Lo sport praticato produce felicità

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Lo sport è molto più di una semplice attività fisica: è un catalizzatore per un benessere psicofisico completo. Molte persone praticano uno sport per migliorare la forma fisica o raggiungere determinati obiettivi di performance, ma gli effetti positivi che lo sport ha sulla salute mentale e sul benessere generale non possono essere sottovalutati.

Chi può avvalersi dei benefici dello sport?

La buona notizia è che quasi tutte le persone possono beneficiare di una regolare attività sportiva, anche quando viene svolta con moderazione.

Perché lo sport può generare benessere e felicità?

Perché attiva una serie di processi fisiologici che influenzano positivamente la psiche. Durante l’attività fisica, il cervello rilascia endorfine, che sono sostanze chimiche che contribuiscono ad alleviare lo stress e  a indurre sensazioni di euforia. Questo effetto può durare anche diverse ore dopo l’allenamento, lasciando una sensazione di calma e benessere.

Inoltre, l’esercizio fisico regolare è associato a una riduzione dei livelli di cortisolo, l’ormone dello stress. Questo porta a una diminuzione dell’ansia e dell’irritabilità, migliorando il tono dell’umore e riducendo il rischio di sviluppare patologie depressive.

Lo sport può migliorare la qualità del sonno?

Certamente.  Lo sport aiuta a regolare il ritmo sonno-veglia del corpo, favorendo un sonno più profondo e riparatore. Questo, a sua volta, contribuisce a una maggiore concentrazione, a una migliore memoria e a una migliore capacità di gestire lo stress durante il giorno.

Lo sport protegge dall’invecchiamento?

Si, è provato che si riduce il rischio di sviluppare un declino cognitivo legato all’età. L’attività fisica, infatti, aumenta il flusso sanguigno al cervello, promuovendo la crescita di nuove cellule cerebrali e migliorando la connettività neuronale.

Quali sono i vantaggi a livello psicologico?

Partecipare a una squadra sportiva o a un corso di fitness fornisce l’opportunità di fare nuove amicizie, ma permette anche un supporto emotivo importante. Il senso di appartenenza a una comunità sportiva può aumentare l’autostima e ridurre la sensazione di solitudine, contribuendo al benessere psicologico.

Ci sono dati sui danni dovuti alla riduzione dell’attività fisica?

Si. La ricerca ha dimostrato che la mancanza di una regolare attività fisica produce un aumento del tasso di obesità, lo sviluppo di malattie croniche e un calo globale del benessere fisico. Lo sport inoltre può anche aiutare le persone con gravi problematiche psicologiche, fornendo risorse per ricostruire o mantenere un buon livello di autostima.

Chiedere aiuto è il primo passo!

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Perché si parla di felicità, in seguito a una attività fisica?

Perché lo psicologo Seligman ha parlato di “PERMA”, un acronimo che riassume i risultati della psicologia positiva. Secondo la sua teoria, gli esseri umani sembrano più felici quando possono avere:

  1. Pleasure (PIACERE, cibi gustosi, bagni caldi, ecc),
  2. Engagement (IMPEGNO o flusso, svolgere un’attività apprezzata e stimolante),
  3. Relationships (RELAZIONI legami sociali, che si sono rivelati ottimi indicatori di felicità),
  4. Meaning (SIGNIFICATO sensazione che la propria vita abbia uno scopo),
  5. Accomplishments (SODDISFAZIONI quando si realizzano obiettivi concreti).

Tutto questo, lo si capisce a livello intuitivo, può essere facilmente raggiunto attraverso lo sport, visto che permette piacere, impegno, relazioni, scopi e soddisfazioni.

