Vincent Van Gogh: arte e follia

Van Gogh

Vincent Van Gogh: arte e follia

Ultimo aggiornamento: Giu 2, 2020 @ 20:59


Vincent Willem van Gogh
nacque a Zundert il 30 marzo 1853, primogenito di Theodorus, pastore protestante, e di Anna Cornelia Carbentus. Suo fratello Theo nacque quattro anni dopo. La famiglia divenne presto numerosa, cosicché Vincent, compiuti gli studi fondamentali, dovette mettersi a lavorare.

Nel 1869 fu assunto come apprendista dalla ditta Groupil, in cui era socio un suo zio che operava sul mercato artistico internazionale. I primi tre anni, fino al 1872, lavorò all’Aia, poi fu trasferito a Londra dove rimase fino al maggio 1875 per essere trasferito di nuovo, e questa volta contro la sua volontà, a Parigi.

In questi anni ebbe modo di mostrare un interesse per la pittura, non altrettanto per il suo commercio. Fu questa sua avversione per il mercato dell’arte che lo portò ad abbandonare tutto e a ritornare a casa dai genitori nel 1876.

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A 23 anni Vincent non sa ancora quello che vuole, si dedica completamente allo studio della Bibbia per cercare forse delle risposte alle sue latenti inquietudini e alla sua ansia di rendersi utile.

Lavorò dapprima a Ramsgate come insegnante in un collegio, poi si trasferì a Isleworth, nella periferia di Londra, dove gli fu permesso anche di predicare. Poi nello stesso anno, 1876, ritornò in Olanda dove trovò un breve impiego come libraio a Dordrecht, quindi si recò all’Aia per continuare gli studi teologici, che interruppe allorché venne chiamato come predicatore evangelista nella regione belga del Borinage. Qui vive gli stenti e le privazioni dei minatori, fino a dividere con loro ogni suo avere. Fu questa esperienza a segnare il destino di quello che diventerà uno dei più grandi artisti al mondo.

Infatti qui ebbe il suo primo esaurimento, che forse non lo abbandonò più, ma nel contempo gli nacque l’idea di dedicarsi all’arte del disegno e della pittura prendendo spunto proprio dai minatori e dal loro ambiente di vita, come se in qualche modo, attraverso la sua opera, potesse testimoniare una condizione di vita infame.

Cominciò la carriera artistica come disegnatore e non come pittore per una scelta precisa e voluta perché sapeva che doveva procedere per gradi esercitandosi prima con la matita, il gessetto nero, il carboncino, l’inchiostro con l’intenzione di scoprirne le segrete azioni specifiche e tutte le loro caratteristiche.

Lasciato il Borinage, dove aveva riempito i suoi taccuini di disegni, Vincent andò a Bruxelles per studiare l’anatomia e la prospettiva, poi, assillato sempre più dalle difficoltà economiche, ritornò a casa dei suoi. Dopo l’ennesima violenta lite con i genitori, nel 1881 li lasciò e se ne andò a l’Aia dal cugino Mauve che si offerse anche per delle lezioni di disegno. Qui divise la sua esistenza con la prostituta Christine, che accolse per curarla e aiutarla e che poi divenne la sua modella e compagna per un po’ di tempo.


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La mancanza di soldi costituiva un vero “tormento” per il giovane che se ne ritornò dai suoi con i quali aveva migliorato i rapporti. Nel 1885 morì improvvisamente il padre e allora Vincent se ne andò prima ad Anversa dove si dedicò all’approfondimento dell’arte giapponese e poi nel 1886 a Parigi chiamato dal fratello Theo, con il quale era rimasto sempre in contatto, che dirigeva una galleria d’arte a Montmartre e che gli parlò di nuovi artisti, gli “Impressionisti”, che lo avevano colpito favorevolmente.

Aveva nel frattempo terminato “I mangiatori di patate”, uno dei suoi capolavori in cui esprime pienamente la sua volontà di denuncia sociale e la sua visione morale dell’arte con delle pennellate aggressive e vibranti che rivelano crudelmente le mani deformate dal lavoro, i volti ossuti e rugosi della povera gente:

“lavorando ho voluto fare in modo che si capisse che quei popolani che, alla luce della lampada, mangiano le loro patate prendendole dal piatto con le mani, hanno personalmente zappato la terra in cui le patate sono cresciute…”

Nel marzo 1886 era, come abbiamo già detto, a Parigi, ospite dell’amato fratello Theo e forse passò i due anni più felici della sua vita. Poté confrontarsi con i pittori emergenti, avere scambi di idee; alcuni li conobbe personalmente nella bottega di colori di Père Tanguy come Pissarro, Monet, Renoir, Cezanne. Dedicò poi un ritratto a questo negoziante che aveva già intravisto nel pittore olandese un grande artista e che ne condivideva anche le idee utopico-socialiste.

Nel quadro dietro al soggetto lo sfondo è tutto tappezzato di stampe giapponesi oggetto degli studi da parte dell’artista ad Anversa e che lo influenzarono soprattutto per l’uso del colore. Nel 1887 passò molto tempo a dipingere in compagnia di Paul Signac; dipinse ritratti, vedute di città e paesaggi nello stile Impressionista e Neo-Impressionista. In Novembre organizzò una mostra di artisti che chiamava gli “Impressionistes du petit boulevard” e conobbe Seurat, Gauguin e Guillaumin.

