Scienza e sacrifici animali

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La sperimentazione animale è da decenni uno dei temi più controversi nel dibattito tra scienza, etica e opinione pubblica. Da un lato, l’utilizzo di animali nella ricerca biomedica ha contribuito a importanti scoperte, dallo sviluppo dei vaccini alla comprensione delle malattie neurodegenerative. Dall’altro, si sollevano interrogativi profondi sulla sofferenza inflitta, sul valore della vita animale e sulla necessità di metodi alternativi. Cerchiamo di saperne di più.

Perché si usano ancora gli animali nella ricerca scientifica?

Gli animali vengono utilizzati nella ricerca scientifica per studiare i meccanismi biologici, testare l’efficacia e la sicurezza di nuovi farmaci, comprendere l’evoluzione di malattie complesse o valutare gli effetti di sostanze chimiche. I modelli animali – in particolare roditori come topi e ratti – sono scelti per la loro somiglianza genetica con l’essere umano, la riproducibilità dei risultati e la possibilità di controllare l’ambiente sperimentale.

Senza questi modelli, molti progressi in medicina – come i trapianti, le terapie contro il cancro o i vaccini per poliomielite e COVID-19 – non sarebbero stati possibili.

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È giusto sacrificare animali per curare gli esseri umani?

Non esiste una risposta univoca. Alcuni sostengono che il fine – salvare vite umane – giustifichi il mezzo. Altri sottolineano che infliggere sofferenza a esseri senzienti, anche a scopo medico, richiede profonde riflessioni morali, soprattutto se si mette in discussione l’idea che la vita umana abbia sempre più valore di quella animale (Shanks & Green, 2004).

Chi decide quando è “accettabile” infliggere sofferenza? E qual è la linea tra necessità e abuso?

Per rispondere a questi dilemmi, negli anni sono state introdotte norme sempre più stringenti. La Direttiva 2010/63/UE dell’Unione Europea, ad esempio, stabilisce che gli animali possono essere utilizzati solo se non esistono metodi alternativi validi, e impone che la sofferenza sia ridotta al minimo, favorendo anestesia, analgesia e cure post-sperimentali.

Cosa cambia se la sperimentazione riguarda cosmetici o prodotti voluttuari?

In questi casi l’uso degli animali è ritenuto da molti ancora meno giustificabile: è etico provocare dolore per motivi di bellezza o lusso? La sensibilità pubblica e le normative in molti Paesi hanno già vietato i test cosmetici su animali.

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Esistono regole per ridurre la sofferenza animale nella ricerca?

Sì. Charles Hume già nel 1954 propose i principi delle 3R:
– Replacement (sostituzione),
– Reduction (riduzione)
– Refinement (miglioramento).

Da allora sono nate istituzioni internazionali che promuovono metodi alternativi, come il NC3R e l’ECVAM.

Quanti animali vengono usati oggi nella ricerca?

Si stima che ogni anno vengano impiegati circa 115 milioni di animali a livello globale. I roditori (topi e ratti) rappresentano il 95% del totale, mentre i primati meno dello 0,5% (Taylor et al., 2008).

Gli animali sono sempre un buon modello per l’essere umano?
Non sempre. Secondo Aysha Akhtar (2015), molti esperimenti animali non sono predittivi per l’uomo. Diversi studi e meta-analisi mostrano limiti significativi nella trasposizione dei risultati dall’animale all’essere umano.

La tecnologia offre alternative alla sperimentazione animale?

Negli ultimi anni sono emerse tecnologie promettenti che potrebbero ridurre – e in alcuni casi eliminare – la necessità di test sugli animali:

  • Modelli in vitro: cellule umane coltivate in laboratorio, spesso combinate in organoidi tridimensionali che simulano il funzionamento di organi reali.
  • Modelli computazionali (in silico): simulazioni digitali di processi biologici e farmacologici.
  • Microchip e organ-on-a-chip: dispositivi che mimano la fisiologia umana su scala microscopica.
  • Metodi basati su intelligenza artificiale: per prevedere la tossicità o l’efficacia di farmaci.