Dr. Walter La Gatta



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Innamorarsi del/della Terapeuta

Innamorarsi del/della Terapeuta

INNAMORARSI DEL/DELLA TERAPEUTA

Saluto del CIS - Dr. Walter La Gatta

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 Innamorarsi del proprio o della propria terapeuta è un’esperienza più comune di quanto si pensi. Spesso genera confusione, imbarazzo o senso di colpa in chi la vive, ma è importante riconoscere che si tratta di una dinamica psicologica comprensibile, che ha radici nel funzionamento stesso della relazione terapeutica. Comprendere il “perché” succede, “come affrontarlo” e “in che modo gestirlo in modo costruttivo” può trasformare questa esperienza in un’occasione preziosa per la crescita personale. Cerchiamo di saperne di più.

Perché ci si innamora del/la terapeuta?

La relazione terapeutica è una delle più intime e protette che si possano vivere. Si tratta di un legame basato sull’ascolto, sulla cura e sull’assenza di giudizio, in cui il/la terapeuta si mostra disponibile, presente e comprensivo/a. In un contesto così particolare, è normale che si attivino forti emozioni. Dal punto di vista psicologico, questo fenomeno è noto come “transfert“.

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Cosa è il transfert?

Il transfert si ha quando il/la paziente può proiettare sul/la terapeuta emozioni, desideri o bisogni affettivi che originano da relazioni passate, spesso con figure genitoriali o altre persone significative. Il transfert può assumere diverse forme, tra cui anche l’innamoramento.

Non si tratta di un “vero amore” in senso relazionale, ma di un investimento emotivo che riflette bisogni profondi, talvolta inconsapevoli. La figura del/della terapeuta, proprio per il suo ruolo di contenimento, affidabilità e cura, può attivare desideri di fusione, idealizzazione e dipendenza affettiva.

Chi ha parlato per primo di transfert?

Freud conosceva bene questo problema, per averlo vissuto indirettamente attraverso l’esperienza di Breuer con Anna O. , oltre che su se stesso: ritenne tuttavia che questi sentimenti di traslazione (come definì il transfert in altri scritti) dovessero essere considerati come ulteriori dati scientifici forniti dai pazienti, che andavano integrati e capiti dal terapeuta, allo scopo di facilitare il processo di guarigione del paziente.

Per Freud infatti, il transfert era un processo che permetteva al paziente di rivivere, e di far rivivere, antichi sentimenti sessualizzati, associati con la nevrosi originaria. In un certo senso essi funzionavano come una resistenza, dal momento che, durante l’analisi, questi prendevano il posto dei precedenti sintomi nevrotici, in una forma nuova e mascherata della nevrosi originaria.

Non sempre i sentimenti provati dal paziente nei confronti dell’analista sono di tipo romantico: spesso possono ricordare la relazione padre-figlio (o madre-figlia), dove il terapeuta assume un ruolo genitoriale nella mente del paziente, con il/la quale rivivere il rapporto, più o meno traumatico, dell’infanzia e dell’adolescenza.

L’innamoramento per il/la terapeuta è una costante in terapia?

L’innamoramento verso il terapeuta rappresenta un possibile “effetto collaterale” della psicoterapia, anche se non succede a tutti ed in tutte le situazioni terapeutiche.

Erich Fromm riteneva normale che, di fronte alle difficoltà date da un cammino di individuazione, l’essere umano potesse sentirsi attratto da una figura “onnipotente” come quella del terapeuta, cui affidarsi e perfino sottomettersi. Analizzare il transfert di un paziente, disse Fromm, può essere dunque utile per osservare al microscopio il rapporto che il paziente ha con il mondo.

Cosa è il controtransfert?

Il controtransfert è un concetto della psicoanalisi e della psicoterapia che indica l’insieme delle reazioni emotive, inconsce e consce, che il/la terapeuta sviluppa nei confronti del/la paziente nel corso del percorso terapeutico

Secondo Freud, il contro-transfert costituisce un elemento di grave ostacolo al progredire della terapia, in quanto invalida quell’atteggiamento di impassibilità e di distacco emotivo espresso attraverso la regola dello specchio:

“Il medico deve essere opaco per l’analizzato e, come una lastra di specchio, mostrargli soltanto quello che gli viene mostrato”

Cosa può fare un terapeuta che sente di provare amore per un/una paziente?

