Freud e la cocaina Psicolinea

Freud e la cocaina

FREUD E LA COCAINA

Freudiana

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La cocaina prima di Freud

Il principale ingrediente nelle foglie di coca, l’alcaloide cocaina, fu isolato in forma pura nel 1844. In Europa tuttavia se ne fece scarso uso fino al 1883, quando un medico dell’esercito tedesco, il Dr. Theodor Aschenbrandt, acquistò una fornitura di cocaina da una ditta farmaceutica di Merck e la inviò ai soldati della Baviera, durante le manovre d’autunno. Il medico notò che essa produceva dei benefici effetti nella sopportazione della fatica e della fame.

Affascinato da questi incredibili risultati, Freud pensò di indagare ulteriormente il funzionamento di questa sostanza, scoprendo una serie di ricerche su questo argomento sulla Detroit Therapeutic Gazette, in cui venivano indicate numerose virtù della cocaina, tra cui il suo utilizzo per disintossicarsi dalla morfina, allora molto utilizzata per curare le ferite di guerra.

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Il caso del Dr. Fleischl

Freud, dopo aver letto l’esperimento del Dr. Aschenbrandt, acquistò il suo primo grammo di cocaina a 28 anni, nella speranza di essere il primo a sperimentare un uso terapeutico di questa sostanza, in particolare usandola come anestetico e come sostanza capace di eliminare la dipendenza da morfina.

Freud sperava che legare il suo nome a una scoperta del genere gli avrebbe portato gloria e fortuna ed inoltre aveva molto a cuore il caso di un suo amico, il dottor Ernst von Fleischl-Marxow, il quale era fortemente dipendente dalla morfina. Freud credeva che la cocaina potesse curarlo.

Uomo brillante e dottore di talento, Fleischl-Marxow aveva avuto un incidente mentre faceva un’autopsia, all’età di 25 anni. Un bisturi infatti lo aveva ferito accidentalmente al pollice destro; questa ferita, apparentemente di scarsa importanza, si trasformò in una terribile infezione, tanto che il pollice dovette essere amputato.

Nonostante questo, la pelle sana non riusciva a ricrescere lungo la linea dell’incisione,  creando un circolo vizioso di ulcerazioni cutanee, infezioni e vari interventi chirurgici. A peggiorare le cose, sotto il tessuto cicatriziale si osservavano crescite anormali di terminazioni nervose sensoriali chiamate neuromi, dolorosissimi.

Per placare il suo costante dolore lancinante, Fleischl-Marxow iniziò la sua discesa in una devastante dipendenza da morfina.

Nel maggio 1884, Fleischl-Marxow accettò di provare la cocaina, su consiglio di Freud, per curare la dipendenza da morfina: i risultati furono disastrosi.

In quello stesso periodo, Freud pensò di sperimentare la droga anche su se stesso, per meglio comprenderne gli effetti.
Così scrisse, infatti, alla fidanzata, Martha Bernays, il 21 Aprile del 1884:

“Ho letto della cocaina, il componente principale delle foglie di coca, che alcune tribù indiane masticano per riuscire a resistere alle privazioni e alle difficoltà”.

“Me ne sto procurando un po’ per me e poi vorrei provarlo per curare le malattie cardiache e gli esaurimenti nervosi…”

Dal biografo Ernest Jones sappiamo che Freud provò l’effetto di 50 milligrammi di cocaina (in dosi da 0,05 a 0,10 grammi), con l’impressione che effettivamente la sostanza funzionasse benissimo nello scacciare il cattivo umore, facendo tornare l’allegria, al punto che “non si desidera avere altro”, oltre tutto senza che questo benessere tolga l’energia per l’esercizio fisico e il lavoro.

Una lezione divulgativa su Freud e il suo libro "Totem e Tabù"

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Freud considerava la cocaina una “sostanza magica”, tanto che così ne scriveva alla fidanzata:

“Se tutto va bene scriverò un saggio su questa sostanza, che mi aspetto avrà molto successo e troverà posto nelle terapie che oggi fanno uso di morfina. Ho anche altre speranze e progetti su questa cosa. Ne prendo piccolissime dosi per curare la depressione e le indigestioni”.

Per un certo periodo puntò dunque moltissimo sulla cocaina per costruire la sua carriera professionale. Leggiamo infatti, sempre in una lettera a Martha:

“In poche parole, è solo ora che mi sento un vero dottore, dal momento che ho aiutato un paziente e spero di fare ancora di più. Se le cose andranno in questa direzione non avremo da preoccuparci sulla possibilità di poter stare insieme e stabilirci a Vienna”.

Anche Martha assunse cocaina, su consiglio del fidanzato, che gliela dette “per renderla più forte e per farle venire le guance di colore rosso”.

Secondo il biografo Ernest Jones, Freud fece pressioni non solo sui familiari, ma anche sugli amici e sui colleghi perché consumassero questa droga, talmente ne era entusiasta.

In una successiva lettera a Martha, così Freud descriveva la sua esperienza con la cocaina:

“Nella mia ultima depressione ho fatto uso di cocaina e una piccola dose mi ha portato alle stelle in modo fantastico. Sto ora raccogliendo del materiale per scrivere un canto di preghiera a questa magica sostanza”.

In poche settimane, fra Aprile 1884, in cui ebbe il primo contatto con la sostanza, al Giugno 1884, Freud terminò il suo saggio sulla cocaina, che fu pubblicato nel mese di luglio dello stesso anno, con il titolo Uber Coca.

Uber Coca

In questa pubblicazione, scritta con inconsueto entusiasmo per una trattazione scientifica, Freud inserì anche delle riflessioni di carattere religioso connesse all’utilizzo della sostanza e menzionò la saga mitica di Manco Capac, figlio del Dio-Sole, che aveva mandato questo dono agli dei per fortificarli, facendo loro superare la fame e i dispiaceri.

Questa sulla cocaina fu anche la prima importante pubblicazione scientifica di Freud, nella quale veniva erroneamente asserito che la cocaina fosse un rimedio efficace per la morfina e l’abuso di alcol e che fosse una sostanza che non dava dipendenza.

Lodando, con entusiasmo ed eloquenza, le virtù del nuovo farmaco, egli affermava che la cocaina poteva essere usata come stimolante e afrodisiaco, oltre che per combattere i disturbi dello stomaco, la cachessia, l’asma, i sintomi dolorosi che accompagnano nei morfinomani le crisi di astinenza della sostanza.

Gli effetti della cocaina sono così descritti da Freud:

allegria, euforia stabile, che non è diversa da quella che prova una persona in buona salute… Si prova un aumento di autocontrollo e maggiore vitalità, capacità di lavorare… Il lavoro fisico e mentale viene svolto senza provare sensi di affaticamento… E questo senza avere gli effetti indesiderati che ad esempio procura l’alcool…

Nelle conclusioni dello studio sulla cocaina, Freud suggeriva di proseguire gli studi indagando le proprietà anestetiche di questa sostanza. Lo prese in parola il collega Karl Koller, che studiò il possibile utilizzo della cocaina come anestetico locale durante le operazioni oftalmologiche.

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Per ironia della sorte, questa pubblicazione non dette affatto a Freud la celebrità che aveva immaginato, mentre  la scoperta di Koller venne subito accolta con entusiasmo dalla comunità medica e a questo medico furono attribuiti numerosi riconoscimenti in merito: nel 1922 venne onorato dalla American Ophthalmological Society come primo destinatario del Lucien Howe Medal, premio assegnato ai medici in riconoscimento di risultati eccezionali nel campo oftalmologico, e nel 1930 venne onorato dall’Associazione Medica di Vienna.

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Dr. Giuliana Proietti - Dr. Walter La Gatta

Quando si scoprì che la cocaina creava dipendenza

Freud negava fermamente che la cocaina potesse causare dipendenza, sostenendo che nelle sue osservazioni cliniche i pazienti arrivavano a provare perfino repulsione verso questo farmaco.

Nel 1885 tuttavia, un esperto tedesco di dipendenze da morfina che si chiamava Albrecht Erlenmeyer, lanciò una serie di attacchi contro l’uso della cocaina, sostenendo che si trattava di una sostanza che poteva dare dipendenza. Questo medico, che aveva provato a disintossicare i morfinomani attraverso l’uso di cocaina, come suggerito da Freud, aveva notato che essi non solo non si erano disintossicati, ma avevano sviluppato una nuova dipendenza.

