Freud e Jung

Freud e Jung ospiti di Putnam sui Monti Adirondack

Sopra: Lake Placid e Monti Adirondack.

Scrisse Freud, nel 1924, nella sua autobiografia: ”La psicoanalisi non ha perso terreno in America dopo la nostra visita: essa gode tra il pubblico di una popolarità poco comune ed è riconosciuta da molti psichiatri ufficiali come parte integrante dell’insegnamento medico. Disgraziatamente, tuttavia, ha sofferto molto per il suo annacquamento. Il suo nome é abusato, essendovi poche possibilità di formare gli analisti tecnicamente e teoricamente. Si scontra anche con il “behaviorismo” che, nella sua ingenuità, si vanta di aver completamente eliminato il problema psicologico”.

Le conferenze in America del 1909 erano andate molto bene e Freud e Jung avevano stretto importanti relazioni con gli psicologi del nuovo continente. In particolare con il grande vecchio di Harvard (come lo chiamava Ferenczi), James Putnam, il quale invitò Freud e Jung nel suo rustico sui monti Adirondack. La signora Putnam era molto scettica verso i due europei ed era preoccupata del fatto che suo marito fosse stato attratto da queste nuove teorie che lo portavano su una cattiva strada, con il rischio di rovinargli la reputazione.

L’accampamento di Putnam si trovava all’inizio della Keene Valley. I nostri arrivarono fra quelle montagne vie lago, attraversando il Lake Placid. Il rustico era stato comprato da James Putnam, suo fratello Charles, l’amico James Bowditch e William James, che però presto rivendette agli altri comproprietari la sua quota, anche se continuò a frequentare quella casa e quella zona.

Freud rimase molto colpito dalla natura incontaminata dei monti Adirondack, ma in fondo non vedeva l’ora di tornare a casa. Il 18 Settembre cominciò il viaggio di ritorno verso l’Europa.

Fonte: Donn, Freud e Jung, Leonardo

Dott.ssa Giuliana Proietti

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psicoanalisi

Un fidanzato che va in psicoanalisi Consulenza online

Buongiorno dottoressa, le chiedo un suo parere. Io e il mio ragazzo ci siamo lasciati 10 giorni fa in quanto lui è secondo me quasi totalmente incapace di esprimere i suoi sentimenti, è come se avesse un blocco e questa cosa lui l’ha finalmente capita e ammessa per questo sabato avrà la prima seduta dalla psicanalista. Ieri mi ha cercata dicendomi che vorrebbe parlare, chiarire, capire cosa sia successo tra noi due ma vorrebbe incotrarmi dopo la sua prima visita con la dottoressa sabato, forse vorrà chiederle un parere. La mia domanda è molto semplice, una persona con queste caratteristiche che va in psicanalisi sarebbe meglio rimanesse solo e non avesse relazioni sentimentali o questo non c’entra nulla? Grazie in anticipo. Cordiali saluti.

Buongiorno:

Non esprimo commenti sulla vostra storia perché le poche righe della sua lettera non mi permettono di farmi un’idea precisa, e quindi vengo direttamente alla domanda. A mio parere una persona che va in psicoanalisi (o comunque inizia una psicoterapia) è una persona motivata più delle altre a risolvere i suoi problemi e a cercare una maggiore felicità. Per questo ritengo che se il suo fidanzato (o ex fidanzato) ha intrapreso questo lavoro psicologico su sé stesso, questo sia un elemento che depone a suo favore e non certo una ragione per isolarlo dal mondo, dalle persone e dagli affetti.
Cari saluti.

Dott.ssa Giuliana Proietti Ancona

Immagine: Yellowblade67

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Insegnare ed apprendere in modo efficace

Decenni di ricerca sul modo in cui funziona la memoria dovrebbero avere rivoluzionato l’insegnamento universitario. Ed invece non è così.