Ovviamente il terapeuta non dovrebbe mai, per nessuna ragione, mostrare di ricambiare i sentimenti del/della paziente: questa sarebbe una grave violazione della relazione terapeutica, professionale ed etica.

Dr. Walter La Gatta

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Come diceva Freud: “non siamo lungi dal pretendere che il medico debba riconoscere in sé questa contro-traslazione e padroneggiarla” (vedi S. Freud, Tecnica della Psicoanalisi 1911-1912 in Opere, Boringhieri).

Cosa ne pensava Jung?

Jung riteneva ineliminabile il controtransfert: esso, diceva lo psicoanalista svizzero, non andrebbe respinto, ma accolto e controllato. Nella relazione terapeuta-paziente c’è una reciprocità trasformativa che conferisce alla relazione l’aspetto dinamico che le è proprio: in azione non c’è solo l’Io dell’analista, ma anche l’inconscio dell’analista e l’inconscio del paziente, la cui comunicazione costituisce l’elemento più autenticamente analitico. (Non a caso Jung si invischiò più volte in tormentate relazioni con molte sue pazienti. Vedi il caso di Sabina Spielrein).

Cosa prevede il codice deontologico?

Di parere opposto a quello di Jung è il Codice deontologico degli psicologi italiani (che ricalca in proposito quello americano ) attraverso l’Art. 28:

Articolo 28

Lo psicologo evita commistioni tra il ruolo professionale e vita privata che possano interferire con l’attività professionale o comunque arrecare nocumento all’immagine sociale della professione.

Costituisce grave violazione deontologica effettuare interventi diagnostici, di sostegno psicologico o di psicoterapia rivolti a persone con le quali ha intrattenuto o intrattiene relazioni significative di natura personale, in particolare di natura affettivo-sentimentale e/o sessuale.

Parimenti costituisce grave violazione deontologica instaurare le suddette relazioni nel corso del rapporto professionale

A
llo psicologo è vietata qualsiasi attività che, in ragione del rapporto professionale, possa produrre per lui indebiti vantaggi diretti o indiretti di carattere patrimoniale o non patrimoniale, ad esclusione del compenso pattuito.

Lo psicologo non sfrutta la posizione professionale che assume nei confronti di colleghi in supervisione e di tirocinanti, per fini estranei al rapporto professionale.

IPNOSI CLINICA: una intervista al Dr. Walter La Gatta

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Come riconoscere l’innamoramento in terapia?

Alcuni segnali che possono indicare un coinvolgimento amoroso verso il/la terapeuta sono i seguenti:

– Pensieri persistenti sul/sulla terapeuta al di fuori delle sedute
– Desiderio di piacergli/le o compiacerlo/a
– Gelosia all’idea che possa avere altri pazienti
– Tendenza a idealizzarlo/a, percependolo/a come perfetto/a 
– Difficoltà a parlare apertamente di questi sentimenti in seduta

È importante distinguere tra una normale gratitudine o stima nei confronti del/la terapeuta e un coinvolgimento affettivo più intenso, che può interferire con il processo terapeutico.

Cosa fare se ci si innamora del/la terapeuta?

Il primo passo è non colpevolizzarsi. Provare emozioni forti in terapia è parte del lavoro psicologico e può essere un segnale di apertura emotiva.

Il secondo passo è parlarne apertamente durante le sedute, anche se può sembrare imbarazzante. Un/a terapeuta preparato/a sarà in grado di accogliere questi sentimenti con professionalità, aiutando a esplorarne il significato.

Affrontare l’innamoramento in terapia permette di:

– Comprendere i propri bisogni affettivi e relazionali
– Analizzare le dinamiche di idealizzazione e dipendenza 
– Riconoscere modelli relazionali appresi nel passato
– Rafforzare la consapevolezza di sé e delle proprie emozioni

In alcuni casi, se il transfert amoroso diventa molto intenso o rischia di compromettere la terapia, si può valutare, insieme al/la terapeuta, l’eventualità di un invio ad altro/a professionista. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, affrontare direttamente la questione diventa parte integrante del processo di cura.