Erlenmeyer accusò dunque Freud di aver introdotto una nuova dipendenza in Europa, quella da cocaina, che definì il Terzo Flagello, che andava va a sommarsi alle già conosciute dipendenze da alcol e morfina.

Freud tentò di giustificare il fallimentare esperimento condotto da Erlenmeyer accusandolo di non aver seguito adeguatamente le istruzioni riguardanti le modalità di assunzione della sostanza: dichiarò al riguardo, contraddicendo altri suoi successivi articoli (complessivamente ne scrisse quattro sull’argomento), che la cocaina doveva essere assunta per via orale e non per via sottocutanea.

Nel frattempo, gli obiettivi professionali di Freud cambiarono. Il giovane neurologo, avendo perso le speranze di poter diventare famoso attraverso la scoperta della cocaina a fini terapeutici, puntò il suo interesse verso l’ipnosi e la cura dell’isteria.

Già nel Marzo 1885,  Freud aveva presentato domanda all’Università di Vienna per una borsa di studio, valida per un viaggio-studio di sei mesi. Il 18 Luglio di quell’anno ricevette la nomina di libero docente, ma poco tempo dopo seppe di aver vinto anche la borsa di studio. Convinto che l’ipnosi potesse essere un metodo utile allo sviluppo della sua attività professionale, decise di andare a Parigi, presso l’Ospedale psichiatrico Salpêtrière, dove insegnava Charcot

Si prese quindi una vacanza di sei settimane, durante le quali andò a Wandsbeck, a trovare la fidanzata, per poi recarsi a Parigi, che considerava la grande occasione della sua vita.

A Parigi faceva ancora sicuramente uso di cocaina, come si legge in questa lettera a Martha:

Lui (Charcot) mi ha invitato, insieme a Richetti, a fargli visita a casa sua domani, martedì, dopo cena. Molte persone saranno presenti. Sono sicuro che puoi immaginare la mia apprensione mista a curiosità e orgoglio. Guanti bianchi, cravatta bianca e persino una maglietta nuova, una visita dal barbiere per i capelli che mi sono rimasti.E un po ‘di cocaina per sciogliermi la lingua.

Tornato da Parigi, prese un appartamento a Vienna, sulla Rathaustrasse, e vi aprì il suo studio, alla fine di aprile del 1886.


Nel Gennaio 1886 intanto, anche un amico di Freud, il Dr. Obersteiner, che all’inizio aveva apprezzato la cocaina, riportò che essa poteva dare dei disturbi simili a quelli del delirium tremens, ma Freud, influenzato da Charcot, aveva ormai abbandonato questo campo di studi.

Il 13 settembre 1886, a Wandsbeck, Sigmund Freud si sposò finalmente con Martha Bernays, dopo un lunghissimo periodo di fidanzamento.  In seguito, lo stesso anno, presentò un rapporto sull’isteria maschile presso la Gesellschaft der Arzte. Tale scritto fu accolto con incredulità e ostilità e Freud fu sfidato a presentare un caso di isteria maschile, allora ritenuta impossibile, alla stessa società. Freud raccolse la sfida, il 26 Novembre dello stesso anno, ma l’accoglienza del caso presentato fu fredda e questo fu il punto di partenza dell’inimicizia fra Freud e il mondo medico viennese.

Stando alle biografie ufficiali, fu in questo periodo che Freud cominciò a diminuire l’uso di cocaina, sia a livello personale che professionale. I biografi dicono che, malgrado ne avesse fatto uso per tre anni, non ebbe difficoltà a smettere, influenzato anche dalla sfortunata esperienza del Dr. von Fleischl-Marxow, il paziente col quale Freud aveva condiviso il primo grammo di cocaina e che era finito per divenirne totalmente dipendente.

In basso: 1886 Freud e Martha Bernays

Freud e Martha

Uno dei motivi per cui i medici viennesi non vedevano di buon occhio Freud era proprio quella sua pubblicazione, troppo entusiasta, sulla cocaina.

Per questo, nella ultima relazione sulla cocaina, del 1887, Freud cercò di giustificarsi: la cocaina, disse, è pericolosa solo per i morfinomani, ma da essa si potevano ottenere splendidi risultati se usata con i morfinomani durante lo stadio di privazione.

E aggiunse, un po’ ipocritamente:

‘Non è forse superfluo notare che questa non è un’esperienza personale, ma un consiglio dato a qualcun altro’.

Secondo alcune biografie più recenti (David Cohen), Freud divenne dipendente da cocaina e ne assunse grandi quantità  per quindici anni. L’autore sostiene che l’uso di cocaina non fu per Freud un errore giovanile, ma un elemento cruciale nella sua elaborazione della psicoanalisi.

David Cohen ritiene che Freud fosse in realtà un candidato perfetto per la dipendenza: depresso, ossessivo, represso sessualmente e infelice.

In realtà queste tesi non sono suffragate dai fatti. Il fatto che non vi siano prove significa che l’ipotesi di Cohen possa essere, in pari misura, o giusta o sbagliata.

Quello che c’è di vero è che, effettivamente, Freud era davvero un candidato perfetto per divenire dipendente da qualche sostanza.

Non possiamo non ricordare la sua dipendenza da fumo di sigari, che lo fece ammalare di cancro al palato. Freud fumava venti al giorno e lo faceva anche mentre ascoltava i suoi pazienti, o prendeva appunti. Perfino dopo i 67 anni, quando gli fu diagnosticato il cancro al palato, Freud non smise di fumare.

Era una vera dipendenza: il suo umore, la sua capacità di lavorare, come lui stesso diceva, dipendevano dai suoi sigari, ai quali non sapeva rinunciare. Maggiori informazioni su questa dipendenza di Freud sono nell’articolo di Psicolinea Freud e i suoi sigari.

Dr. Giuliana Proietti

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Riferimenti bibliografici:

Ellensberger, La scoperta dell’inconscio, Boringhieri
Schaffer Library, The Consumers Union Report on Licit and Illicit Drugs by Edward M. Brecher and the Editors of Consumer Reports Magazine, 1972
“Freud sous coke” David Cohen, Editions Balland
Howard Markel, M.D., Ph.D,  An Anatomy of Addiction: Sigmund Freud, William Halsted and the Miracle Drug Cocaine.


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William James: una biografia

William James: una biografia

William James: una biografia


William James (1842–1910) è considerato uno dei padri della psicologia moderna e fondatore della psicologia funzionalista. Filosofo e psicologo statunitense, ha esplorato il ruolo dell’esperienza soggettiva, della coscienza e della volontà, ponendo le basi per una psicologia pragmatica e orientata all’adattamento. Conosciamolo meglio.

Infanzia 

William James nacque l’11 gennaio 1842 a New York i in una ricca e molto numerosa famiglia di immigrati irlandesi in America. Suo padre, Henry James Sr., era un teologo e filosofo di tendenze mistiche.

Era infatti attratto dalla teologia del mistico cristiano Emanuel Swedenborg, ma con una forte antipatia verso tutti gli ecclesiastici, che esprimeva con grande disprezzo e ironia. Sia la sua vita fisica che quella spirituale furono segnate da forti irrequietezze e peregrinazioni, in gran parte d’Europa, che influenzarono gli studi e la personalità dei suoi figli.

Con la moglie Mary, infatti, Henry James Sr. ebbe cinque figli, di cui il primogenito fu William; in seguito la coppia ebbe altri quattro figli, fra cui Henry James jr., celebre romanziere, autore tra l’altro del bellissimo Ritratto di Signora, (1881) e Alice, che ottenne un successo postumo, con la pubblicazione dei suoi diari.

Formazione

La famiglia James era piuttosto benestante e Henry Sr. decise di investire questa disponibilità economica nella formazione culturale dei suoi figli.  Li fece studiare nelle migliori scuole e viaggiare molto in Europa (dove la famiglia risiedette per diversi anni), li portò con sé a teatro, nei musei, alle conferenze.

Henry James Sr. non voleva che i suoi figli prendessero le abitudini stravaganti e strafottenti dei giovani americani: avvicinarli alla cultura europea era, a suo modo di vedere, un modo per tenere lontani i ragazzi dalle tentazioni della vita americana e dal consumismo.