Tuttavia, per ora, nessuna alternativa è ancora in grado di replicare completamente la complessità di un organismo vivente. (Ekins et al., 2007).

Queste tecniche non comportano sofferenza animale?

Alcune, purtroppo, sì. Ad esempio, molte colture cellulari usano siero fetale di vitello (FCS), ottenuto in modo traumatico da feti bovini. Tuttavia, oggi si stanno sviluppando metodi di coltura alternativi privi di FCS.

Esistono metodi non invasivi direttamente sull’essere umano?

Sì. Tecniche come la risonanza magnetica (MRI), la tomografia a emissione di positroni (PET) e il microdosaggio permettono di studiare il corpo umano in modo sicuro e senza danni significativi (Wilding & Bell, 2005).


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I tessuti umani possono essere utilizzati per la ricerca?

Sì. Tessuti ottenuti da autopsie, biopsie, trapianti o interventi chirurgici sono risorse preziose per studiare malattie e testare farmaci. Sono già stati creati modelli di pelle e occhi umani per sostituire test animali dolorosi.

Cosa si prevede per il futuro?

La direzione è chiara: la scienza si sta muovendo verso una riduzione dell’impiego di animali, sia per motivi etici che per motivi scientifici. Sempre più studi mostrano che i modelli animali non sempre predicono con accuratezza ciò che accade nell’essere umano, e che i metodi alternativi potrebbero fornire risposte più affidabili in alcune aree.

Tuttavia, nel breve termine, la sperimentazione animale continua ad avere un ruolo centrale in molti ambiti della ricerca biomedica. Il compito delle istituzioni scientifiche è allora duplice: garantire la massima trasparenza, e investire in tecnologie che riducano la dipendenza da modelli animali.

Fonte principale:

Reduction of Animal Sacrifice in Biomedical Science & Research through Alternative Design of Animal Experiments, lJagdish Rai, Kuldeep Kaushik, Saudi Pharmaceutical Journal Volume 26, Issue 6, September 2018, Pages 896-902

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La canzone impegnata in Francia: Bernard Lavilliers

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La canzone impegnata ha ancora un significato nel XXI secolo? Possono essere conciliate critica sociale e società dello spettacolo? Cosa provano gli spettatori in un concerto dal vivo? La fusione collettiva diventa una coscienza comune? Si dovrebbero cantare le “cause perse” ? Sono veramente perse? Nella nostra storia culturale, la canzone sociale è il substrato della chanson francese. Sulla scia di questa canzone impegnata, Bernard Lavilliers ) trasmette da diversi decenni la memoria delle persone oppresse, le loro sofferenze così come le loro ricchezze. Le opere artistiche e musicali – in particolare l’arte della canzone – possono ancora permettere un processo di emancipazione individuale e collettiva? Questo non significa assoggettare l’arte, spesso considerata di per sé sovversiva, al volere politico?

Se, in Francia, la canzone sociale deriva da una tradizione nazionale, con la seconda modernità essa è stata messa ai margini da una canzone più legata all’interiorità, alla soggettività, agli stati d’animo … La fiducia nei poteri messianici utopici o emancipatori dell’arte è stata quindi indebolita e i sospetti sulla sua inefficacia politica e sulla sua possibile strumentalizzazione si sono accresciuti. La seconda modernità determinerà la fine delle avanguardie? Oppure “l’arte può (ancora) rivendicare un significato e un’utilità nelle cose umane, far coincidere prassi e poiesi aristoteliche, regole di condotta nell’azione e proposte artistiche? “. Di questo si parla nell’opera « Bernard Lavilliers en concert. Pour en soiologie politique de la chanson » pubblicato dalle edizioni camion n blanc a metà novembre 2012.