CITTA' DI RICEVIMENTO - COSTI

Costi Psicoterapia e Città

 

Come prevenire (o meglio: gestire) questa dinamica?

 Non è possibile “prevenire” del tutto l’innamoramento in terapia, perché le emozioni non sono sotto il nostro controllo razionale. Tuttavia, ci sono alcune modalità che possono aiutare a gestire consapevolmente questa possibilità:

– Avere un contratto terapeutico chiaro, che definisca il setting e i limiti della relazione
– Coltivare altri legami affettivi e significativi nella propria vita 
– Dare spazio a pensieri e riflessioni critiche rispetto all’idealizzazione del/la terapeuta 
– Concedersi di esplorare le emozioni, senza giudicarle ma anche senza agire impulsivamente

Se proprio si vuole evitare che succeda questo, in ogni caso, è bene scegliere un/una terapeuta del proprio sesso se si è eterosessuali e dell’altro sesso se si è omosessuali.

Cosa succede quando si provano forti dubbi sull’interesse che il/la terapeuta potrebbe avere nei propri confronti?

Se si nutrono dubbi sul comportamento del terapeuta e ci si sente turbati, occorre tener conto di questi punti:

  • Spetta soprattutto al/alla terapeuta, che conosce bene questi meccanismi, mantenere la giusta distanza. 

  • Se il/la terapeuta fa delle avances, avendo capito la vulnerabilità del/della paziente, occorre interrompere subito la terapia e denunciare l’accaduto all’Ordine degli Psicologi.
  • Abbracciare e baciare il/la paziente non fa assolutamente parte di un metodo psicoterapeutico riconosciuto.

Dr, Walter La Gatta

Relazione sulla Terapia di Coppia dopo un Tradimento - Festival della Coppia 2023

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Scala di Self Compassion - Test di Screening

Scala di Self Compassion – Test di Screening

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I Test di Psicolinea

A cura di:
Dr. Giuliana Proietti - Dr. Walter La Gatta

Altri test sono disponibili su:
Clinica della Coppia  |   Clinica della Timidezza

COME TIPICAMENTE MI PONGO VERSO ME STESSO NEI MOMENTI DI
DIFFICOLTÀ

Per favore leggi ogni affermazione con attenzione prima di rispondere. A sinistra di ogni item,
indica quanto spesso ti comporti nella maniera descritta, utilizzando la scala seguente:

Quasi mai (1) – Sempre (5)

1.  2.  3.  4.    5.      1. Sono critico/a e severo/a nei confronti dei miei difetti e delle mie inadeguatezze. confronti dei miei difetti e delle mie inadeguatezze.

1.  2.  3.  4.    5.      2. Quando mi sento giù, tendo a ossessionarmi e a fissarmi su tutto ciò che è sbagliato.

1.  2.  3.  4.    5.      3. Quando le cose mi vanno male, vedo le difficoltà come una parte della vita che tutti
devono attraversare.
1.  2.  3.  4.    5.      4. Quando penso alle mie inadeguatezze, questo tende a farmi sentire più separato/a e
tagliato/a fuori dal resto del mondo

1.  2.  3.  4.    5.      5. Cerco di essere amorevole verso me stesso/a quando provo un dolore emotivo.

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1.  2.  3.  4.    5.      6. Quando non riesco in qualcosa che è importante per me, sono logorato/a da sentimenti di inadeguatezza.

1.  2.  3.  4.    5.      7. Quando mi sento depresso/a, ricordo a me stesso/a che ci sono molte altre persone nel mondo che si sentono come me.

1.  2.  3.  4.    5.      8. Quando sto attraversando dei momenti davvero difficili, tendo a essere duro/a con me stesso/a.

1.  2.  3.  4.    5.      9. Quando qualcosa mi sconvolge cerco di tenere le mie emozioni in equilibrio.

1.  2.  3.  4.    5.      10. Quando mi sento in qualche modo inadeguato/a, cerco di ricordare a me stesso/a che i sentimenti di inadeguatezza sono condivisi dalla maggior parte delle persone.