Le abitudini acquisite nell’affrontare le opinioni di suo padre furono sicuramente alla base del modo straordinariamente comprensivo, ma allo stesso tempo critico, che William mostrò nel trattare le opinioni di chiunque, in qualsiasi occasione.

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Crisi esistenziale e svolta filosofica

William da ragazzo pensava di dedicarsi alla vita artistica e per questo seguì un corso con il pittore di soggetti religiosi William M. Hunt, ma Henry James Senior non era entusiasta della scelta del figlio, tanto che alla fine William abbandonò questa idea e si iscrisse all’Università di Harvard, per studiare chimica.

Era il periodo della guerra di secessione americana, cui parteciparono due dei fratelli James, ma non William ed Henry jr., per motivi di salute. William soffriva di quella che al tempo veniva diagnosticata come “nevrastenia” (stato di debolezza e fatica cronica, ansia, fobie) e di depressione.

William, ad un certo punto, pensò che sarebbe stato per lui economicamente più vantaggioso se si fosse laureato in medicina anziché in chimica. E così cambiò facoltà (1864).

Anche a Medicina tuttavia non si trovò bene, per cui decise di fare un viaggio in Amazzonia con un eminente naturalista di Harvard, Louis Agassiz, alla ricerca di esemplari animali ancora non conosciuti. Con il passare dei giorni, l’entusiasmo scemò. William non sopportava di stare lontano dalla sua famiglia, senza i suoi amici. Oltre tutto questa lontananza e questa solitudine acuivano i suoi vissuti depressivi. Preferì quindi tornare a casa e all’Università.

I problemi di salute non cessavano e William cominciò in quel periodo a fare anche propositi di suicidio. In queste condizioni di salute e con l’umore a terra, decise infine di trascorrere un periodo in Europa, in Francia e in Germania, allo scopo di ritrovare un equilibrio (1867-1868). Frequentò in Germania le lezioni di Helmholtz e sentì parlare in quella occasione, per la prima volta, di una nuova disciplina, la Psicologia.

Tornato in America, si laureò in medicina ad Harvard, nel 1869. Fino al 1872 visse in uno stato di semi-invalidità nella casa di suo padre, non facendo altro che leggere e scrivere occasionali recensioni. All’inizio di questo periodo sperimentò inoltre allucinazioni e attacchi di panico, i quali si acuirono dopo la morte della fidanzata, avvenuta per malattia.

Anche suo padre aveva sofferto di queste crisi e, proprio per questo, egli si era rifugiato nello studio della teologia. William temeva a quel punto che l’ansia e la depressione rappresentassero una sorta di destino biologico, dal quale sarebbe stato difficile, se non impossibile, liberarsi. Per combattere l’angoscia, William si dedicò intensamente alla lettura e alla scrittura.

Nel 1870 la svolta: dopo aver letto un libro di Charles Renouvier, William si convinse che si poteva fare qualcosa per cambiare il proprio destino attraverso il libero arbitrio e che lui non doveva più considerarsi schiavo di un destino biologico.  “Il mio primo atto di libero arbitrio – si disse – sarà credere nel libero arbitrio”.

Le sue scoperte rivoluzionarie in psicologia e filosofia, le sue opinioni sui metodi della scienza, le caratteristiche umane e la natura della realtà sembrano aver ricevuto una precisa propulsione da questa risoluzione della sua grave crisi esistenziale.

Psicologia e prima opera accademica

Nel 1872 prese avvio la sua carriera presso l’Università di Harvard, come semplice istruttore e poi, dal 1876, come professore assistente di fisiologia. Dato il suo interesse per la psicologia, passò poi all’insegnamento della psicologia (precisamente la psicologia fisiologica).

Nel 1875 fondò il primo laboratorio di psicologia negli Stati Uniti presso Harvard, anticipando l’istituzionalizzazione della psicologia come disciplina autonoma.

Matrimonio

A 36 anni si sposò (20 Luglio 1878). Malgrado le sue considerazioni sulla autodeterminazione, si fece aiutare da suo padre nella ricerca di sua moglie. La prescelta fu Alice Gibbens, un’insegnante di Boston ed esperta pianista. Fu un’unione felice e la coppia ebbe cinque figli.

La “nevrastenia” ed i problemi psicologici di William, subito dopo il matrimonio, si attenuarono molto, malgrado la perdita nel 1882 di sua madre e di suo padre e, tre anni più tardi, del terzo figlio Herman, che morì di polmonite bronchiale.

Con il matrimonio, William raggiunse un maggiore equilibrio e iniziò a dedicarsi al suo lavoro con crescente interesse e insospettabile energia.

Relazione fra sesso e cibo

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James professore e conferenziere di successo

Nel 1885 divenne professore di filosofia e, dal 1890, assunse l’incarico di professore di psicologia. Come ebbe a dichiarare, quelle che tenne ai suoi allievi furono le prime lezioni di psicologia che gli capitò di frequentare, in quanto la materia era ancora sconosciuta in America.

Nel 1890 pubblicò il monumentale The Principles of Psychology, un’opera in due volumi che pose le basi della psicologia moderna. In questo testo James esplora concetti fondamentali come:

il flusso di coscienza (stream of consciousness), l’attenzione, la volontà, l’abitudine, le emozioni (co-autore della teoria James-Lange), il sé e l’identità personale.

Il testo originale, oltre che un trattato, era un’autobiografia, un manuale di self help, una confessione.

Il libro parla di abitudini, percezioni, associazioni, memoria, ragionamento logico, istinti, emozioni, immaginazione e ipnotismo. Una delle concettualizzazioni più significative del libro è quella relativa al “flusso di pensiero” (stream of thought), in cui le caratteristiche del pensiero vengono associate a quelle della corrente di un fiume.

Nel decimo capitolo James introduce il concetto di Sé empirico, articolato in un Sé materiale (il proprio corpo, i genitori, la casa) , un Sé sociale (come si viene visti dagli altri) e un Sé spirituale (il proprio essere interiore, le proprie capacità personali, ecc.).

Un’altra teoria di notevole importanza è espressa nel libro “Teoria periferica delle emozioni” (periferica in quanto legata al sistema nervoso periferico). Con questa teorizzazione, James capovolge l’idea comune secondo cui alla percezione di uno stimolo segue un’emozione, che è anche accompagnata da manifestazioni a livello somatico; James sostiene, al contrario, che la manifestazione somatica precede l’emozione, la quale successivamente viene riconosciuta a livello “cognitivo”.

Il libro fu un grande successo editoriale, sebbene molti lettori lo giudicarono troppo autoreferenziale, nei toni e nella sostanza. Il noto psicologo Wilhelm Wundt ne disse: “E’ un bel libro, ma non è psicologia”.

James divenne un ottimo insegnante, un conferenziere esperto ed anche un grande scrittore e pensatore.

Nel 1892 James tenne un ciclo di conferenze di psicologia, rivolte ai docenti dell’Università di Cambridge. Lo psicologo iniziava la conferenza spiegando agli insegnanti che loro avevano il futuro del loro Paese nelle loro mani, ma che avrebbero fatto un grave errore se avessero pensato di poter apprendere un metodo valido di insegnamento dalla psicologia.

La psicologia, spiegava, è una scienza, mentre l’insegnamento è un arte, e le scienze non generano arte. Tutta la psicologia di cui ha bisogno un insegnante, diceva, può essere scritta sul palmo di una sola mano. I suoi allievi lo hanno descritto come un docente rigoroso, ma allo stesso tempo dinamico e brillante.

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Dr. Giuliana Proietti - Dr. Walter La Gatta

La psicologia di William James

La sua psicologia è di tipo funzionalista: si concentra infatti non tanto su “cosa è” la mente, ma su “come funziona” per adattarsi all’ambiente. Questa impostazione si opponeva allo strutturalismo di Wundt e anticipava l’approccio evoluzionista e pragmatico allo studio del comportamento.

Viaggio in Europa

Come aveva già fatto suo padre, anche William a questo punto della sua vita decise di dedicarsi all’istruzione dei propri figli. Si prese dunque un anno di aspettativa da Harvard e portò la famiglia in Europa, a Firenze, dove iscrisse i figli alla scuola inglese.

A causa dei ricorrenti problemi alla salute (cardiocircolatori), James salutò il nuovo secolo con una convalescenza ad Amburgo: non riusciva a camminare che per pochi passi, sentendo molto dolore alle gambe. Era inoltre impossibilitato a concentrarsi sul suo lavoro. In questo periodo europeo fu particolarmente irritabile e depresso.

