lascia molto soddisfatto. Non è quindi l’occasione buona per il martirio. Finis per il momento”

Eredità di Arnold Zweig

Arnold Zweig, Sigmund Freud, l'ebraismo e il genere umanoArnold Zweig è ricordato non solo per le sue opere letterarie, ma anche per il suo impegno sociale e politico. Dopo la seconda guerra mondiale, Zweig si trasferì nella Germania Est, dove continuò a scrivere e a sostenere la causa della pace e della riconciliazione tra le nazioni. La sua eredità letteraria e il suo impegno per la giustizia sociale continuano a ispirare e ad influenzare molti lettori e studiosi anche oggi.

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Fonti:

Wikipedia it
Wikipedia.org
L’ebraismo, il sogno, la psicoanalisi, Psychomedia
Vita e opere di Freud 3, L’ultima fase 1919-1939, Il Saggiatore via Psicoanalisi.it
Freud Museum, 1929
Vedi Freud- Zweig“Lettere sullo sfondo di una tragedia (1927-1939) Marsilio

Immagini nel testo: Arnold Zweig, Freud Museum, 1929
Immagine in evidenza:
Wikipedia

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Intorno al morire. Death Studies & the End of life

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Intorno al morire. Importanza della formazione in “Death Studies & the End of life” per rispondere al bisogno di sostegno e presa in carico della morte e del morire

La cognizione della morte attraversa ogni cultura e intorno a essa si sviluppa lungo la storia il bagaglio di valori, prospettive e credenze proprie di ogni civiltà. Elemento che introduce un’incolmabile distanza dal mondo animale, la capacità di cogliere le caratteristiche fondamentali della morte (universalità e irreversibilità) nel corso della vita e di rappresentarsene gli effetti inesorabili è una specificità dell’Umano che implica altresì una sostanziale dissonanza tra dimensione cognitiva e affettiva espressa attraverso il dolore e l’angoscia.

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Idea discussa anche da Elias (1985) – sociologo che mostra come nello sforzo collettivo di rafforzare il proprio sistema di riferimento tutelandolo dalle minacce di gruppi estranei, sostenitori di simboliche differenti, si evidenzi il valore del patto contro la morte nei processi di socializzazione su cui si istituiscono i rituali che regolano i comportamenti collettivi –, secondo la Terror Managment Theory [TMT], la consapevolezza della finitezza della vita in conflitto con il desiderio di auto–preservazione costituisce il perno delle strutture di significato con cui i membri dei diversi gruppi umani ordinano le relazioni sociali e affettive, elaborando rappresentazioni simboliche funzionali all’occultamento del morire.

Ma, per quanto efficaci, le strategie di elusione, poiché la dubitabilità di ogni consolazione si impone come inevitabile, i sistemi difensivi in gioco richiedono di essere continuamente riaffermati e difesi. La gestione dell’angoscia umana fondamentale costituisce in tal senso una delle massime risorse del dominio sulle coscienze, in base alla quale in ogni epoca sono stati eretti i sistemi di potere più forti: le religioni.

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La ricerca psicologica, evidenziando come le specifiche esperienze umane siano diversamente caratterizzate in senso emozionale e affettivo in funzione dell’ordine simbolico in cui esse vengono inscritte, ha quindi riattualizzato come discorso scientifico l’antica consapevolezza greca, ovvero quella che considera l’umano inscritto in un universo simbolico caratterizzato da una contraddizione inconciliabile: voler vivere sapendo di dover morire.

Il potere delle religioni è fondato sulla loro capacità di delineare i profili dei comportamenti sociali e individuali motivandoli secondo trascendentalità. E l’impostazione della vita rispetto a ciò che le è ulteriore, nella storia dell’umanità, è la matrice fondamentale della solidarietà intragruppo e del conflitto intergruppi. All’interno delle comunità che condividono lo stesso credo si creano forti reti di relazione capaci di garantire il sostegno sociale necessario per poter elaborare i vissuti di perdita, come pure è evidente che in nome di Dio si commettono ancora eccidi e guerre tra popoli. Altresì la rappresentazione del morire come passaggio che può essere gestito attraverso pratiche che offrono la certezza di pensarsi al di là del tempo offre una rassicurazione fondamentale dinanzi all’imminenza della fine.