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1.  2.  3.  4.    5.      11. Sono intollerante e impaziente verso quegli aspetti della mia personalità che non mi piacciono.

1.  2.  3.  4.    5.      12. Quando sto attraversando un momento molto difficile, do a me stesso/a la cura e la tenerezza di cui ho bisogno.

1.  2.  3.  4.    5.      13. Quando mi sento giù, ho l’impressione che la maggior parte delle altre persone sia probabilmente più felice di me.

1.  2.  3.  4.    5.      14. Quando accade qualcosa di doloroso, cerco di tenere una visione equilibrata della situazione.

1.  2.  3.  4.    5.      15. Cerco di vedere i miei difetti come parte della condizione umana.

1.  2.  3.  4.    5.      16. Quando vedo aspetti di me che non mi piacciono, me la prendo con me stesso/a.

1.  2.  3.  4.    5.      17. Quando non riesco in qualcosa che è importante per me, cerco di mantenere una giusta prospettiva della situazione.

1.  2.  3.  4.    5.      18. Quando sono davvero in difficoltà, ho l’impressione che le altre persone se la cavino meglio di me.

1.  2.  3.  4.    5.      19. Sono gentile con me stesso/a quando sto soffrendo.

1.  2.  3.  4.    5.     20.  Quando qualcosa mi sconvolge, vengo trascinato/a via dai miei sentimenti.


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1.  2.  3.  4.    5.      21. Posso essere un po’ freddo/a verso me stesso/a quando sto sperimentando sofferenza.

1.  2.  3.  4.    5.      22. Quando mi sento giù, cerco di guardare ai miei sentimenti con curiosità e apertura mentale.

1.  2.  3.  4.    5.        23. Sono tollerante con i miei difetti e le mie inadeguatezze.

1.  2.  3.  4.    5.       24. Quando accade qualcosa di doloroso tendo a ingigantire la situazione a dismisura.

1.  2.  3.  4.    5.         25. Quando non riesco in qualcosa che è importante per me, tendo a sentirmi solo/a nel mio fallimento.

1.  2.  3.  4.    5.       26. Cerco di essere comprensivo/a e paziente verso quegli aspetti della mia personalità che non mi piacciono

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Codifica / Soluzione del Test

La Self-Compassion Scale (SCS) è una scala di 26 item che valuta l’autocompassione, ovvero la capacità di essere gentili e comprensivi verso se stessi. Questa scala è composta da sei sottoscale: Gentilezza verso se stessi, Autogiudizio, Umanità, Isolamento, Consapevolezza e Sovraidentificazione.

Auto-gentilezza (Self-Kindness): item 5, 12, 19, 23, 26
Auto-giudizio (Self-Judgment): item 1, 8, 11, 16, 21
Umanità comune (Common Humanity): item 3, 7, 10, 15
Isolamento (Isolation): item 4, 13, 18, 25
Mindfulness: items 9, 14, 17, 22
Sovra-identificazione (Over-identification): item 2, 6, 20, 24

Risultati del Test

I punteggi delle sottoscale sono ottenuti calcolando la media delle risposte nei rispettivi item. Per
calcolare un punteggio di self-compassion totale, bisogna prima invertire i punteggi degli item
delle sottoscale negative – auto-giudizio, isolamento, sovra-identificazione (i.e., 1=5, 2=4, 3=3,
4=2, 5=1) – e quindi calcolare la media dei punteggi medi delle sei sottoscale.