Al ritorno in America, dopo qualche mese, trovò che i suoi risparmi si erano molto assottigliati, ma soprattutto avvertiva la sensazione di non essere più un americano. “Non si dovrebbe essere cosmopoliti”, scrisse, “la propria anima si disgrega, e la propria terra sembra straniera”.

Per riprendere questa sua parte di identità si interessò fortemente di problemi politici e sociali del suo tempo. La politica, a questo punto della sua vita, lo appassionava più della psicologia, della quale peraltro sperava di “sbarazzarsi” al più presto, come scrisse ad un amico, essendo ormai più interessato a temi filosofici, etici e spirituali.

James rimase tuttavia membro a vita sia della American Philosophical Association che dell’American Psychological Association, di cui fu anche presidente, anche se nel tempo i suoi interessi si volsero verso la teologia e la filosofia.

A questo punto della vita, inoltre, non si sentiva più soddisfatto del suo lavoro, dei suoi libri, che riteneva scritti in uno stile troppo popolare, tanto che le sue idee venivano interpretate in modo distorto ed utilizzate per giustificare alcune caratteristiche di vita americane, come l’individualismo esasperato.

Religione e spiritualità

Altro tema centrale nel pensiero di James è la religione, vissuta come esperienza soggettiva. 

Importante è il libro The Will to Believe and Other Essays in Popular Philosophy (La volontà di credere e altri saggi di filosofia popolare, 1897). Durante questo decennio, che può essere correttamente descritto come il periodo religioso di William James, tutti i suoi studi riguardavano un aspetto o l’altro delle questioni religiose.

Il suo interesse naturale per la religione venne rafforzato dallo stimolo pratico di un invito a tenere le conferenze di Gifford sulla religione naturale presso l’Università di Edimburgo.

Nel 1902 pubblicò The Varieties of Religious Experience, basato su una serie di conferenze tenute a Edimburgo, in cui esplorava in modo fenomenologico le esperienze mistiche, la fede, le conversioni e le visioni religiose, trattandole con rispetto e rigore scientifico. L’opera è ancora oggi un punto di riferimento nella psicologia della religione.

William James e il Pragmatismo

Già nel 1898, in una conferenza tenuta presso l’Università della California su concezioni filosofiche e risultati pratici, formulò per la prima volta la teoria del metodo noto come Pragmatismo.  Nata dalla rigorosa analisi della logica delle scienze che era stata fatta a metà degli anni settanta da Charles Sanders Peirce, la teoria subì nelle mani di James una notevole trasformazione.

A partire dagli anni ’90 dell’Ottocento, James si dedicò alla filosofia, diventando uno dei principali esponenti del pragmatismo, accanto a Charles Sanders Peirce e John Dewey. Per James, la verità di un’idea risiedeva nei suoi effetti pratici, nella sua capacità di funzionare nella vita concreta.

Il pragmatismo di James rifiuta le verità assolute e sostiene un approccio empirico e pluralistico alla conoscenza.

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Roma

Nel 1905, insieme al fratello Henry, James fu a Roma, dove alla fine di Aprile si andò a registrare, come se fosse stato uno sconosciuto, al Quinto Congresso Internazionale di Psicologia. Quando disse il suo nome, l’addetta alle registrazioni per poco non svenne. Poi, ripresasi, spiegò al Maestro che in Italia tutti lo conoscevano e l’amavano. Fu pregato per questo di intervenire come oratore alla Conferenza, cosa che lui fece volentieri, “non sapendo resistere all’adulazione”.

Ultimi anni e morte

Negli ultimi anni, James soffrì di problemi cardiaci che limitarono la sua attività. Continuò comunque a scrivere e a viaggiare, mantenendo un dialogo vivace con filosofi e scienziati del tempo.

Nel 1906, lo psicologo era stato invitato a tenere conferenze alla Stanford University, in California, e lì visse il terremoto che quasi distrusse San Francisco. Lo stesso anno tenne le Lowell Lectures a Boston, in seguito pubblicate nel libro Pragmatismo: un nuovo nome per i vecchi modi di pensare (1907).

Comparvero poi vari articoli: “Esiste la coscienza?” “La cosa e le sue relazioni”, “L’esperienza di attività” nel Journal of Philosophy; erano saggi sul metodo empirico e pragmatico, che furono raccolti dopo la morte di James e pubblicati come Essays in Radical Empiricism (1912).

Nel 1907 James tenne il suo ultimo corso ad Harvard. Era ormai quasi un profeta: le aule erano affollate l’ultimo giorno come il primo, con persone che, non potendo entrare, restavano fuori dalla porta.  

Nel frattempo, nonostante i crescenti problemi fisici, James continuò a lavorare sul materiale che fu parzialmente pubblicato dopo la sua morte con il titolo Some Problems of Philosophy (1911). Raccolse anche i suoi pezzi occasionali nella polemica sul pragmatismo e li pubblicò come The Meaning of Truth (1909).

Sempre nel 1907 si ritirò definitivamente dall’insegnamento accademico.

Nel 1909 i problemi cardiaci si acuirono ancor di più e lo stato di stress aumentò, anche a seguito della cattiva accoglienza che ebbe il suo ultimo libro, “Un universo pluralistico”, che ricevette molte critiche negative, fra cui quella del giovane matematico Bertrand Russel.

Lo psicologo, ormai sessantasettenne, approfondiva in questo libro il senso del divino, arrivando alla conclusione della finitezza di Dio: un Dio non più onnipotente, ma avente funzioni, spazi e tempi simili a quelli umani.

Durante le conferenze di Worcester, presso la Clark University, nel 1909, Freud era chiaramente l’attrazione principale della conferenza, e fu proprio per conoscere lo psicoanalista austriaco che James,, 14 anni più vecchio di Freud e con problemi di salute, fece il breve viaggio a Worcester da Boston.

Secondo tutti i resoconti, sia Freud sia James erano molto desiderosi di incontrarsi. I due uomini fecero una passeggiata da soli in una stazione ferroviaria, dove accadde una scena drammatica: James, che soffriva di problemi cardiaci, temette di avere un attacco di angina pectoris e chiese a Freud di andare avanti da solo in modo da potersi riprendere. Così finì la loro profonda conversazione.

L’8 Luglio 1909  James lasciò interdetta la comunità scientifica, quando annunciò di aver comunicato con lo spirito di Richard Hodgson, una comunicazione che James trascrisse in circa cento pagine.

Nel 1910 fu ancora in Europa, da Marzo ad Agosto, per cercare di riprendersi dai problemi di salute, presso le terme di Nauheim. Tornato nella sua casa di campagna, a Chocoura, New Hampshire, il 26 Agosto morì fra le braccia di sua moglie, a 68 anni. L’autopsia rivelò la causa della morte: ingrandimento cardiaco acuto.

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Importanza e significato della sua opera

William James non fu solo il padre della psicologia americana, ma anche il padre di una corrente filosofica molto seguita: il pragmatismo, anche se gli aspetti più popolari e conosciuti di questa corrente sono cosa ben diversa dalla concettualizzazione originaria di James.

Per il filosofo infatti, il pragmatismo non era tanto una filosofia, ma un metodo, per arrivare al significato e alla verità delle idee. Egli riprese le idee espresse da Charles Sanders Peirce nel 1878, in un articolo intitolato “How to Make Our Ideas Clear”. James  si concentrò in particolare sulla teoria “pragmatistica” della verità, contrapposta alla “volontà di credere”.

Mentre la prima riguarda il campo del verificabile, la seconda riguarda le esperienze che trascendono questo campo. Quando un uomo si chiede ad esempio “Vale la pena di vivere?”, oppure: “C’è un significato ultimo nell’universo?” per William James egli ha diritto di scegliere liberamente la sua fede, secondo le esigenze personali più intime. Questo diritto si fonda sull’impossibilità di evitare la scelta e sul principio che la fede può creare la propria verifica (The will to believe, 1897).

Su questa base James elaborò la l’ipotesi etico-religiosa del migliorismo, fondata sull’affermazione che nell’universo esiste del bene e che esso può essere sistematicamente sviluppato sino alla realizzazione del Bene Supremo, se ciascuna delle parti di cui l’universo è composto lavorerà ad essa.