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Bernard Lavilliers propone una narrazione del mondo ribelle, riempendo le sale ad ogni sua tournée. Come vivere nel nostro mondo, quando i discorsi politici lasciano senza voce una parte crescente della popolazione? Come rimanere cittadini impegnati in un mondo di incertezze che si è quasi rinunciato a tentare di gestire in modo collettivo? E’ in questo che la scelta di un artista come Lavilliers trova senso: in un percorso artistico che rivendica le sue radici nelle origini regionali (Saint-Etienne) e operaie (figlio di un operaio, un tempo tornitore) , che manifesta il suo sostegno al mondo del lavoro (ha cantato per i lavoratori della siderurgia lorena di Thionville, nella vallata di Fensch negli anni ’90 così per i minatori della Arcelor Mittal oggi); chi canta, legge, dice delle poesie nei suoi concerti, esalta la celebrazione della svolta verso l’altrove, verso l’Altro, in una sorta di viaggio ermeneutico, dove è possibile (ri) trovare in sé le tracce del proprio desiderio intimo di essere, che moltiplica nei concerti gli indirizzi politici al pubblico. Ma nei concerti, la fusione condivisa è coscienza comune? Come comprendere questa narrazione del mondo che Lavilliers offre agli spettatori dei suoi concerti? Attraverso dei testi molto impegnati attraverso la performance vocale e scenica, attraverso il caldo timbro vocale del cantante, attraverso il coinvolgimento del corpo, la qualità dei musicisti, tutti i poli-strumentisti, certo, ma anche e soprattutto attraverso l’esperienza collettiva. Un concerto è un momento “fuori dal tempo”, un rituale che strappa lo spettatore dalla temporalità sociale ordinaria, un momento durante il quale lo stress della vita di tutti i giorni sembra bandito e poi improvvisamente viene riflesso. E’ soprattutto un momento da vivere con gli altri.

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La canzone è un’opera aperta ed è nelle risonanze biografiche di ciascuno che essa prende il suo significato, oltre che nell’esperienza collettiva  all’interno della comunità e nella condivisione delle emozioni che veicolano significati al pubblico. A partire dall’ analisi delle canzoni, dall’osservazione dei concerti e delle interviste con gli spettatori di questa icona della modernità, che è il cantante Bernard Lavilliers, il libro si chiede cosa avviene tra un artista e il suo pubblico, in una sociologia che non riduce il pubblico ad un uditorio passivo, ma cerca di dare un senso alle emozioni.

Vengono presentate qui di seguito due interviste di spettatrici ad un concerto.

Mi sono capitate tante cose” Maravilla, 64 anni, casalinga, naturalizzata francese, spagnola (è il modo in cui si presenta)
“L’ho visto molto in TV, questa è la prima volta che lo vedo in concerto … amo la sua musica, è caldo, e ci sono buoni musicisti. Volevo parlare con lui … La sua musica è sublime, bravo per il coraggio … io non faccio politica, mio padre ha sofferto molto con Franco e questa merda di politica … Quindi, non parlo di politica … ognuno ha la sua opinione.
Ammiro Lavilliers, ha il coraggio di parlare apertamente: ha la sua opinione e spetta a voi giudicare. E poi Marine Le Pen… Noi stranieri non siamo dei mostri, giusto? 1
Non posso neanche stare coi vecchi, brontoloni, mi rifiutano, ma poco male, faccio ceramica, acquerelli! Mi piace: difende le sue idee, mi è piaciuta l’atmosfera, la gente era di tutti i tipi. I giovani, hanno bisogno di sentire quello che dice. La musica mi ha fatto piangere …  me ne sono capitate di cose, e poi ho divorziato, ho avuto una figlia malata e poi questa musica. Le sue canzoni, mi fanno piangere e mi fanno vivere (piange, tirando su col naso)« Attention fragile » mi ha fatto piangere … Non ci sono bianchi e neri nella musica. Ho rispetto per la sua musica. Vorrei comprare il suo CD, cucirò di più per comprare il suo CD. Dategli un bacio da parte mia, ditegli che ammiro il suo coraggio, non dimenticate il bacio … “

La commovente testimonianza di Maravilla è interessante per l’adesione alle idee prima negate, poi espresse a  malincuore raccontando la storia della sua vita, le sue sofferenze: la musica esprime (e permette di esprimere), le emozioni attraverso le quali i sentimenti prendono corpo. E il suo corpo si esprime: ci sono lacrime, sorrisi, e tante emozioni: della connivenza, un po’ di rabbia dell’ammirazione e del rispetto.