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La vita frenetica che aveva condotto a Parigi lo aveva indebolito sia fisicamente che mentalmente e il suo lavoro cominciò a risentirne. Nel febbraio 1888 partì per Arles nel sud, alla ricerca di pace e di un clima più caldo e si sistemò in una casa dalla facciata dipinta di giallo che decorò al suo interno con una serie di tele che rappresentano i girasoli.

È il giallo il colore fondamentale dell’opera arlesiana di Van Gogh che abbandona il tratto divisionista per esprimersi con l’uso di colori molti accesi. In Provenza non trovò, a dire la verità, il clima migliore che sperava: la temperatura era sotto zero come a Parigi e c’era la neve. In marzo ed aprile dipinse molte versioni de “il ponte di Langlois”, in cui cercò di rappresentare il paesaggio provenzale al modo delle incisioni su legno giapponesi.

“Il paese mi sembra altrettanto bello del Giappone, per la limpidezza dell’atmosfera e gli effetti di vivacità del colore”.

Su insistenza del fratello Theo si decise a mandare tre tele al Salon des Indépendants.

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Cominciò un’attività frenetica che lo portò a dipingere quadri ormai celebri oggigiorno come “Il caffè di notte-interno” e “Il caffè di notte-esterno” in cui, come disse in una lettera a suo fratello Theo, cercava di far capire che il caffè notturno non era solo il paradiso degli ubriachi e dei vagabondi ma anche un rifugio necessario, anche se pericoloso, per gli artisti di scarso successo come lui , era un posto dove ci si poteva rovinare, diventare pazzi e commettere crimini. Il compito di comunicare sensazioni ed emozioni è affidato esclusivamente al colore e più che ai contrasti di colori puri, agli accostamenti di colori complementari (rosso-verde, blu-arancio).

Ad Arles lo raggiunse nell’ottobre 1888 Paul Gauguin e per Vincent fu come rinascere, tanto era l’entusiasmo di poter dividere delle idee e delle esperienze pittoriche con un’artista che aveva sempre stimato: la sua salute migliorò subito ed in due mesi dipinse altri capolavori come “Les Alyscamps”,”Camera da letto”, “L’Arlésienne”. Poi, le incompatibilità di carattere tra van Gogh e Gauguin divennero insostenibili durante il mese di dicembre e culminarono in una violentissima lite durante la quale Vincent si tagliò un orecchio inducendo il pittore francese a tornarsene a Parigi.

Rimasto solo, il nostro decise spontaneamente di farsi ricoverare nell’ospedale psichiatrico di Saint-Rémy dove si sottomise alle cure del dott. Peyron. Gli fu permesso di lavorare all’interno dell’ospedale e Vincent trovò molti soggetti nel giardino dell’ospedale stesso e li dipinse come gli “Iris”e i “Lillà”.

A proposito della “natura morta con iris” si può dire che, mentre “i girasoli” erano stati dipinti con sfumature di colore apparentate strettamente fra loro, qui lo schema è quello dei colori complementari: il blu violaceo degli iris contrasta con l’arancio ocra del vaso e della superficie di appoggio e con il giallo dello sfondo.

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Quando gli fu permesso di lavorare fuori dell’ospedale, con un accompagnatore, si dedicò a dipingere soggetti tipici della Provenza, ulivi e soprattutto cipressi. Malgrado però l’ottimismo del dott.Peyron, le condizioni di salute di Vincent van Gogh peggiorarono a metà luglio e lo costrinsero al riposo assoluto fino a settembre.

Riprese quindi a lavorare dedicandosi a dipingere parecchie copie in grande formato da lavori di Millet e di Delacroix ma l’instabilità mentale aveva ormai il sopravvento sull’artista portandolo ad una debilitazione fisica notevole.

Nell’aprile 1890 fu preso dall’irresistibile voglia di andarsene da Saint Rémy e, dopo una breve tappa a Parigi per conoscere la donna con la quale il fratello Theo si era da poco sposato, si rifugiò ad Auvers-sur-Oise, dove il dott.Gachet aveva accettato di accoglierlo e di curarlo.

Oltre a dipingere paesaggi si dedicò con una certa regolarità ai ritratti che considerava un genere particolarmente commerciabile, che gli poteva permettere una certa indipendenza economica dal fratello che adesso aveva una famiglia. Il suo primo modello ad Auvers fu proprio il dottor Gachet, appassionato collezionista di pittura, che rimase entusiasta della tela.

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Il dottore è ritratto con un berretto da marinaio bianco; era un medico omeopatico un po’ eccentrico e van Gogh alluse alla sua professione introducendo nel dipinto i fiori medicinali di digitale. In questi ritratti, che riecheggiano il sintetismo di Gauguin, l’artista olandese non voleva ottenere una somiglianza fotografica ma piuttosto trasferire un’espressione e nel ritratto di Gachet in particolare cercò di cogliere l’espressione triste della nostra epoca.