Questa ipotesi implica il pluralismo (assunzione di una pluralità di centri d’azione) e l’indeterminismo (Dio è solo uno di questi centri d’azione ed è capace di stimolare e mettere in moto le più profonde esigenze morali dell’uomo, ma ha bisogno dell’aiuto umano nel suo sforzo di realizzare la tendenza ideale delle cose, che pure rappresenta).

Secondo il pragmatismo, la verità di un’idea non può essere provata; meglio concentrarsi su quello che James chiamò “cash value,” ovvero l’utilità, in termini pratici, di una idea. Un’idea è valida se ha relazione con la realtà, se porta benefici tangibili, se è funzionale alla propria vita.

Cosa ci rimane di lui

William James ha lasciato un’impronta indelebile in molte discipline:

  • In psicologia, ha contribuito a definire i concetti di sé, coscienza, attenzione e abitudine.
  • In filosofia, ha fondato il pragmatismo e difeso una visione pluralista e aperta della realtà.
  • In campo religioso, ha valorizzato l’esperienza interiore come fonte legittima di conoscenza.

Il suo pensiero rimane centrale ancora oggi per chi si occupa di psicologia umanistica, filosofia della mente, pedagogia e scienze religiose.

Principali opere

  • The Principles of Psychology (1890)
  • Psychology: Briefer Course (1892)
  • The Will to Believe and Other Essays in Popular Philosophy (1897)
  • The Varieties of Religious Experience (1902)
  • Pragmatism (1907)
  • The Meaning of Truth (1909)
  • Some Problems of Philosophy (1911, postumo)

Dr. Giuliana Proietti

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Dove sono finiti gli uomini “veri”? Riflessioni sulla mascolinità 

Dove sono finiti gli uomini “veri”? Riflessioni sulla mascolinità 

Dove sono finiti gli uomini “veri”? Riflessioni sulla mascolinità 

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Un tempo, l’immagine dell’uomo era legata a valori come responsabilità, protezione, cavalleria, capacità di affrontare le sfide con assertività. L’uomo “macho” era colui che si prendeva cura della propria famiglia, lavorava sodo e corteggiava le donne. Oggi, molte donne lamentano la scomparsa di questa figura: l’uomo virile sembra essere diventato una rarità, sostituito da un modello più insicuro e confuso. In compenso i femminicidi crescono a un tasso spaventoso.

È colpa della Generazione Z?

Secondo alcune osservazioni, molti uomini della Generazione Z sembrano disorientati rispetto al proprio ruolo nelle relazioni e nella società. Sono descritti come “ragazzi molli”, spesso insicuri, che faticano a impegnarsi in relazioni serie e che talvolta sembrano più alla ricerca di una figura materna che di una compagna. Tuttavia, ridurre il fenomeno a un problema generazionale può essere semplicistico, dal momento che gli uomini non sono sempre stati “virili” nel senso classico del termine.

Una intervista sull'anorgasmia femminile

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Si pensi, ad esempio, agli etruschi: sembra che gli etruschi fossero uomini particolarmente attenti alla loro immagine, amanti del lusso e della bella vita, tanto da dedicare buona parte del loro tempo alla scelta dei tessuti, delle acconciature alla moda, dei gioielli preziosi e così via e che il loro rapporto con le donne fosse assolutamente paritario. I contemporanei li ritenevano uomini poco virili, soprattutto perché vivevano in una società molto paritaria, in cui anche le donne avevano il loro spazio, potevano uscire liberamente, mantenere il loro cognome anche da sposate, intraprendere attività commerciali.

Lo storico romano Tito Livio racconta, ad esempio, che la donna etrusca “esce spesso per essere esposta agli sguardi degli uomini senza arrossire”;  Aristotele afferma che “gli Etruschi banchettano con le loro mogli, sdraiati sotto la stessa coperta”, cosa che ai romani e ai greci sembrava scandalosa, poiché ai loro banchetti venivano ammesse solo le prostitute: le mogli dovevano stare presso il focolare. Gli Etruschi non beneficiavano dunque dei privilegi maschili che tradizionalmente erano conferiti, presso altri popoli, dall’ordine patriarcale. Questo li ha fatti considerare dai loro contemporanei, e non solo, degli uomini “molli”, con usanze e comportamenti non tipicamente mascolini. Dunque, la non virilità non è un comportamento esclusivamente moderno.

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Quali sono le caratteristiche dell’uomo moderno?

Secondo una ricerca di Mantorshift Research, il nuovo modello maschile si fonda su cinque qualità: empatia, inclusività, autenticità, consapevolezza di sé e intelligenza emotiva. Qualità che, sulla carta, appaiono desiderabili e che indicano un’evoluzione positiva. Tuttavia, nella realtà, molte donne riportano esperienze con partner che mancano di maturità emotiva, responsabilità e rispetto reciproco.

Gli stereotipi sugli uomini nei rapporti sentimentali sono reali?

Molte donne raccontano di uomini che reagiscono male ai rifiuti, che si aspettano relazioni sbilanciate, o che credono di “meritare” affetto e ammirazione solo in virtù di beni materiali o status. La delusione nasce dal fatto che queste aspettative non sono accompagnate da impegno reale nella relazione, né da una visione paritaria del rapporto di coppia.


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Perché molte donne scelgono la solitudine?

Sempre più donne preferiscono restare single piuttosto che affrontare relazioni insoddisfacenti. Desiderano un partner che le tratti come pari, ma incontrano spesso uomini che non sono disposti a condividere compiti, responsabilità o prospettive di crescita. In molti casi, viene riportata una mancanza di rispetto, empatia e collaborazione.

Quali sono le conseguenze per gli uomini?

Alcuni uomini sembrano non rendersi conto del proprio disagio. Ironizzano sul fatto che le donne preferiscano restare single ma dietro a questi atteggiamenti apparentemente spiritosi si celano solitudine, frustrazione e difficoltà a costruire relazioni significative. 

È stato il femminismo a “uccidere” la mascolinità?

No. Il femminismo ha semplicemente promosso il rispetto e l’uguaglianza tra i generi. Non ha indebolito la mascolinità, ma ha messo in discussione modelli di potere obsoleti. È la società, con le sue dinamiche economiche e culturali, ad aver contribuito alla crisi dei ruoli. Grazie al femminismo, comunque, molti uomini non si vergognano più (come accadeva una volta), di piangere, di curarsi direttamente dei figli, di cucinare, di curare la propria estetica, ecc.

Fra loro, molti sono addirittura diventati piuttosto critici verso i classici valori maschili (portatori di guerra, competizione e dominio) ed hanno imparato a dominare l’aggressività, a rinunciare all’ambizione e alla carriera come valori assoluti, a mettere tra le loro priorità la partner e la famiglia, a partecipare al bene della comunità, e perfino a battersi per l’emancipazione della donna. Tra essi troviamo i militanti dei diritti umani, i pacifisti, gli ecologisti: uomini che hanno deciso di essere migliori, rinunciando ai tradizionali ruoli e comportamenti virili.

Come sono i giovani oggi?

Sicuramente appaiono meno virili rispetto agli uomini dei tempi passati, anche se per loro non si è trattato di una scelta consapevole: ciò dipende probabilmente dal fatto che le abilità tecniche manuali che hanno fatto la differenza fra i due generi nei tempi passati sono state ormai messe da parte, in favore di una società tecnologica che è sicuramente destinata ad implementarsi nei tempi futuri, e che ha più bisogno di conoscenza che di forza fisica. Oggi qualsiasi lavoro richiede basi di tecnologia, capacità di lavorare in team o in situazioni di stress, saper affrontare situazioni complesse, ecc, piuttosto che la forza muscolare o le abilità manuali. 

Ai giovani mancano modelli maschili positivi?

Molti ritengono di sì. I vecchi riferimenti – il padre presente, l’eroe onesto, il lavoratore instancabile – sono stati sostituiti da figure ambigue o superficiali: influencer, celebrità disimpegnate, politici autoreferenziali.

Qual è il rischio per la società?  