Citazione originale

Neff, KD (2003). Sviluppo e validazione di una scala per misurare l’autocompassione. Sé e identità, 2(3), 223-250. https://doi.org/10.1080/15298860309027

Riferimento per la versione originale:
Neff, K. D. (2003). Development and validation of a scale to measure self-compassion. Self and
Identity, 2, 223-250.
Contatto: kristin.neff@mail.utexas.edu
Riferimento per la versione italiana:
Veneziani, C. A., Fuochi, G., & Voci, A. (2017). Self-compassion as a healthy attitude toward
the self: Factorial and construct validity in an Italian sample. Personality and Individual
Differences, 119, 60-68. doi:10.1016/j.paid.2017.06.028
Contatto: alberto.voci@unipd.it

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Foto di Julio Lopez

Altri test di screening:

HADS Test per depressione (Hospital Anxiety and Depression Scale)
Salute e Malattie Test di Screening Patient Health Questionnaire – 9 (PHQ-9) per depressione

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Quando Freud fu abbandonato da Adler, Stekel e Jung

Quando Freud fu abbandonato da Adler, Stekel e Jung

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Freudiana

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“Ritengo che quando sarà giunto il momento di scrivere la storia del periodo che abbiamo attraversato, la scienza tedesca non avrà motivo di sentirsi orgogliosa di coloro che la rappresentarono ufficialmente. Non alludo al fatto che essi abbiano avversato la psicoanalisi o al modo con cui lo hanno fatto – fatti comprensibili e largamente prevedibili, e che comunque non possono gettare alcun discredito sugli avversari di una teoria. Quello che invece non si può perdonare è l’arroganza che essi mostrarono, l’incoscienza con cui passarono sopra alla logica, ed il cattivo gusto delle loro accuse. Si potrà pensare che sia puerile, da parte mia, dare sfogo a questi sentimenti a quindici anni di distanza dall’accaduto, e ne farei volentieri a meno, ma devo aggiungere un’altra cosa. Vari anni dopo, durante la guerra mondiale, quando un coro di voci nemiche mosse alla nazione tedesca le colpe da me elencate più sopra, fui profondamente amareggiato nel constatare che la mia esperienza non mi consentiva di smentirle.”.

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A parlare è Sigmund Freud (nella foto a sinistra ritratto nel 1911) che nella sua autobiografia scrive queste parole per ricordare il periodo infausto della sua vita in cui dovette subire lo scisma dei suoi allievi più cari e più vicini: allontanamenti che Freud sentì come dei veri e propri tradimenti.

Siamo nel 1911 e Freud era molto preoccupato per l’opposizione interna che si era venuta a creare nel movimento psicoanalitico. Ciò lo preoccupava più delle critiche che riceveva dall’esterno: infatti pensava che tutte queste nuove idee, che ricadevano comunque sotto la denominazione di “psicoanalisi” avrebbero rimescolato e confuso le cose a tal punto, che un giorno sarebbe diventato difficile comprendere che cosa fosse, o non fosse, la psicoanalisi. (Ricordiamo che Freud era seriamente convinto che la sua creazione fosse una delle scoperte più decisive e di più vasta portata che l’uomo avesse mai fatto sulla via dell’autoconoscenza e dunque si sentiva in dovere di difenderla in modo instancabile e inflessibile).


Il primo a prendere le distanze dal Maestro fu Alfred Adler, che diede vita alla psicologia individuale, una psicologia che non teneva in alcun conto i concetti di rimozione, sessualità infantile ed inconscio. Con Adler se ne andarono altri membri del movimento: non perché condividessero le idee di Adler, ma perché turbati dall’intolleranza e dalle aspre critiche di Freud stesso e dei suoi seguaci. Molti pensarono che un atteggiamento del genere violasse la ‘libertà della scienza’.

Quanto a Stekel, egli pubblicò nel 1911 un libro sui sogni che Freud trovò “…mortificante per noi, malgrado i nuovi contributi che apporta” e che Ferenczi definì “umiliante e disonesto”. Stekel ottenne comunque un notevole successo con il suo trattato sul simbolismo nei sogni, tanto da volersi misurare col Maestro, ovviamente senza successo. Dopo le dimissioni di Adler arrivarono dunque quelle di Stekel, che però furono meno traumatiche, in quanto sembra che Freud non avesse mai preso questo collega troppo sul serio, pur riconoscendone le qualità.