Vicino ad Auvers van Gogh scoprì le grandi distese ondulate della pianura che al tempo della mietitura attiravano grandi stormi di corvi e ne fu attirato per una loro rappresentazione. Il suo stato d’animo, che in quel momento era profondamente alterato, lo portò ad usare non il pennello ma una spatola per stendere il colore a grandi colpi, come animato da una furia distruttrice: il cielo è tempestoso, il campo di grano agitato dal vento e su tutto dominano i tratti neri e drammatici delle ali dei corvi quasi a costituire una funerea premonizione di sventura e di morte.

E per questi campi, il 27 luglio, si avvierà senza i suoi colori ed il cavalletto, per sparare ai corvi ma rivolgerà l’arma contro se stesso arrivando all’atto estremo. Il proiettile non colpì il cuore, così Van Gogh ebbe la forza di ripercorrere il tragitto fino alla sua camera. Soltanto la sera i coniugi Ravoux , insospettiti dalla sua assenza, salirono in camera e scoprirono tutto. Chiamarono il dottor Gachet il quale dopo aver ritenuto impossibile estrarre la pallottola contattò il fratello Théo.

L’indomani Théo trovò Vincent disteso sul letto, come se nulla fosse, che fumava la pipa. I due parlarono per tutto il giorno. Théo si stese sul letto accanto a Vincent, che morì alcune ore dopo.

Il pittore Emile Bernard, da lungo tempo amico di Vincent, raccontò nei dettagli il funerale a Gustave-Albert Aurier:

La bara era già chiusa.Sulle pareti della stanza dove il suo corpo giaceva, quasi a fargli da alone, erano appesi tutti i suoi dipinti, e la brillantezza del genio che si irradiava da loro rendeva la sua morte ancor più dolorosa per noi artisti che eravamo là. La bara era rivestita di un semplice drappo bianco e circondata da mazzi di fiori, i girasoli che amava tanto, dalie gialle, fiori gialli ovunque. Era questo, se ben ricordo, il suo colore preferito, il simbolo della luce che egli sognava albergasse nel cuore delle persone così come nelle opere d’arte. Accanto a lui sul pavimento di fronte alla sua bara c’erano anche il suo cavalletto, il suo seggiolino pieghevole e i suoi pennelli.

Molta gente arrivò, soprattutto artisti, tra i quali riconobbi Lucien Pissarro e Lauzet. Non conoscevo gli altri, anche gente del luogo che lo aveva conosciuto un poco, lo aveva visto una volta o due e ai quali era piaciuto perché era così di buon cuore, così umano . . . .
Eravamo là, completamente silenziosi, tutti assieme attorno a questa bara che conteneva il nostro amico. Alle tre in punto la salma venne rimossa e caricata dagli amici sul carro funebre, numerose persone erano in lacrime. Theodore van Gogh che si era dedicato a suo fratello, che lo aveva sempre sostenuto nel suo sforzo di mantenersi per mezzo della sua arte, singhiozzò in modo pietoso per tutto il tempo . . . .

Il sole fuori era terribilmente caldo. Salimmo la collina fuori Auvers parlando di lui, dell’impulso audace che aveva dato all’arte, dei grandiosi progetti ai quali pensava in continuazione, e di tutto il bene che aveva fatto a tutti noi. Raggiungemmo il cimitero, un piccolo cimitero nuovo disseminato di nuove tombe. Si trova sulla collinetta sopra i campi maturi per il raccolto sotto l’ampio cielo blu che egli avrebbe ancora amato . . . forse.

Quindi fu adagiato nella fossa . . . . Chiunque avrebbe cominciato a piangere in quel momento . . . il giorno sembrava così fatto apposta per lui perché uno potesse fare a meno di immaginare che egli era ancora vivo e ne stava godendo . . . .

Il dottor Gachet (che è un grande amante delle arti e possiede una delle migliori collezioni di dipinti impressionisti al giorno d’oggi) volle pronunciare poche parole di omaggio per Vincent e la sua vita, ma egli pure piangeva così forte che potè solo balbettare un addio molto confuso . . . (forse fu questo il modo migliore di farlo).

Egli diede una breve descrizione delle lotte e dei successi di Vincent, affermando quanto sublime fosse il suo intendimento e quale grande ammirazione provasse per lui (sebbene lo avesse conosciuto solo molto poco). Egli era, disse Gachet, un uomo onesto e un grande artista, aveva solo due obiettivi, l’umanità e l’arte. Era l’arte ciò che egli stimava sopra qualsiasi altra cosa e che avrebbe mantenuto vivo il suo nome.

Poi ce ne tornammo via. Theodore van Gogh era affranto dal dolore; tutti eravamo molto commossi, alcuni se ne andarono verso l’aperta campagna mentre altri tornavano verso la stazione.”

Vincent van Gogh non aveva venduto un quadro in vita, se non al fratello Theo e al dottor Gachet che lo aveva ospitato gli ultimi giorni di vita. Theo morì sei mesi dopo lasciando alla moglie tutta l’opera del fratello.

Lanfranco Bruzzesi

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