Questa posizione – ampiamente discussa nella storia del pensiero dalle prospettive del disincanto – è condivisa anche da Morin (tr. it. 2002, L’uomo e la morte, Meltemi, Roma), secondo il quale nel processo di significazione e gestione del terrore legato alla morte, il successo delle religioni è dato dal loro assolvere al compito di garantire l’ottimismo che – tramite le figure dell’immortalità – consente agli individui di allontanare l’angoscia.

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Ma le convinzioni e i valori derivanti da modelli sociali, entro cui in passato era possibile esprimere con grande intensità le emozioni dando loro forma e significato attraverso la celebrazione di culti e riturali capaci di mettere al riparo dal terrore e custodire il passaggio all’eternità, hanno ormai perso vigore e forza persuasiva nella società attuale, che si ritrova sempre più carente di repertori cerimoniali. La declinazione politica dei poteri religiosi è direttamente proporzionale alla crisi della spiritualità espressa attraverso le derive del fanatismo per un verso e dell’indifferenza per l’altro, ove da ultimo ciò che in questo modo viene sancito è la sconfitta del pensiero critico su ciò che significa gestire il senso della morte come passaggio da una forma di esistenza ad un’altra. E questa crisi non è esito di cattivi costumi quanto piuttosto questi ultimi sono il suo prodotto.

Entrare nel merito delle componenti essenziali che costituiscono questo tratto essenziale della cultura occidentale contemporanea è un compito ineludibile di chi intenda affrontare seriamente – e non semplicemente in termini di sudditanza ideologico-dottrinaria funzionale alle regole dettate dai giochi del potere sociale – i temi inerenti al senso del rapporto tra il vivere e il morire. Sapere infatti che la crisi non è il risultato di cattiva coscienza o vizio, ma è determinata da strutture di pensiero che devono risolvere contraddizioni essenziali (Severino, 1996, La filosofia dai Greci ai nostri giorni, Rizzoli, Milano) impone che il lavoro intellettuale in proposito non si limiti al consenso acritico ma accolga al proprio interno la dialettica del confronto.

In effetti, qualsiasi indicazione di spiritualità o certezza religiosa che non sa confrontarsi con la propria negazione e che per questo promuove il proprio successo facendo leva sul sonno della coscienza non evidenzia altro che la debolezza del proprio oggetto di fede, lasciando un sostanziale vuoto di senso coperto dalla formalità di antichi retaggi cerimoniali. Il “vuoto simbolico” che si instaura intorno al morire allorché l’angoscia mostra la dubitabilità delle certezze edificate per poter vivere sapendo di dover morire – ove ciò che emerge è il timore determinato dal sospetto dell’inconsistenza delle strutture di significato e delle azioni con cui si crede di dominare e interpretare il mistero della morte – si traduce infine in un apparato di atteggiamenti e comportamenti condivisi che determinano la censura sociale del dolore che il morire comporta, ove al silenzio dell’acquiescenza, parallelo all’ostentazione in cui si celebra sostanzialmente il fasto del celebrante e non il contenuto dell’intimità in gioco, richiede dunque una restituzione di parola competente.

La formalità dell’apparenza parallela a quella del fanatismo produce ciò che Elias (1985) ha definito “rimozione sociale”, ovvero la tendenza a confinare l’angoscia del morire e tutto ciò che lo riguarda “dietro le quinte della vita collettiva” attraverso strategie di elusione invalidanti proprio perché espressione di repressione e rifiuto dell’elaborazione. Quello che secondo Ariès (tr. it. 1980, L’uomo e la morte dal medioevo a oggi, Laterza, Bari) è il passaggio dalla gestione pubblica del saluto funebre – l’antica “familiarizzazione” della morte e il suo “addomesticamento” – all’attuale atteggiamento ritirato e inibito, che ha la sua massima espressione nell’imbarazzo, nella tendenza alla dissimulazione e nell’assenza di spontaneità, è la chiara manifestazione della mancanza di “parola competente”, ovvero di potere di indicalità da parte del saluto comunitario a chi abbandona il consesso umano.