“Lui riesce a dire ciò che sento e non riesco a dire. (…) Lui è una coscienza del mondo “(Rosalie, infermiera, 54).
“Io sono una persona non condizionata, è come il cibo. E ‘ stato molto forte, il suo ultimo album, mi ha liberato la testa. Ero su una nuvoletta dopo il concerto. Ero proprio davanti ed ho potuto vedere tutti i piccoli dettagli: i gesti, il contatto visivo con i musicisti, i sorrisi … Non sono delusa, è all’altezza dei suoi testi. Sono molto forti le sue canzoni ma ci sono frasi che non riesco a sentire, sono troppo dure, e mi turbano.  « j’ai recouvert ton visage de sable » (ho ricoperto il tuo viso di sabbia) per esempio. 2
Alcune canzoni mi toccano più delle altre: “l’exilé” (l’esiliato) per esempio: ” « J’ai 2 bracelets d’acier qui entravent mes bras Le bruit des bottes qui résonnent, mon père a connu ça»  (Ho 2 braccialetti di acciaio che impacciano le mie braccia. Il rumore degli stivali che risuonano, mio padre ha conosciuto tutto questo). 3

Anche attraverso le mie origini, mio padre è del Mali e mia madre della Normandia, ho conosciuto tutto ciò che è legato all’asservimento. Ho vissuto nelle Indie Occidentali, la schiavitù ha lasciato il segno. “Causes perses”, questa canzone mi dice molte cose, ho viaggiato in Africa … la Francia era l’Eldorado che prometteva il lavoro … (silenzio) Capisco perché gli emigranti accettavano. (Cita le parole a memoria):

« Tous ces hommes sans femmes des quatre coins du monde
Seuls dans les dortoirs comptent les secondes
Partir si loin pour ne pas réussir
Avoir un toit pour dormir»4

(Tutti questi uomini senza donne ai quattro angoli del mondo
Soli nei loro dormitori contano i secondi
Andare così lontano per non riuscire
Ad avere un tetto per dormire)

In Francia ho incontrato dei lavoratori emigrati che sono caduti nella marginalità. Questa è la realtà, e questo mi tocca molto. Bernard Lavilliers ha la particolarità di cogliere nel dettaglio, ciò che è essenziale per le persone, in poche parole:

« Frapper à des portes en fer qui ne s’ouvrent pas
Parler à des gens trop fiers qui ne me voient pas »5

(Bussare alle porte in ferro che non si aprono
Parlare a delle persone troppo orgogliose che non mi vedono)

Questo l’ ho vissuto! Ho una cultura occidentale, ho studiato. Quando mi trovo di fronte ad alcune persone noto dei pregiudizi, per il mio colore, si, per il colore della mia pelle. Dei poliziotti in una località di villeggiatura, volevano informazioni, mi hanno ignorato, io che ero la responsabile. Vedo, analizzo e … (silenzio) reagisco. Bernard Lavilliers è stato in grado di vedere i dettagli … Lui lo sa! Come fa? Riesce a capire …

« Trafic vertu
J’aime ou je tue
(…)
Que veux-tu que je sois
Dans cette société-là?
Un ange ou un cobra
Un tueur ou un rat?
Où veux-tu que je vive
Dans la radioactive?»6

(Traffic vertu
Amo o uccido
(…)
Cosa vuoi che io sia,
In questa società?
Un angelo o un cobra
Un assassino o un topo?
Dove vuoi che io viva
Nella radioattività?)