Se siete studenti, quello che sto per dirvi vi permetterà di cambiare il modo di studiare e renderlo più efficace, più divertente e più facile. Se invece insegnate presso un’Università – come nel mio caso – viene da vergognarsi per il fatto che sappiamo queste cose da decenni, ma continuiamo ad insegnare allo stesso modo.

C’è un’idea pericolosa nell’istruzione ed è quella che gli studenti siano dei contenitori, mentre gli insegnanti siano responsabili di fornire loro contenuti che li riempiano. Questo modello ci spinge a valutare gli studenti in base alla quantità di contenuti che essi possono assimilare, concentrandoci eccessivamente sulle frasi, piuttosto che sulle competenze, o sui programmi e le interrogazioni piuttosto che sui valori della didattica. Questo ci porta inoltre a credere che sia possibile cercare di imparare delle cose cercando di ricordarle a memoria. Sembra plausibile, forse, ma c’è un problema. La ricerca sulla psicologia della memoria dimostra che l’intenzione di ricordare è un fattore poco rilevante nella memorizzazione. Molto più importante, se si vuole ricordare qualcosa, è il modo di pensare ai contenuti, quando li si incontra per la prima volta.

Un esperimento classico di Hyde e Jenkins (1973) illustra questo fatto. Questi ricercatori hanno fornito ai partecipanti una liste di parole, ed in seguito hanno fatto un test per comprendere come i soggetti avevano memorizzato le parole. Per influenzare il loro modo di pensare alle parole, alla metà dei partecipanti è stato chiesto di valutare il livello di piacevolezza di ogni parola, e all’altra metà è stato invece detto di controllare se la parola conteneva le lettere ‘e’ o ‘g’. Questa manipolazione è stata progettata per influenzare ‘la profondità dell’elaborazione’. I partecipanti che dovevano definire la “piacevolezza” di una parola dovevano pensare a cosa significasse la parola, e fare riferimento a sé stessi (cosa provavano nei riguardi della parola). Questa è stata definita “elaborazione profonda”. I partecipanti che dovevano invece semplicemente controllare le lettere non avevano neanche bisogno di leggere la parola, se non volevano. Questa è stata definita “elaborazione superficiale”.

L’esperimento prevedeva una ulteriore manipolazione, indipendente dalla precedente, relativa alla consapevolezza dei partecipanti di essere poi sottoposti ad un successivo test sull’apprendimento delle parole. Alla metà di ogni gruppo fu detto che sarebbero stati valutati (apprendimento intenzionale) e alla metà non è stato detto, per cui il test sarebbe stato una sorpresa (apprendimento accidentale).

Insegnare ed apprendereHo fatto un grafico in modo da poter vedere gli effetti di questi due manipolazioni.

Come potete vedere, non c’è molta differenza tra le condizioni intenzionali e accidentali di apprendimento. Se i partecipanti si impegnavano a cercare di ricordare le parole, questo non influenzava il numero di parole che poi ricordavano. Invece, l’effetto principale è dovuto al modo in cui i partecipanti hanno pensato alle parole che hanno incontrato. I partecipanti che hanno pensato profondamente alle parole, le hanno ricordate in misura quasi doppia dei partecipanti che avevano pensato solo superficialmente alle parole, indipendentemente dal loro desiderio di ricordarle o meno.

Le implicazioni per il modo di insegnare ed imparare dovrebbero essere chiare. Impegnarsi a ricordare, o chiedere a qualcuno di ricordare, non è efficace. Se si vuole ricordare qualcosa occorre pensarci profondamente. Questo significa che è necessario pensare a ciò che si sta cercando di ricordare, sia in relazione ad altri contenuti che si sta cercando di imparare, sia riguardo a sé stessi. Altre ricerche sulla memoria hanno mostrato l’importanza dello schema – i modelli e le strutture della memoria – per il ricordo. Come insegnanti, cerchiamo di organizzare il nostro materiale didattico per favorire gli studenti, per aiutarli a capire meglio. Purtroppo, questa organizzazione del materiale (lo schema), diventa parte della valutazione e dunque qualcosa che gli studenti devono ricordare. Ciò che questa ricerca suggerisce è che, semplicemente in termini di memoria, sarebbe più efficace per gli studenti cercare di organizzare a loro piacimento il materiale didattico.