Emblematico in proposito è il pudore che la morte ispira, manifestato non solo nell’incapacità di parlarne e discuterne tra adulti, ma in particolare nella difficoltà di affrontare l’argomento con i bambini che se ai tempi della “morte pubblica” erano chiamati ad esser presenti al capezzale dei moribondi, oggi vengono esclusi anche dalle cerimonie funebri o dalle visite ai cimiteri. La riluttanza degli adulti a far avvicinare i propri figli a questa dimensione – quasi corressero il rischio di venirne in qualche modo contaminati – esprime il timore profondo di comunicare le proprie angosce e l’erronea convinzione che sia il tema in sé della finitezza della vita a costituire un pericolo e una fonte di sofferenza ingestibile.

È invece la modalità con cui si affronta il problema, o piuttosto ormai l’accurata tendenza ad evitarlo, a risultare più insidiosa e deleteria, dal momento che espone tutti in ogni età alla convinzione di non poter accedere al senso autentico di ciò che si teme e tanto meno alla possibilità di trovare la risposta che risolve il terrore, ove l’unica familiarizzazione possibile sembra essere quella offerta da oscuri messaggi mass-mediatici, responsabili di veicolare perlopiù o addirittura soltanto, in funzione esorcistica ma non per questo meno traumatici, contenuti violenti e fantasie cruente.

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Manca sostanzialmente uno spazio di riflessione ed elaborazione che sappia tradursi in messaggio educativo, capace di evolversi e accompagnare nel ciclo di vita gli individui affinché prendano consapevolezza della finitezza del vivere, per un verso per valorizzare la vita stessa e per l’altro, elaborandone infine il senso quando essa giunga a conclusione. Questo tipo di educazione è stato sempre patrimonio della religione.

Recentemente però, in nome di un’universalità rispetto sia alla riflessione sulla spiritualità, che intende porsi come svincolata dalle specifiche Weltanschauungen confessionali, sia all’accoglienza delle istanze laiche, si sta diffondendo un territorio di ricerca e intervento che accoglie la questione, includendo al proprio interno le diverse voci della cultura: quelle della filosofia, delle religioni tutte e della scienza.

Sono i “death studies” applicati alla “death education”. La medicina ha ormai prodotto la cronicizzazione di patologie un tempo rapidamente mortali, altresì tra la diagnosi e prognosi infausta intercorre un tempo sempre più lungo e sempre più lunga è anche la durata del decorso finale della malattia. In questo spazio temporale gli sforzi principali del malato e dei suoi cari sono giocati nella scongiura dell’esito finale piuttosto che sull’elaborazione di ciò che è già stato vissuto e di quel che attende chi sopravvive e chi trapassa. Sotto la veste della tutela di chi deve compiere il passaggio fondamentale si giocano perciò le strategie della dissimulazione e la “congiura del silenzio”, giustificate dal timore che il dato di realtà abbia un effetto devastante.

Messinscene e copioni allestiti per la copertura della situazione effettiva, finalizzati forse a evitare tutte quelle fasi laceranti di dolore descritte da Kubler-Ross, le quali precedono l’ultima, ovvero quella della rassegnazione, rendono il morente uno spettatore dell’incapacità altrui di farsi carico del suo dolore e del proprio. Sfilate ed affaccendamenti concertati tra silenzi e camuffamenti rispetto a quel che accade incorniciano personaggi di sempre, con le vesti di sempre ma con espressioni e atteggiamenti mutati, attenzioni diverse, parole, frasi e discorsi di cui è evidente l’inconsistenza quando in gioco invece – ossimoro tragico – ci sono i contenuti più importanti della vita intera.

La mancanza di parole competenti rispetto a quel che accade toglie innanzitutto dignità al morente perché ne rende indecifrabile la condizione. I death studies sono appunto il territorio in cui si sviluppa il dibattito intorno al che cosa si intenda per dignità e come offrirle concretezza nel linguaggio in cui si declinano le relazioni significative. La competenza in tal senso non si riduce ad essere un bagaglio di nozioni quanto piuttosto consiste nell’acquisizione di saperi intorno al conoscibile e alle interrogazioni ultime a partire da un atteggiamento che nell’umiltà restituisce all’umano il riconoscimento pieno della sua capacità di intellezione.