Che cosa ho a che fare con queste persone? Divento violenta? Accetto? Mi sottometto? Questa è la domanda che mi pongo: “Un angelo o un cobra? Un assassino o un topo? “Mi fa pensare, Lavilliers. E « identité nationale » Io vivo in un angolo sperduto tra le montagne, ed è tutto sotto controllo … E « tu deviens repérable sur ton adresse IP » (e tu diventi reperibile tramite il tuo indirizzo IP) 7
Internet vi controlla. La classe dominante si serve di voi, vi influenza, vi utilizza socialmente …E’ 1984 di Orwell … Ci sono modi per manipolare le persone con quello che ci viene insegnato, che va e modellare la nostra identità e Lavilliers è consapevole di questo. Utilizza i suoi mezzi, è una coscienza del mondo. Questo è quello che vedo e questa coscienza è essenziale: ha viaggiato, i suoi album sono in tutto il mondo … Per far passare i suoi messaggi, deve essere nella società.
E« la grande marée », (alta marea) è una delle sue prime canzoni: mi dà una sensazione (silenzio) è quello che lava, standardizza tutto … In Normandia, l’equinozio di primavera, una marea si alza e spazza via tutto … e tutto diventa uniforme, siamo tutti uguali, non siamo più in grado di ribellarci e di urlare.
Nel ’68, avevo 12 anni, ho conosciuto questa solidarietà nelle strade, ora le persone non sono più in grado di farlo perché tutto è stato ripulito… questa è l ‘ “alta marea”. Le persone sono state conquistate dal comfort. Tutto è appiattito, nessun problema con i padroni.
Ciò che lui fa è grande, perché è il vettore di un sacco di idee e di denunce. Questo è importante che avvenga in una società grazie agli artisti, le cose possono muoversi, ci sono i discorsi politici, ma non ci interessano più. Gli artisti come lui hanno la capacità di mettersi a livello delle persone comuni e quello che dice, la serietà delle sue parole, entra in contrasto con i ritmi delle canzoni da ballare. A volte ballo, a volte sento le parole. Arriva a dire quello che sento e non posso dire. Resta fedele a sé stesso  e durante i suoi concerti …  quasi non parla abbastanza. Ma a volte, dice una parola ed essa è essenziale, doveva dirla! ‘

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La testimonianza di Rosalie è particolarmente sorprendente: in primo luogo, per la buona conoscenza dei testi delle canzoni, poi per la sua reinterpretazione dei testi, alla luce della sua esperienza, reinterpretazione che le fornisce una griglia di interpretazione del mondo che sostiene le sue parole, esprime la sua sofferenza. Vi è un costante avanti e indietro con i testi che danno l’impressione di una maggiore consapevolezza del mondo. In una complessa tensione tra mondo sociale, cantautore e spettatori, questo è un tipo di ermeneutica in favore di una posizione politica che si avvicina a quella di Rosalie, una sorta di poetica della lacrima che mi sembra ben riflettere lo scopo – per quanto non intenzionale- che determina la ricezione della canzone: capire sé stessi mentre si cerca di comprendere i significati portati dalle canzoni. La canzone suggerisce e lo spettatore costruisce. La canzone vive su un plus valore di significato che apporta chi riceve la canzone, anche per il fatto che in un concerto la ricezione è collettiva in una sorta di comunità di interpretazione che ha delle aspettative socializzate. Per Bachtin, la letteratura porta in sé una dimensione che sembra esotopica che ci permette di comprendere la canzone “secondo la quale l ‘ ” io “dell’autore si apre all’altro fino a diventare il” sé-altro ” 8 e in un concerto, l’esperienza stessa è il cuore di questa polifonia dell’interpretazione collettiva in cui ciascuno porta il suo universo di valori di riferimento, cioè una sorta di “ampliamento dell’orizzonte della propria esistenza” 9 in un investimento emotivo, narcisistico rafforzato dallo scambio immediato e collettivo. Per Rosalie, ci sono la sua storia familiare, il suo colore della pelle, le sue esperienze, i suoi impegni.
Ma la critica sociale, rappresentata da una figura emblematica e carismatica può diventare un modo di chiedere al mondo solo ciò che si vive in comune, in uno spazio politico alternativo, ed il libro tenta di decriptare queste modalità.