Se siete degli studenti, ciò che questo studio dimostra è chiaro: non vi stressate nel leggere e rileggere i libri di testo e gli appunti del corso. Ricorderete meglio (e capirete molto meglio) se cercherete di riorganizzare il materiale a modo vostro.

Se siete degli insegnanti, come me, questa ricerca solleva alcuni inquietanti interrogativi. Presso l Università la principale forma di insegnamento che svolgiamo è la lezione, che pone lo studente in un ruolo passivo e, in sostanza, gli chiede di “ricordare queste cose” – un’istruzione che sappiamo essere inefficace. Invece, dovremmo pensare, sempre, a come creare esperienze di insegnamento in cui gli studenti siano più attivi, e a programmare corsi in cui sia ammesso che gli studenti possano organizzare a loro modo i contenuti, piuttosto che semplicemente costringerli ad assimilare il nostro modo di organizzare le cose.

Riferimento bibliografico: Hyde, T. S., & Jenkins, J. J. (1973). Recall for words as a function of semantic, graphic, and syntactic orienting tasks. Journal of Verbal Learning and Verbal Behavior, 12(5), 471–480.

Tom Stafford

L’articolo è pubblicato anche su Mind Hacks
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Tom Stafford

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Psicologia: darsi una scossa verso il cambiamento, per non morire

American Psychological Association

 

La psicologia dovrebbe cambiare qualcosa?

Sul sito dell’APA, l’Associazione degli Psicologi Americani, in un articolo firmato da Sara Martin si invitano gli psicologi “lenti ad abbracciare il cambiamento”, a cercare di aggiornare la loro professionalità, sia nel campo della tecnologia, sia nei nuovi modelli terapeutici, sia nelle nuove tendenze commerciali.

Nell’articolo si dà conto di quanto è emerso in una conferenza sul tema: “Productive Disruption: Key Issues and the Changes Necessary to Ensure a Viable Future for the Next Generation of Practitioners” (temi chiave e modifiche necessarie per garantire un valido futuro alla nuova generazione di professionisti) presieduta da David W. Ballard, che segue per l’APA lo sviluppo professionale degli psicologi.

I relatori (J. Paul Burney, Sarah Morsbach Honaker, Ali Mattu e Nancy Gordon Moore),
hanno esaminato in modo “brutalmente onesto” le debolezze della psicologia, così come la sua possibilità di avanzamento professionale.

“Le cose stanno cambiando così velocemente in questo mondo, che noi abbiamo bisogno di essere più veloci e proattivi”, ha detto Burney, membro del Committee for the Advancement of Professional Practice dell’APA, il comitato che segue la promozione della pratica professionale. “Abbiamo bisogno di guardare ciò che i nostri colleghi di lavoro stanno facendo. Se stanno facendo la stessa cosa che facevano sei mesi fa, sono fuori dal mercato. Molti fanno le stesse cose che facevano quindici anni fa”.

Dopo aver espresso le sue preoccupazioni, il gruppo ha spiegato come gli psicologi potrebbero trasformare queste sfide in opportunità. Questi i suggerimenti:

– Continuare la ricerca in campo scientifico. I ricercatori stanno scoprendo nuovi modi per identificare e trattare le condizioni della salute mentale, come la mappatura del cervello, che può individuare le sfumature nelle malattie del cervello, così come medicinali di sintesi, che colpiscono i sintomi bersaglio di un individuo. “Nel giro di 10 anni, quello che avremo capito del cervello ci farà ritenere che ciò che ne sappiamo oggi è assolutamente nulla”, ha detto Moore, direttore esecutivo degli affari di governo dell’APA. “Se non stiamo attenti, la psicoterapia potrebbe presto assomigliare a quello che rappresenta oggi il salasso negli interventi considerati efficaci per la salute”.