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Bioetica e politica: il valore della formazione critica per un autentico intervento d’amore

Il concetto di dignità del morire, espresso dalle prospettive che orientano la cura secondo l’approccio centrato sulla persona, accoglie due opposte fazioni, entrambe impegnate sul fronte della definizione di quali siano i gesti che esprimono amore per colui che soffre prima di morire e per coloro che lo accompagnano fino alla consapevolezza della perdita irreversibile. Su un versante si dispongono i cattolici che attribuendo alla vita del corpo un primato assoluto ritengono che qualsiasi scelta che ne accorci la durata sia male, dall’altro si disperdono i fedeli di altre confessioni, laici e non credenti, i quali ritengono che qualsiasi forzatura che allunghi le sofferenze del morente in nome di una vita insopportabile sia una violenza estrema. I termini della questione accendono il dibattito internazionale, non solo rispetto al delicato versante dell’eutanasia ma anche dinanzi a quello della palliazione. Altresì, in base alle prospettive assunte, si definiscono modi diversi di gestire il cordoglio anticipatorio e la successiva elaborazione del lutto, in quanto i sopravvissuti attribuiscono senso al dolore della separazione orientando il giudizio sul percorso della separazione vissuto in base ai valori di riferimento. Quando però i parametri che hanno guidato l’accompagnamento risultano a chi si prende cura del morente estrinseci ai propri criteri di giudizio, ovvero non sentiti autenticamente propri e per questo considerati dubitabili o incomprensibili, oppure percepiti come imposizioni rispetto alle quali è stata esercitata una qualche forma di deroga interiore, l’elaborazione del lutto si fa straziante e lascia nel cuore le ombre della colpa e la sensazione di imperdonabile inadeguatezza.

Le modalità di gestione del tema della morte e del morire, come pure di quello intorno al nascere, differenzia l’Italia dal resto dell’Europa in quanto la forte matrice cattolica influenza profondamente le politiche che riguardano la vita. Ogni questione inerente alla dimensione biologica viene amministrata sempre di più da questo specifico universo religioso, il quale, grazie alla potenza conquistata in millenni di storia, per un verso orienta la ricerca e la pratica scientifica secondo le proprie volontà etiche e per l’altro rende queste ultime un limite bioetico che deve essere rispettato non solo a livello di condotta morale dei credenti, come accade per esempio per altre confessioni che si rivolgono alle strutture sanitarie in grado di garantire l’applicazione di tecniche di cura consone al loro credo, ma anche da parte di coloro che non sono cattolici. Molte religioni, non solo quella cattolica, tendono a imporre la propria etica in termini assolutistici, cercando di impostare l’azione politica secondo la propria specifica visione del mondo.

Il pensiero laico di converso se per un verso, a partire dalla rivoluzione illuminista, ha educato l’umanità al rispetto della plurivocità delle fedi quindi al valore della dialettica critica, per l’altro sembra essere sempre meno capace di declinare nella prassi democratica il rispetto dei propri principi garantendo e pretendendo da ogni dominio discreto delle ideologie in gioco il reciproco rispetto e riconoscimento, attraverso la regolamentazione degli scambi e del confronto nella molteplicità dei punti di vista. La questione non è indifferente e mobilita fortemente una significativa opposizione di intellettuali che si espongo per esprimere una posizione laica in grado di accogliere sia le istanze cattoliche sia quelle di altre confessioni religiose, nonché i bisogni di chi ritiene che il proprio rapporto con Dio non debba fare i conti con alcuna dottrina, o perché Dio non esiste o perché considera il proprio rapporto con Dio ancora indecifrato. Come si discute in Autopsia filosofica. Il momento giusto per morire tra suicidio razionale ed eternità (Testoni, 2007, Apogeo, Milano) il problema riguarda non solo la dimensione politica della laicità dello Stato, ma anche quella epistemologica della scienza e delle sue applicazioni tecniche, ove ciò che emerge è il problema relativo al rapporto tra dolore e spiegazione che ne giustifica la necessità in nome di valori religiosi che non sono riconosciuti da coloro ai quali è richiesto di doverlo patire, là dove da ultimo l’insopportabilità della vita si fa incarnazione dell’orrore come male estremo.