Relazione La sessualità femminile fra sapere e potere

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Convegno Diventare Donne
18 Marzo 2023, Castelferretti Ancona
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Il risultato è una generazione di uomini che fatica a costruire un’identità maschile sana, basata su rispetto, collaborazione e responsabilità. Speriamo che gli uomini del futuro sappiano riformulare una mascolinità più consona al nuovo linguaggio dei sessi, individuando nuovi codici per relazionarsi con le donne in modo paritario. Non è detto che tutto questo possa realizzarsi solamente in una società del futuro: forse basterebbe semplicemente prendere ispirazione dai “molli” etruschi.

Dr. Giuliana Proietti

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Geronimo, capo spirituale Apache

Geronimo, capo spirituale Apache

Geronimo, capo spirituale Apache


Geronimo è una delle figure più iconiche della resistenza dei popoli nativi americani contro l’espansione degli Stati Uniti nel XIX secolo. Conosciuto come capo spirituale degli Apache, non fu mai formalmente un capo militare nel senso stretto, ma fu guida carismatica, guerriero temuto e sciamano rispettato. Il suo vero nome era Goyaałé (che significa “Colui che sbadiglia”).

Quando e dove nacque Geronimo?

Geronimo nacque nel 1829 nei pressi del fiume Gila, nell’attuale stato dell’Arizona, allora territorio messicano. Apparteneva alla tribù dei Bedonkohe, uno dei gruppi del popolo Apache.

Chi erano gli Apache?

Erano un popolo nomade che viveva di caccia e di raccolta di frutti selvatici nei vasti territori semidesertici fra l’odierno confine del Messico con gli Stati Uniti d’America. Questa popolazione indigena si definiva “IN-DE” ovvero “antico popolo” ma i primi conquistatori spagnoli li chiamarono “Apaches”, come facevano alcune popolazioni che vivevano in territori confinanti: nella loro lingua, Apache significava “nemico”. Gli spagnoli prima ed i messicani poi non si limitarono ad occupare le terre degli Apaches, ma vi costruirono missioni e fortini, per difendersi dagli attacchi e convertire gli indigeni al cristianesimo. Nel Nuovo Mondo gli spagnoli avevano introdotto i cavalli e le armi da fuoco; in un primo momento questo li fece vincere sugli indigeni, che venivano catturati e fatti schiavi, ma gli Apaches, un popolo guerriero, impararono presto anch’essi a cavalcare e ad utilizzare i fucili, per potersi difendere. Dopo gli spagnoli arrivarono i messicani e furono proprio loro a sterminare la famiglia di Geronimo, facendo nascere in lui un indomabile odio verso l’uomo bianco.

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Perché è famoso Geronimo?

Geronimo era un uomo piuttosto basso, con un viso triangolare, una folta capigliatura nera divisa in due da una scriminatura centrale, occhi brillanti e penetranti, sopracciglia costantemente aggrottate, naso piatto, zigomi sporgenti, bocca sottile. Era rimasto orfano molto giovane e presto era entrato a far parte del consiglio dei guerrieri della sua tribù e si era sposato con Alopé. Aveva poi vissuto tranquillamente nel suo villaggio con la moglie e i tre figli. Divenne famoso per aver guidato, tra il 1850 e il 1886, numerose rivolte e campagne di guerriglia contro gli eserciti messicani e statunitensi, in difesa delle terre ancestrali apache. La sua resistenza prolungata, il coraggio in battaglia e la capacità di sfuggire più volte alla cattura lo resero leggendario.

Cosa accadde alla sua famiglia?

Un evento chiave nella vita di Geronimo fu l’attacco di soldati messicani nel 1851. Lui si era recato al mercato per scambiare i prodotti della caccia con armi e oggetti di prima necessità e quando era tornato, aveva trovato il villaggio indiano devastato dal passaggio di truppe messicane: Alopé e i tre bambini, la sua famiglia, erano stati sgozzati e le ragioni del massacro erano davvero incomprensibili, poiché gli Apaches vivevano tranquilli da molto tempo. Questo trauma profondo cambiò il corso della sua vita, e lui stesso raccontò di aver ricevuto una visione spirituale che lo rese invulnerabile alle pallottole nemiche. Da quel momento, intensificò la sua lotta come vendetta e difesa del suo popolo.

Dr. Walter La Gatta

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Geronimo era un capo militare o un leader spirituale?

Tecnicamente, Geronimo non era un “capo” riconosciuto nel senso formale come lo erano altri leader Apache, ma era uno sciamano e una guida spirituale. Aveva profonde conoscenze della religione, delle piante medicinali e dei riti tradizionali. La sua influenza derivava più dal carisma e dall’autorità spirituale che da una carica politica o militare. Tuttavia, in tempi di guerra, il suo prestigio lo portava a guidare piccoli gruppi di guerrieri, spesso in campagne di guerriglia contro le forze militari superiori.

Quando Geronimo vinceva una battaglia non occupava il territorio conquistato, si limitava a saccheggiarlo, per procurarsi cibo. Proibiva inoltre ai suoi uomini l’uso dell’alcool, di cui facevano provvista in qualche razzia contro i bianchi. Per sette volte Geronimo venne ferito seriamente, ma quando aveva la vittoria in pugno nessun soldato riusciva a sfuggire alla sua ascia. Gli Apaches, insieme alle tribù dei Sioux, dei Cheyenne, degli Arapaho, opposero una fiera resistenza anche all’esercito statunitense, che dopo gli spagnoli ed i messicani, arrivò nelle loro terre, per colonizzarle.

Nel 1874 circa 4000 Apaches furono obbligati dalle autorità statunitensi a stabilirsi nella riserva di San Carlos, un luogo semidesertico nell’Arizona del centro-est. Questo forzato trasferimento venne chiamato ‘cammino delle lacrime’ perché durante il tragitto, di oltre duecento chilometri a piedi, morirono di stenti vecchi, donne e bambini. Gli indiani furono confinati nelle Riserve di San Carlos, White Mountain, Fort Apache. In questa riserva gli Apaches furono costretti ad americanizzarsi, dimenticando la guerra e la caccia, vivendo di agricoltura. Cominciò anche l’oppressione di questo popolo anche per quanto riguardava l’osservanza delle loro leggi, tradizioni e religioni.

 

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Come finì la resistenza di Geronimo?

Dopo anni di conflitti e fughe spettacolari, Geronimo si arrese per l’ultima volta nel 1886 al generale statunitense Nelson Miles, nei pressi di Skeleton Canyon, in Arizona. Geronimo dovette accettare per se stesso e per i suoi uomini la deportazione a St. Auguste, Florida, con la promessa dei generali dell’esercito americano di poter fare ritorno nelle loro terre dell’Arizona dopo breve tempo. Furono invece messi ai lavori forzati, poi trasferiti in Alabama ed infine in Oklahoma, da cui uscirono liberi solamente nel 1913.

Che tipo di vita condusse dopo la resa?

Anche da prigioniero, Geronimo divenne una figura popolare, un personaggio epico, anche grazie ai racconti che si facevano delle sue battaglie, spesso esagerati dai cronisti dell’epoca. Gli ultimi anni di Geronimo non sono quelli di un Capo guerriero, ma quelli di un prigioniero che cerca di sopravvivere adattandosi agli usi ed ai costumi dei suoi carcerieri. Si convertì infatti alla Chiesa protestante olandese, dalla quale fu poi espulso perché non riusciva a trattenersi dal gioco d’azzardo. Partecipò a fiere e mostre, tra cui la tournée con lo show di Pawnee Bill, nel 1901, l’Esposizione Universale di St. Louis del 1904, la grande parata organizzata per l’ingresso alla Casa Bianca del presidente Theodore Roosevelt. Geronimo conobbe infatti anche il presidente Roosevelt,  al quale chiese invano di poter tornare nella sua terra natale. Gli ultimi anni della sua vita, grazie ad uno speciale permesso governativo, vendeva le sue foto, per 2$ l’una, ed alcuni lavori artigianali. 


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Quando e come morì Geronimo?

Geronimo morì il 17 febbraio 1909 a Fort Sill, Oklahoma, a circa 80 anni, dopo una caduta da cavallo che gli causò una polmonite. Secondo alcuni resoconti, sul letto di morte si disse pentito di essersi arreso. Chiese anche ai suoi familiari di legare ad un palo vicino alla sua tomba il suo cavallo e tutte le sue cose, perché tre giorni dopo la morte sarebbe tornato a riprenderle. Lo aspettarono invano e per questo c’è ancora chi aspetta il suo ritorno. Morì da prigioniero, senza aver mai potuto rivedere la sua terra. Una piccola località del Nuovo Messico porta oggi il suo nome.