– Superare la crisi dei tirocini. Negli ultimi dieci anni, troppi studenti laureati sono a caccia di troppo pochi stages. Occorrono soluzioni innovative per risolvere il problema. “Questo non è un problema degli studenti, questo è un problema di appartenenza professionale”, ha detto Mattu, presidente eletto della American Psychological Association of Graduate Students, associazione degli studenti laureati. “Quando gli studenti non riescono a fare il tirocinio, c’è molto malcontento, in quanto essi non possono cominciare la professione. Se vogliamo che la psicologia riesca a sopravvivere nei prossimi 50 – 100 anni, dobbiamo risolvere la crisi dei tirocini “.

– Riconoscere i cambiamenti demografici. Occorre formarsi per praticare la professione in un mondo multiculturale. Si può, ad esempio, imparare lo spagnolo, ha detto Honaker, membro del Committee on Early Career Psychologists. Ma c’è anche bisogno di imparare la lingua degli affari, ha detto Burney. “Non si può… fare consulenza alle imprese, se parli come uno psicologo. Non c’è alcuna possibilità di riuscita in quel modo”.

– Mostrare il valore della psicologia. Gli psicologi devono essere responsabili del loro lavoro, ha detto Honaker. “Come scienziati, gli psicologi sono in una posizione ideale per definire e misurare i risultati che ottengono, i quali dimostrano che gli psicologi sono bravi a fare quello che fanno”.

– Prestare maggiore attenzione ai mercati. I servizi offerti dagli psicologi sono molto richiesti nelle cure primarie, presso la popolazione anziana e presso i soldati che prestano servizio militare (e le loro famiglie). Gli psicologi devono pensare al contesto in cui operano e formarsi in quelle aree che permettono di fornire servizi che rispondano alle esigenze emergenti.

– Collaborazione interprofessionale. “Gli studenti e i professionisti che iniziano la carriera, possono aiutare gli psicologi più anziani con la tecnologia, mentre i più anziani possono insegnare loro l’etica e lo sviluppo della identità professionale”, ha detto Mattu.

– Abbracciare la tecnologia. Telesalute, cartelle cliniche elettroniche e social network sono qui per rimanere e gli psicologi devono capire che occorre usare questi strumenti innovativi. I social media, in particolare, sono un mezzo per raggiungere il grande pubblico e sono strumenti di marketing, ha detto Moore. “Attraverso Twitter, per esempio, è possibile mantenere i followers aggiornati sui temi importanti della psicologia. “E’ veloce e facile da fare”.

– Collaborare con altri professionisti. Gli psicologi si devono modernizzare. Del suo lavoro in una clinica di New York City, Mattu ha detto: “Quasi tutti i nostri pazienti ci vengono inviati dagli psichiatri: sono i nostri migliori colleghi, eppure quando ci hanno formato nella scuola di specializzazione, ci era stato detto che gli psichiatri erano lontani da noi”.

– Rendere gli interventi più efficienti. La seduta di 50 minuti non è passata di moda, ma sarà sempre più difficile fornire solo quel tipo di servizio, hanno avvertito i relatori. Molti psicologi stanno ora offrendo, con successo, diverse opzioni. In risposta alla recessione, per esempio, alcuni professionisti hanno accettato che i pazienti che non potevano più permettersi le sedute, partecipassero a mini-sedute che durano 20 – 30 minuti, mantenendo gli introiti ed i servizi offerti su valori ragionevoli.

“Il mercato è in evoluzione”, ha detto Moore. “Se non cambiamo, rimarremo sepolti dai cambiamenti. Abbiamo invece la possibilità di gestire ciò che accade. ”

Speriamo che all’Ordine Nazionale degli Psicologi Italiano qualcuno legga queste profetiche parole.

Dr. Giuliana Proietti, psicoterapeuta, Ancona

Fonte:

It’s time to shake up psychology, APA

Immagine: APA, Associazione Psichiatri americani

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