L’inevitabilità di superare il pólemos tra le diverse posizioni di fede e laiche comincia proprio a partire dal concetto cardine di “dignità della persona”, che, in quanto espressione della volontà che traduce la relazione di cura in atto di amore, implica che il conflitto diventi dialettica risolvendosi in pratiche articolate eppure unitarie nella capacità di accogliere le differenti espressioni della fede rispetto a quell’incertezza fondamentale in cui consiste il non sapere che cosa significhi autenticamene morire. In questa sede assumiamo la posizione che vuole trascendere l’opposizione tra mondo laico e religioso rispetto a queste tematiche, non tanto per eludere le specifiche posizioni, quanto piuttosto per riconoscere in quale spazio intellettuale sia possibile un confronto che offra l’opportunità di allargare le competenze che informano le pratiche di aiuto.

La necessità di sviluppare e orientare il dibattito, perlopiù in Italia iscritto soltanto nell’ambito ristretto degli specialisti di bioetica, offrendo termini di riferimento non unicamente morali ma anche teoretici e altresì scientifici e pragmatici, richiede che vengano coinvolte su queste tematiche tutte le discipline di pensiero e della ricerca empirica che per un verso si interessano dei temi della salute e del benessere e per l’altro che sanno delineare i profili di senso della domanda fondamentale in cui consistono la volontà di vita nonché il terrore della morte. Si tratta appunto del territorio dei Death Studies, ineludibili per la formazione critica che la Death Education intende offrire.

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Come vivere bene anche se in coppiaCome vivere bene, anche se in coppia
Autori: Dr. Giuliana Proietti - Dr. Walter La Gatta
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Death Studies tra ricerca e formazione: un master sulla fine della vita

Lo spazio privilegiato per tali riflessioni è appunto quello che appartiene all’ambito dei Death Studies, al cui interno si sviluppano diverse ricerche. Sebbene il tema della morte nella cultura mass-mediatica subisca elusioni e travisamenti, nelle professioni filosofiche, psicologico-educative e mediche esso sta infatti guadagnando un sempre maggiore interesse. La letteratura internazionale mostra come questo fenomeno interessi il campo di intersezione tra le scienze umane e le scienze biomediche (medicina, psicologia, filosofia, pedagogia), unificate dal comune intento di migliorare l’intervento dei servizi alla persona. Negli ultimi decenni, dopo gli esenziali studi di Kubler-Ross, Vovelle, Thomson, Morin, Brown, Ariès, e, in Italia, di Campione e Viafora…, sono stati pubblicati innumerevoli studi che indiziano una crescente sensibilità rispetto ai vissuti relativi all’ultima fase della vita, nonché alle rappresentazioni della morte e della sua gestione. Quello dei Death Studies è un settore interdisciplinare di ricerca e applicazione all’interno del quale vengono istituiti percorsi di formazione che perseguono alcuni obiettivi fondamentali per preparare professionisti e operatori che sappiano essere di sostegno nella preparazione alla morte in continuità con il desiderio di dare senso e dignità al morire, umanizzando l’ultimo passaggio con la restituzione al morente della dignità di interlocutore attivo (ars moriendi) e ai suoi cari la capacità di sostenerlo in questo passaggio attraverso la gestione del cordoglio anticipatorio e l’elaborazione del lutto successiva.

L’intento perseguito da questa specifica forma di educazione che richiede profonde competenze filosofiche e psicologiche è quella di liberare il discorso dal tabù il discorso sul morire e promuovere una serena interazione comunicativa intorno ai suoi processi. Oltrepassando il perimetro dell’intervento finalizzato alla gestione della privazione come “morte per decesso”, gli esperti di consulenza tanatologica giungono infatti ad interessarsi al più grande territorio della “perdita”, in cui si stanno ampliando le riflessioni e le indagini per attività di sostegno, accompagnamento, riabilitazione e terapia.

Ines Testoni *e Federica Martini **

* Professore di Psicologia Sociale, Dipartimento Psicologia generale, Università degli Studi di Padova

** Psicologa, collaboratrice cattedra di Psicologia Sociale, Dipartimento di Psicologia generale, Università degli Studi di Padova

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L’estremismo riguarda ovviamente tutte le religioni, ma gli atti di terrorismo islamico stanno ottenendo, purtroppo, crescente attenzione visti i recenti episodi di cronaca. L’esempio più noto di terrorismo islamico è sicuramente quello legato allo Stato Islamico (IS) nato in Siria e in Iraq e poi diffusosi in altri paesi, dall’Afghanistan, all’Egitto, alla Libia e all’Algeria (Hoft, 2015).