Con Jung la separazione avvenne nel 1912, a seguito delle sempre maggiori divergenze teoriche sul concetto di libido. Così Freud scrisse a Ferenczi della rottura con lo psichiatra svizzero: ”Penso che non vi siano più speranze di raddrizzare gli errori di quelli di Zurigo, e credo che tra due e tre anni ci muoveremo in direzioni completamente diverse, senza nessuna comprensione reciproca… Il modo migliore di difendersi da ogni amarezza è quello di non aspettarsi nulla, o meglio di aspettarsi il peggio: Glielo raccomando. Seguiremo il nostro destino continuando a lavorare senza curarci del chiasso, come l’orefice di Efeso.”

Fonti:

Ernest Jones, Vita e opere di Freud, il Saggiatore, Milano,
Hanns Sachs, Freud, maestro e amico, Astrolabio.

Dott.ssa Giuliana Proietti

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Interventi psicologici sui soccorritori in eventi traumatici

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Una lezione divulgativa su Freud e il suo libro "Totem e Tabù"

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Quando si verifica un evento traumatico, come un disastro naturale, un incidente grave, un attentato, l’attenzione si concentra spesso sulle vittime dirette. Tuttavia, anche i soccorritori psicologici, cioè coloro che prestano aiuto nei momenti di massima emergenza, possono sperimentare forme di disagio psicologico significative, talvolta persistenti. 

Sostenere psicologicamente i soccorritori non è un lusso, ma una necessità. L’intervento in emergenza richiede, infatti, lucidità, empatia e resistenza emotiva: qualità che si possono mantenere solo se si è inseriti in un sistema che promuove la salute mentale come parte integrante della prassi professionale. Occuparsi di chi si prende cura degli altri è un atto di responsabilità collettiva e di lungimiranza organizzativa.

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Lo stress del soccorritore: un rischio professionale concreto

Psicologi, psicoterapeuti e operatori psicosociali impiegati nei contesti emergenziali sono esposti a una serie di fattori stressanti: esposizione al dolore umano, identificazione con le vittime, senso di impotenza, turni prolungati, decisioni etiche difficili. Questo può sfociare in condizioni come il “Secondary Traumatic Stress” (STS), il “compassion fatigue” o il “burnout”. In alcuni casi, si possono manifestare anche sintomi di tipo post-traumatico, in assenza di un trauma diretto.

Quali interventi adottare?

Numerosi approcci sono stati studiati e applicati per sostenere i soccorritori psicologici prima, durante e dopo l’intervento in emergenza:

  • Formazione pre-evento: è essenziale che i professionisti siano formati non solo nelle tecniche di intervento psicologico in emergenza, ma anche nella gestione dello stress, nell’autoconsapevolezza e nelle strategie di coping. Vengono spesso proposte simulazioni, role-play e protocolli di sicurezza emotiva.
  • Debriefing psicologico strutturato: sebbene il debriefing immediato sia oggetto di discussione, esistono protocolli (come il “Critical Incident Stress Debriefing” – CISD) che, se condotti da esperti, possono facilitare l’elaborazione dell’esperienza e ridurre il rischio di interiorizzazione del trauma.
  • Supervisione clinica e gruppi di intervisione: momenti strutturati di riflessione tra pari, con o senza la guida di un supervisore esperto, aiutano a contenere l’ansia, normalizzare le reazioni emotive e sostenere il senso di appartenenza professionale.
  • Interventi individuali di supporto: quando emergono segnali di disagio rilevante (insonnia, irritabilità, distacco emotivo, somatizzazioni), è importante offrire tempestivamente colloqui psicologici individuali o psicoterapia breve focalizzata.
  • Piani di cura e follow-up post-evento: gli effetti dello stress possono manifestarsi anche settimane o mesi dopo. È quindi utile prevedere check-up psicologici periodici, eventualmente integrati con strumenti di screening.

