Vivere senza Dio: la religione degli atei

Si può vivere senza Dio?

Su Scientific American e sul New York Times ci sono in questi giorni delle interessanti recensioni di un libro appena uscito in lingua inglese, che in italiano è stato già pubblicato lo scorso anno, per Guanda. Stiamo parlando di Del buon uso della religione. Una guida per i non credenti, del filosofo e scrittore Alain de Botton, 288 pagine.

Il libro è interessante per chi si occupa di scienza, perché l’autore ritiene che vi sia un bisogno innato, negli esseri umani, di credere a qualcosa di trascendente. Non è sicuramente il solo o il primo ad affermarlo: uno dei pensatori più influenti, che aveva la stessa convinzione era Jung, il quale attribuiva alla religione una funzione decisiva nello sviluppo della civiltà. Jung condannò infatti la  perdita di spiritualità del mondo moderno, in favore del predominio incontrastato della scienza. (Non a caso Jung si interessò molto di  religioni orientali e dei loro simboli. Il simbolo, secondo lo psicoanalista, svolge infatti una funzione di mediazione fra l’ inconscio e la coscienza ed opera dunque come agente trasformatore della natura stessa dell’uomo).

Tornando a de Botton, quando manca la fede in Dio, perché non appare né logica, né razionale, si impara a vivere senza una divinità in cui credere, ma questo è per l’ateo grave fonte di frustrazione, in quanto la mancanza della fede implica anche la mancanza di una rete sociale di supporto, mancano i rituali che rendono alcuni momenti della vita importanti e indimenticabili, mancano gli stimoli per la contemplazione della natura, per porsi delle domande sulla propria esistenza, per osservare un’etica delle relazioni interpersonali.

Negli ultimi due secoli, dice ancora l’autore, la religione ha perso la sua influenza sulle masse, ma non è per questo diminuito il desiderio delle persone di avere una fede, tanto che molti si sono rivolti ad altre religioni, a volte laiche, come le fedi espresse in favore di alcuni ideali, politici, economici, sociali. Altri hanno cercato la spiritualità e la trascendenza attraverso l’opera artistica, la letteratura, la musica.

Alain de Botton è ateo ed auspica una società veramente laica, ma il filosofo ritiene sbagliato che gli atei accettino di perdere non solo la fede, ma anche i moltissimi vantaggi esistenziali delle persone credenti. Una persona religiosa infatti gode anzitutto del privilegio di avere facile accesso ad una rete di persone appartenenti alla stessa comunità, ben disposte all’accoglienza e all’aiuto dei confratelli, soprattutto nei momenti di difficoltà.

Che dire poi della propria formazione personale? L’opera di trasmissione di informazioni, che una volta era assegnata alle Chiese, oggi è stata delegata alle Università e se queste hanno raggiunto una competenza senza pari nella diffusione del sapere, non si può dire che esse si preoccupino di rendere l’allievo non solo sapiente, ma anche saggio: questo aspetto è lasciato alla propria autonoma volontà di utilizzare il proprio sapere per migliorare sé stessi (e non è detto che tutti ne sentano l’esigenza!)

De Botton si guarda intorno e vede una società laica, priva di alte aspirazioni spirituali e senza una guida morale. Secoli fa, le religioni davano ai cittadini dei consigli su come vivere con gli altri, su come tollerare gli errori altrui, placare la rabbia e sopportare il dolore. Oggi questa saggezza di tipo pratico non ce la dà più nessuno.

Anche i musei sono diventati dei luoghi commerciali ed anche quando espongono oggetti importanti, sono incapaci di collegarli ai bisogni delle nostre anime. I visitatori del museo vorrebbero essere trasformati dall’arte, ma la “folgorazione” non avviene quasi mai ed essi appaiono come i delusi partecipanti di una seduta spiritica non riuscita.

De Botton non auspica la rinascita del sentimento religioso, come è stato nel passato: secondo il filosofo è impossibile oggi prendere sul serio la fede in Dio e pensa che nessuno dei suoi lettori colti possa realmente credere agli inquietanti fantasmi del cielo.

Le istituzioni laiche però potrebbero imparare ad imitare i rituali delle religioni, così come le loro abitudini e le tecniche di insegnamento presenti in ogni chiesa, moschea o sinagoga: tecniche molto efficaci ed oltre tutto perfezionate nel corso dei secoli. Sarebbe importante rendere “religiosi” alcuni luoghi, come ad esempio dei Ristoranti Agape (in greco antico agape significa “amore fraterno”) in cui, per pochi soldi, sia possibile sedere allo stesso tavolo, parlare con i propri commensali, porre delle domande, offrire delle risposte, ad esempio su temi che riguardano le nostre paure, o il perdono dopo un’offesa.

Una delle proposte di de Botton per migliorare la meditazione e l’approfondimento, è quella di creare un museo organizzato per temi, invece che per epoca storica. Ad esempio ci potrebbe essere una Galleria della compassione, una galleria della paura e così via. Le scuole invece dovrebbero supplire all’insegnamento pratico religioso tenendo corsi su attività che riguardano la vita di ogni giorno, in primis la scelta del partner, mettendo insieme il sapere della letteratura, della psicologia e delle neuroscienze.

Le lezioni impartite nelle Università  dovrebbero essere simili ai rituali religiosi, con gli studenti che ripetono a voce alta i concetti basilari, dopo una lezione di filosofia. Sui muri delle città potrebbero essere scritte parole importanti, come “perdono” e potrebbe essere fissato un “giorno dell’espiazione” in cui ciascuno possa confessare a qualcun altro i propri peccati.

De Botton invita inoltre a scegliere sempre delle vacanze di auto-miglioramento ed auspica la presenza degli psicologi nei negozi e nei centri commerciali, per offrire sempre ascolto e supporto.

Commento

De Botton lancia delle proposte provocatorie, ma sicuramente interessanti e che potrebbero essere sviluppate ed approfondite. Tuttavia, la scelta di essere atei implica necessariamente la rinuncia ai rituali collettivi di chi ha una fede. Crearsi dei totem, partecipare a dei riti senza senso, solo per soddisfare il proprio bisogno di appartenenza e di spiritualità potrebbe in realtà essere molto pericoloso. Per un falso ideale infatti una persona potrebbe essere spinta a lottare e perfino ad uccidere o anche a farsi uccidere (si pensi ai gruppi politici estremisti, ai tifosi organizzati, ai gruppi che cercano una identità territoriale attraverso rituali semi-magici…) A questo punto, verrebbe da chiedersi, se uno proprio non ce la fa ad essere completamente ateo, perché gli mancano troppo quei simboli e quei riti, non sarebbe meglio si sforzasse di credere nella religione che c’è, invece di inventarsene per forza un’altra? Visto che deve essere una scelta razionale, che lo sia fino in fondo!

Dr. Giuliana Proietti

Fonti:

Are Believers Really Happier Than Atheists?, Scientific American
Without Gods, New York Times

Immagine:
Copertina del libro

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