Il terrorismo è un evento complesso e spesso non prevedibile, che rende difficile comprendere immediatamente la sua natura e le cause che lo determinano. In genere si cerca di trovare spiegazioni per tali atti collegandoli spontaneamente ad alcune cause (Shaver, 2012). In psicologia sociale, questa tendenza viene definita “attribuzione causale”.

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Fattori individuali che possono essere alla base del terrorismo sono il patriottismo (Sahar, 2008), le problematiche di tipo emotivo (Small, Lerner, e Fischhoff, 2006), i problemi infragruppo come ad esempio il mancato senso di appartenenza al gruppo (Doosje, Zebel, Scheermeijer, e Mathyi, 2007; Kimhi, Canetti-Nisim, e Hirschberger, 2009) oppure conflitti fra gruppi (Sidanius, Henry, Pratto, e Levin, 2004).

I primi psicologi sociali (Heider, 1958; Kelley, 1967) ritenevano che le persone attribuiscano le cause e le spiegazioni per gli eventi quotidiani adattandoli ai propri desideri, al fine di ottenere un senso di controllo e di prevedibilità sulla propria vita. Altri teorici (Bohner, Bless, Schwarz, e Strack, 1988; Olson, Roese, e Zanna, 1996) hanno ampliato questa teoria postulando che gli eventi più minacciosi hanno maggiori probabilità di innescare tali attribuzioni.

Stephan, Ybarra, e Morrison (2009) hanno teorizzato che nel contesto intergruppo, le persone possono sentirsi in pericolo per due tipi di minacce: minacce simboliche e minacce reali.

La minaccia simbolica si riferisce ad una minaccia proveniente dall’esterno nei confronti delle proprie norme, dei propri valori, o della propria cultura. I musulmani, ad esempio, considerano l’Occidente una minaccia simbolica all’esistenza islamica perché la globalizzazione ha diffuso nuove norme e valori, ispirati a stili di vita che sono in conflitto con quelli islamici e dunque minacciano la sopravvivenza delle tradizioni dello stile di vita islamico (Moghaddam, 2005).

La minaccia reale ha a che fare con una minaccia percepita nei confronti dell’economia, del potere, o della sicurezza del proprio gruppo. La supremazia occidentale in settori come l’economia, la tecnologia, e la politica hanno fatto intensificare la percezione dei musulmani che l’Islam sia in pericolo, il che riflette perché i musulmani vedano l’Occidente come una minaccia reale per l’esistenza islamica (Fair & Shepherd 2006 ).

La psicologia sociale ha da tempo studiato l’effetto dei pregiudizi etnocentrici (Weber, 1994) per cui i problemi interni vengono attribuiti a gruppi esterni, in modo tale che la colpa ricada sugli altri, piuttosto che sul proprio gruppo. Allo stesso tempo, per migliorare l’autostima di gruppo, i membri tendono a negare o a minimizzare le responsabilità del proprio gruppo.

Basandosi sul modello di attribuzione etnocentrica, si può dire che i musulmani vedano nell’Occidente sia una minaccia simbolica sia reale per l’esistenza del mondo islamico e questo può comportare due conseguenze: (1) una maggiore attribuzione esterna delle cause del terrorismo, ovvero accusano l’ovest di aver portato il terrorismo nei paesi islamici  (2) una attribuzione delle cause del terrorismo agli islamisti radicali molto diminuita.

Il terrorismo è altamente correlato con il fondamentalismo. Altemeyer e Hunsberger (1992) hanno definito il fondamentalismo religioso come “la convinzione che vi siano un insieme di insegnamenti religiosi che contengono chiaramente le verità fondamentali, essenziali, infallibili sull’umanità e la divinità”.

Molti studiosi convergono sull’idea che tutte le grandi religioni del mondo abbiano in comune  la resistenza a visioni del mondo alternative alla propria, l’intolleranza per le ambiguità, e una certa chiusura mentale (Moghaddam, 2008). Con queste caratteristiche, il fondamentalismo religioso è una forte causa di pregiudizi contro gli altri (Johnson, Rowatt, e Bouff, 2010), di atti di ostilità (Rothschild, Abdollahi, e Pyszczynski, 2009) e discriminazione (Kirkpatrick, 1993).