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Fattori protettivi e buone pratiche organizzative

Oltre agli interventi psicologici, anche il contesto lavorativo e organizzativo gioca un ruolo cruciale nella tutela della salute mentale dei soccorritori. Tra i fattori protettivi si evidenziano:

  • la presenza di una leadership empatica e competente;
  • la turnazione equa e il rispetto dei tempi di riposo;
  • la valorizzazione del lavoro svolto e il riconoscimento delle competenze;
  • l’accessibilità a momenti di decompressione e spazi dedicati al benessere (stanze relax, supporto tra colleghi, pause adeguate);
  • la possibilità di scegliere se e quando rientrare in servizio dopo eventi particolarmente impattanti.

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Dal 2002 parole che curano, orientano e fanno pensare.

Crescita personale

Alcune meta-analisi hanno indicato che gli interventi psicosociali influenzano in maniera significativa la crescita personale post-traumatica tra i sopravvissuti al trauma (Roepke, 2015). Basandosi sul costrutto della crescita personale post-traumatica, Arnold et al. (2005) hanno coniato  il concetto di ‘crescita personale da stress post-traumatico secondario‘ (SPTG) per indicare i cambiamenti positivi circa il rapporto con il proprio sé e con il mondo, a seguito della crescita psicologica percepita.

La crescita personale post-traumatica secondaria è uno dei risultati principali di esposizione indiretta al trauma vissuto da professionisti della salute e dei servizi umani (Cohen e Collens, 2013). È il risultato di essere esposti a materiali scioccanti dati dalle esperienze traumatiche da loro vissute (Cohen e Collens, 2013).

Secondo il modello SPTG proposto da Cohen e Collens (2013), le aree della crescita personale riguardano cambiamenti sugli atteggiamenti verso la vita (ad esempio, l’apprezzamento della vita e della resilienza umana), i valori (importanza del sostegno da parte della famiglia), l’autoefficacia (migliorando la consapevolezza di sé e le credenze in merito al proprio valore e alle proprie capacità), e lo stile di vita (per esempio, imparando a reagire attivamente ai problemi sociali degli altri).

L’auto-efficacia si riferisce alle credenze di un individuo sulla propria capacità di far fronte alle richieste stressanti, da parte dell’ambiente o del proprio lavoro. Le credenze positive permettono agli individui di affrontare in modo più efficace i fattori di stress (compresi gli eventi traumatici) e di promuovere la salute e il benessere (Bandura, 1997).

In origine, il concetto di auto-efficacia è stato sviluppato per descrivere la reazione a vari eventi stressanti, barriere e ostacoli che impediscono agli individui di influenzare positivamente i propri stati interni e l’ambiente (Bandura, 1997). Tuttavia, queste teorie vengono ora adottate anche nei processi di adattamento agli eventi traumatici (Benight e Bandura, 2004).

L’auto-efficacia è una cognizione modificabile, che può essere arricchita e rinforzata (Bandura, 1997). Pertanto, gli interventi di promozione della salute mentale e fisica spesso utilizzano queste tecniche (Luszczynska e Schwarzer, 2015), anche se troppo raramente rispetto all’effettivo bisogno.

Precedenti ricerche hanno dimostrato che gli interventi di auto-efficacia con procedure attive che richiedono il ricordare e il riferire le proprie esperienze sono risultate più efficaci rispetto a procedure passive di controllo (sola lettura) che si concentrano sulla sola formazione teorica (Steinmetz et al, 2012;. Luszczynska et al, 2016).

In conclusione, una maggiore attenzione dovrebbe essere rivolta non solo a chi sperimenta il trauma, per gli ovvi motivi che tutti possono immaginare, ma anche a chi aiuta i traumatizzati, in particolare fornendo ai soccorritori le tecniche per rafforzare la loro sensazione di auto-efficacia.

Dr. Giuliana Proietti


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Fonte principale:
Cieslak R, Benight CC, Rogala A, et al. Effects of Internet-Based Self-Efficacy Intervention on Secondary Traumatic Stress and Secondary Posttraumatic Growth among Health and Human Services Professionals Exposed to Indirect Trauma. Frontiers in Psychology. 2016;7:1009. doi:10.3389/fpsyg.2016.01009.

Immagine:
Foto di Mikhail Nilov

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