Perché viene ricordato?

Geronimo è diventato simbolo della resistenza indigena e della lotta per la libertà. Per il popolo apache, è una figura spirituale e storica, ma anche controversa: rispettato per il coraggio e criticato per alcune decisioni che portarono sofferenze al suo stesso popolo. Per l’opinione pubblica americana, è spesso stato romanticizzato come ribelle eroico. Il suo nome è oggi usato come grido di battaglia (soprattutto tra i paracadutisti statunitensi), ma molti attivisti indigeni ricordano che dietro quel nome c’è, soprattutto, la tragedia di un popolo.

Walter La Gatta

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Giacomo Leopardi e la strana amicizia con Antonio Ranieri

Giacomo Leopardi e la strana amicizia con Antonio Ranieri

Giacomo Leopardi e la strana amicizia con Antonio Ranieri


Giacomo Leopardi (1798–1837) è una delle figure più importanti della letteratura italiana dell’Ottocento, noto per la profondità del suo pensiero, il pessimismo filosofico e la raffinatezza della sua poesia. Tra i rapporti umani più significativi della sua vita, spicca l’amicizia con Antonio Ranieri (1806–1888), scrittore e patriota napoletano, che fu al suo fianco negli ultimi anni, contribuendo non solo alla sua quotidianità ma anche alla conservazione della sua memoria.

Quale è stata l’alchimia che ha legato per tanti anni questi personaggi, così distanti fra loro? Cosa avevano in comune i protagonisti di questa strana coppia, Ranieri e Leopardi? Cosa li spingeva a giurarsi reciprocamente un grande affetto, la promessa di vivere per sempre insieme, senza lasciarsi mai? Cerchiamo di fare luce su questo argomento, ancora piuttosto misterioso.

Infanzia e giovinezza di Giacomo

Giacomo Leopardi nacque a Recanati il 29 giugno 1798, in una famiglia nobile, ma decaduta economicamente. Il padre, Monaldo, era un conservatore legato alla tradizione cattolica e monarchica. La madre, Adelaide Antici, era una donna di nobile famiglia, con un carattere algido e anaffettivo. Giacomo trascorse l’infanzia e l’adolescenza immerso nello studio: la vasta biblioteca paterna fu il luogo in cui formò il proprio sapere enciclopedico, ma anche dove si ammalò a causa di uno studio eccessivo che contribuì al suo progressivo indebolimento fisico e visivo.

L’incontro con Antonio Ranieri

Giacomo Leopardi conobbe Antonio Ranieri nel 1830 a Firenze, in un periodo in cui si era ormai trasferito definitivamente lontano da Recanati. Ranieri era un giovane intellettuale napoletano, dotato di spirito liberale e anticlericale, che aveva viaggiato molto in Europa e frequentava gli ambienti culturali e politici progressisti.

L’amicizia tra i due si sviluppò rapidamente, fondata su una forte affinità intellettuale e su un bisogno reciproco di compagnia. Nel 1833, Leopardi e Ranieri si trasferirono insieme a Napoli, dove vissero nella stessa abitazione per circa quattro anni. Ranieri offrì a Leopardi una sistemazione stabile e lo sostenne nella quotidianità, anche economica, in un contesto in cui il poeta era spesso in condizioni di salute precarie.

Un legame controverso ma profondo

Il legame tra Leopardi e Ranieri ha suscitato nel tempo numerose interpretazioni e speculazioni. Alcuni studiosi, soprattutto nel Novecento, hanno ipotizzato una possibile componente affettiva o sentimentale oltre l’amicizia, ma mancano prove concrete per sostenere questa tesi in senso univoco. Ranieri stesso, nel suo libro Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi (1880), tentò di presentare la relazione in chiave del tutto fraterna e devota, probabilmente anche per conformarsi alla morale dell’epoca.

Nonostante qualche divergenza e malinteso – come la presunta negligenza di Ranieri nel dare adeguata sepoltura al poeta – è certo che Ranieri fu l’ultimo grande compagno di vita di Leopardi, e che condivisero un’intimità quotidiana significativa.

Gli ultimi anni e la morte

Durante la permanenza a Napoli, Leopardi visse una delle fasi più produttive della sua carriera. Scrisse numerosi componimenti, tra cui La ginestra o il fiore del deserto, considerata una delle sue poesie più importanti. Morì il 14 giugno 1837, probabilmente a causa di uno scompenso cardiaco aggravato dalla sua fragile salute. 

Ranieri fu presente al momento della morte e ne organizzò il funerale, seppur con difficoltà, dovute alle restrizioni sanitarie per il colera e alla difficoltà di ottenere il permesso per la sepoltura. Solo molti anni dopo, nel 1939, le sue spoglie furono traslate al Parco Virgiliano di Napoli, nel sepolcro monumentale oggi noto come “Tomba di Leopardi”. (Della morte di Leopardi riparleremo più avanti).

Il libro: “Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi”

Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi” (1830-1837) è un libretto che Antonio Ranieri scrisse a 74 anni, nel 1880, prossimo senatore del neonato Regno d’Italia, otto anni prima di morire, quarantuno anni dopo la morte dell’amico. Il libro non piacque ai cultori del poeta di Recanati.

Leggiamo ad esempio nell’enciclopedia Treccani che i meriti che Ranieri ebbe nei confronti di Leopardi sono stati “offuscati” da questo libro in cui Ranieri “volle apparire piuttosto il mecenate che, come invece era in effetti, il compagno di vita di Leopardi: né mancano recriminazioni ingiuste e meschine”.

Sin dalle prime pagine Ranieri chiarisce di aver scritto questo libro per il bisogno che sentiva di evitare “notabili inesattezze” e raccontare alcune verità sulla sua amicizia con Leopardi (ma “non tutte”, spiegando che ben altre cose di sua conoscenza non verranno mai rivelate, al di là delle insinuazioni che si possano fare al riguardo).

Nel libro viene raccontato l’inizio del sodalizio: siamo a Firenze e un Leopardi depresso e piangente confida all’amico, alla luce di una fioca lampada, che il suo timore più grande è quello di dover tornare nell’odiata Recanati, il che per lui è molto simile alla morte.


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Colpito dalle parole dell’amico, Ranieri risponde: “Leopardi, tu non andrai a Recanati!” . Quel che può bastare per mantenere una persona, pensò l’esule napoletano, basterà per mantenere entrambi: sulla base di queste riflessioni promise all’amico Giacomo che non si sarebbe mai più allontanato da lui, decisione mai rinnegata ma che fu causa per lui e in seguito anche per la sorella Paolina, di “immedicabili e incomprensibili dolori”.

Il sodalizio con Leopardi portò il Ranieri a vivere, come lui dice, una “vita nuova”, fatta di nottate all’amico sofferente, consultazioni con i medici, spostamenti di casa in casa e di città in città, allo scopo di creare le migliori condizioni per l’amico malato, in modo che potesse ritrovare un minimo di salute e benessere.

Malgrado tutti questi sforzi, dice il Ranieri, il malato, “come era sua natura, cominciava a presumere un po’ troppo del fatto suo”. In conseguenza di ciò, si legge ancora nel libro, avvenne che;

“egli si spingesse a vani e inavvertiti soliloquii d’amore che, non senza mio grande rammarico, oltrepassavano di gran lunga i confini imposti alla dignità di un tanto uomo. Per congiunture, ch’è assai bello il tacere, io me ne trovavo spesso, e con grande mia angoscia, tra i più scabrosi anfratti”.

In un altro passaggio, Ranieri racconta un episodio, che evidentemente riteneva significativo: un giorno aveva chiesto ad un parrucchiere che gestiva un salone in Via Condotti di recarsi presso il suo domicilio, allo scopo di tagliargli i capelli.

In salotto, mentre svolgeva il suo lavoro, il parrucchiere si fece ciarliero e cominciò a porre al suo cliente molte domande maliziose sulla relazione che il cliente aveva con Giacomo Leopardi. Precisamente domandò: “Com’è ch’ella ha con sé il figliuolo del conte Monaldo”?

Ranieri rimase stupito della domanda tanto diretta quanto inopportuna e, dopo un attimo di imbarazzo, risposte che erano semplicemente amici e che avevano preso un appartamento (“un quartiere”) insieme: nulla più.