Duckitt (2006) ha rilevato che tra gli studenti universitari presso la Auckland University, Nuova Zelanda, vi era una certa sovrapposizione tra fondamentalismo religioso e autoritarismo di destra, caratterizzato da convenzionalismo, aggressività autoritaria, e bisogno di sottomettere le minacce provenienti dall’esterno (che in questo caso erano gli spacciatori di droga e le femministe): questi gruppi rappresentavano una minaccia simbolica (ad esempio, la minaccia verso le norme, i valori e le tradizioni), anche se non una minaccia reale (cioè nessuna minaccia alla stabilità sociale, alla sicurezza, e al controllo) per i membri del proprio gruppo.

Monroe e Kreidie (1997) hanno stabilito che il fondamentalismo religioso, in generale, ha a che fare più con le crisi di identità che con le crisi politiche ed economiche. In particolare, le crisi di identità denotano il timore di estinguersi come popolo o l’assorbimento in una cultura diversa in una sorta di omogeneizzazione (Marty & Appleby, 1991).

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Come spiega Hofstede (1991), le persone con problemi di identità “si sentono minacciate da situazioni incerte o sconosciute”. L’elevata incertezza porta a vedere i valori, le norme e le culture altrui come una minaccia (Stephan et al., 2009).

Brandt e Reyna (2010) hanno invece scoperto che il fondamentalismo religioso comporta una maggiore preferenza per l’ordine e la prevedibilità, la risolutezza, e un maggiore disagio nei confronti dell’ambiguità. Questi autori concludono che  il fondamentalismo religioso serva per attenuare l’instabilità e per mantenere le certezze.

Di recente è stato pubblicato sull’argomento uno studio indonesiano (vedi Fonte) dal quale si apprende che l’ Indonesia è il paese con il maggior numero di popolazione musulmana del mondo: vi vivono infatti  225.000.000 di musulmani (Budiman, 2013). Negli ultimi dieci anni, il terrorismo è diventato uno dei problemi più gravi in Indonesia (Arnaz & Marhaenjati, 2013).  

Le autorità indonesiane hanno dunque compiuto molti sforzi per reprimere i gruppi terroristici, arrestando e uccidendo anche alcuni membri e presunti membri di gruppi terroristicii ed hanno fatto circolare informazioni su questi gruppi radicali, spiegando che sono loro i veri autori del terrorismo (Perdani & Parlina, 2014). Tuttavia, gran parte del pubblico indonesiano ha ignorato tali rapporti ufficiali in quanto tende a ritenere che sia stato l’Occidente a portare il terrorismo in Indonesia (Jones, 2009; Mashuri & Zaduqisti, 2014,). Essi credono che l’Occidente sia il vero terrorista, mentre gli islamisti radicali indonesiani sarebbero solo i loro burattini (Hilmy, 2010).

Mashuri, Zaduqisti, Sakdiah, e Sukmawati (2015) hanno scoperto che, nel contesto indonesiano, il fondamentalismo islamico percepisce l’Occidente come una minaccia simbolica (vale a dire, minaccia per le tradizioni e la cultura islamica), anche se non vi è la percezione di una minaccia per l’esistenza reale (cioè la minaccia per il potere economico e politico dei musulmani).

La conclusione dello studio indonesiano è che i musulmani più fondamentalisti percepiscono l’Occidente come una minaccia soprattutto simbolica, anche se hanno anche una paura reale nei confronti della globalizzazione, che ha permesso l’ingresso nel loro paese di economie e tecnologie occidentali, le quali sono avvertite come una minaccia reale per il potere islamico.

Dr. Giuliana Proietti

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Fonte: Mashuri A, Akhrani LA, Zaduqisti E. You Are the Real Terrorist and We Are Just Your Puppet: Using Individual and Group Factors to Explain Indonesian Muslims’ Attributions of Causes of Terrorism. Wentink Martin N, ed. Europe’s Journal of Psychology. 2016;12(1):68-98. doi:10.5964/ejop.v12i1.1001.

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