Per giustificare la sua curiosità, il parrucchiere raccontò, ma con un tono di voce troppo alto perché Giacomo non potesse sentire, che conosceva assai bene le cose di Recanati, gli umori del padre e del figliolo e “l’odio implacabile di costui al clima e agli abitatori di quel paese”… Aggiungendo anche altri particolari che, dice Ranieri : “o io conosceva assai meglio di lui o non mi importava né punto, né poco di conoscere”.

Dopo la “tosatura”, come la definisce Antonio Ranieri, una volta rimasti soli, Giacomo fece capolino nella stanza e ricordò all’amico ciò che aveva scritto ne Le Ricordanze: lui diventava un forsennato al solo pensiero di essere sulle bocche di quelle persone di Recanati…

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Ma perché a Recanati si parlava tanto di lui? Certo, era una persona in vista, il figlio dei conti Leopardi, ma quali erano i particolari maliziosi che nel natio borgo selvaggio le persone si scambiavano su Giacomo, generando in lui una tale insofferenza?

Leopardi, dopo l’episodio del parrucchiere e i pettegolezzi dei recanatesi che gli erano stati riferiti, disse all’amico e convivente:

inventai, invento ed inventerò tutte le favole, tutti i romanzi di questa terra, per salvarmi da questa orribile sciagura!”

Ranieri continua il racconto del sodalizio specificando che lui non avrebbe mai consentito che Giacomo si fosse preso la libertà di scrivere di lui le cose che aveva scritto nelle sue lettere (e che altri gli avevano riferito, perché lui a leggerle direttamente ci aveva provato tre volte, e per tre volte era stato “preso da febbre”, per cui aveva giurato a se stesso – e fatto giurare alla sorella Paolina – che mai più i loro occhi “si farebbero violare”, né i loro cuori “cincischiare” da “letture si fatte”).

Ed eccole, probabilmente, le lettere di Leopardi cui Ranieri faceva riferimento:

Ranieri mio, tu non mi abbandonerai però mai, né ti raffredderai nell’amarmi. Io non voglio che tu ti sacrifichi per me, anzi desidero ardentemente che tu provvegga prima d’ogni cosa al tuo ben essere: ma qualunque partito tu pigli, tu disporrai le cose in modo, che noi viviamo l’uno per l’altro, o almeno io per te; sola ed ultima mia speranza. Addio, anima mia. Ti stringo al mio cuore, che in ogni evento possibile e non possibile, sarà eternamente tuo (11-12-1932)

Povero Ranieri mio! Se gli uomini ti deridono per mia cagione, mi consola almeno che certamente deridono per tua cagione anche me, che sempre a tuo riguardo mi sono mostrato e mostrerò più che bambino. Il mondo ride sempre di quelle cose che, se non ridesse, sarebbe costretto ad ammirare; e biasima sempre, come la volpe, quelle che invidia. Oh Ranieri mio! Quando ti ricupererò? Finché non avrò ottenuto questo immenso bene, starò tremando che la cosa non possa esser vera. Addio, anima mia, con tutte le forze del mio spirito. Addio infinite volte. Non ti stancare di amarmi” (05-01-1833)

Ranieri mio, non hai bisogno ch’io ti dica che dovunque e in qualunque modo tu vorrai, io sarò teco [con te]. Considera bene e freddamente le tue proprie convenienze (…) e poi risolviti. La mia risoluzione è presa già da gran tempo: quella di non dividermi mai più da te. Addio” (05-02-1933)

Ranieri mio. Ti troverà questa <lettera> ancora a Napoli? Ti avviso ch’io non posso più vivere senza te, che mi ha preso un’impazienza morbosa di rivederti, e che mi par certo che se tu tardi anche un poco, io morrò di malinconia prima di averti avuto. Addio addio” (02-04-1833)

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Dr. Giuliana Proietti - Dr. Walter La Gatta

Nel 1833, quando la coppia di amici arrivò a Napoli, prese una stanza in affitto, suscitando scandalo. Come racconta Ranieri:

io, lasciatone il mio antico letto, dormiva in una camera non mia (cosa che nelle consuetudini del paese, massime in quei tempi, toccava quasi lo scandalo), per dormire accanto a lui”.

Anche la padrona di casa aveva dei sospetti, sia sullo stato di salute di Leopardi, sia sulla relazione fra i due, dal momento che non era usuale che due uomini dormissero insieme, per cui desiderava essere “sciolta dall’affitto”.

Leopardi, racconta ancora Ranieri, era “gelosissimo de’ suoi segreti”, e sia lui, sia sua sorella Paolina, che in un secondo tempo andò a vivere con loro, si astennero sempre dal chiedere di più.

C’erano ad esempio delle visite che riceveva Leopardi e su cui il suo coinquilino dice e non dice: “quando qualche innominato sopravveniva” lui si limitava ad uscire dalla stanza.

Ma perché? Chi erano questi “innominati” che Giacomo frequentava e perché Ranieri per discrezione lasciava la stanza? 

In conclusione, qualche piccolo dubbio sull’orientamento sessuale del poeta di Recanati sicuramente c’è e se ne è già parlato in alcuni libri su Leopardi così come in alcuni siti disponibili in rete ma è difficile sapere le cose con certezza, e questo rimarrà un mistero.

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Il mistero della morte e della sepoltura

I misteri relativi a Leopardi e a questa strana amicizia con Ranieri però non finiscono qui: c’è ancora da parlare del mistero e della sepoltura del poeta recanatese.

Il 14 giugno 1837 Giacomo Leopardi fu colto da un malore improvviso mentre stava per partire in carrozza per Villa Carafa. Non arrivò mai a destinazione. Secondo Ranieri, quel giorno il poeta aveva consumato un pasto abbondante: confetti, minestra calda e una granita. Da qui l’ipotesi che il malore fosse dovuto a una congestione, aggravata dai suoi cronici problemi respiratori e cardiaci.

Ranieri descrisse Leopardi morente tra le sue braccia, sorridente, con le ultime parole: “Addio, Totonno, non veggo più luce.” 

Alcuni studiosi ritengono che Leopardi non sia morto a Napoli ma a Castellammare di Stabia, durante le cure termali. Ranieri lo avrebbe riportato a Napoli per evitare una sepoltura anonima dovuta all’epidemia di colera e, dopo uno scontro col medico, avrebbe ottenuto un certificato di morte per idropisia, il che gli avrebbe permesso di non essere sepolto in una fossa comune, ma in una tomba a lui dedicata.

Il mistero più fitto resta però quello della sepoltura. Ranieri organizzò un funerale lo seppellì in una tomba nell’atrio della chiesa di San Vitale, sulla via di Pozzuoli presso Fuorigrotta. Venne apposta una targa scritta da Pietro Giordani:

Al conte Giacomo Leopardi recanatese filologo ammirato fuori d’Italia scrittore di filosofia e di poesie altissimo da paragonare solamente coi greci che finì di XXXIX anni la vita per continue malattie miserissima fece Antonio Ranieri per sette anni fino all’estrema ora congiunto all’amico adorato.

Nel 1939 la sua tomba fu spostata al Parco Vergiliano a Piedigrotta nel quartiere Mergellina e fu dichiarata monumento nazionale.

Si sapeva già, da una ricognizione ufficiale del 1900, che nella bara vi erano solo pochi resti e mancava il teschio. Si parlò di una sepoltura fittizia e di un corpo sepolto altrove, forse nella fossa comune delle Fontanelle.

Il mistero della sepoltura di Giacomo Leopardi è ancora irrisolto: nessuno sa dove si trovino le sue ossa.

L’eredità di Giacomo Leopardi

I dissapori per l’eredità tra la famiglia Leopardi e Antonio Ranieri si protrassero sino alla morte di quest’ultimo. Giacomo infatti, colto da morte improvvisa, non lasciò alcun testamento e Ranieri si appropriò di molti suoi scritti, tra cui lo Zibaldone, che poi vendette al migliore offerente.

Si è ipotizzato che le descrizioni sprezzanti di Giacomo che si trovano nel Sodalizio di Ranieri siano state scritte dall’autore per rancori legati alla contesa dell’eredità dell’opera di Giacomo con la famiglia Leopardi.

Dr. Giuliana Proietti

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Immagine:
L. Lolli, 1826, Wikimedia

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