Prof. Beatrice Mabilon-Bonfils

1. Maravilla parla con un accento spagnolo molto forte.
2. A dire il vero, questa frase non sembra tratta da una canzone di Bernard Levilliers – salvo errore da parte nostra – il che è ancor più sintomatico di ciò che l’ascoltatore fa di ciò che capisce o crede di capire.
3 Tratto da L’exilé, Album Causes perdues et musiques tropicales, 2010, B Lavilliers
4. Tratto da Causes perdues, Album Causes perdues et musiques tropicales 2010, B Lavilliers
5. Tratto da L’exilé, Album Causes perdues et musiques tropicales, 2010, B Lavilliers
6. Tratto da Traffic , Album histoires , 2002, B Lavilliers
7. Tratto da Identité nationale, Album Causes perdues et musiques tropicales, 2010, B Lavilliers
8. Dessinue, a. ( 2010). polyphonisme, de Batkhine à Ricoeur, in Ateliers de théorie littéraire, Fabula, http://www.fabula.org/atelier.php?Polyphonisme%2C_Bakhtine_%26agrave%3B_Ricoeur
9. Ricœur, p ; 1982, Temps et récit, I, l’intrigue et le récit historique, points essais, Paris, le seuil, p151.

Testo in francese: Bernard Lavilliers en concert

Video You Tube, Bernard Levilliers Causes perdues , La grande marée, Traffic, Noir et Blanc

Traduzione a cura di psicolinea.it (riproduzione vietata)

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La grande emigrazione italiana in America

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ANCONA FABRIANO TERNI CIVITANOVA MARCHE E ONLINEDr. Giuliana ProiettiDr. Giuliana Proietti - Tel. e Whatsapp 347 0375949

La Library of Congress (LOC), la Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti, è una delle più grandi e importanti biblioteche al mondo. Fondata nel 1800, è situata a Washington D.C. e funge da risorsa di ricerca ufficiale per il Congresso americano. Contiene oltre 170 milioni di oggetti, inclusi libri, manoscritti, fotografie, mappe, registrazioni audio, film, giornali e molto altro. Ha una delle collezioni più ricche di materiali multilingue e internazionali, non limitandosi solo alla cultura americana. Il sito ufficiale (loc.gov) offre accesso digitale a milioni di documenti storici e culturali.

Su questa fonte ho trovato un lungo articolo che descrive l’immigrazione italiana in America, che ho cercato di sintetizzare nei punti che mi sono sembrati più interessanti, perché descrivono come gli americani hanno vissuto e raccontano, ai massimi livelli, il fenomeno della immigrazione italiana nel loro Paese. Ed ecco allora un’ampia sintesi dell’articolo, integrata da altre notizie di cui viene ugualmente citata la fonte.

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La storia degli Stati Uniti è sempre stata plasmata da popoli e comunità che sono giunti sulle sue coste o si sono trasferiti all’interno dei suoi confini. Alcuni cercavano una vita migliore, altri sono fuggiti dall’oppressione e altri ancora sono stati trasferiti contro la loro volontà. Questa presentazione utilizza fonti primarie della Library of Congress per esplorare momenti ed esperienze di diverse di queste comunità.

Prime immigrazioni italiane

Durante il periodo coloniale e i primi periodi nazionali, gli immigrati dalla penisola italiana mantennero una piccola ma consolidata presenza nella popolazione nordamericana. 

Gli artigiani italiani erano rinomati in tutto il mondo e molti raggiunsero le Americhe per aiutare a costruire le sue nuove istituzioni, lavorando come scultori, falegnami e soffiatori di vetro. Thomas Jefferson aveva una particolare affinità per la cultura italiana; reclutò scalpellini italiani per lavorare nella sua casa a Monticello e portò musicisti dall’Italia per formare il nucleo della Marine Band.

L’emigrazione italiana continuò a rilento per tutta la metà del XIX secolo. Sebbene i viaggiatori provenienti dalla penisola continuassero a vagare per il mondo, la maggior parte scelse di stabilirsi in Argentina e Brasile. Tra il 1820 e il 1870, meno di 25.000 immigrati italiani giunsero negli Stati Uniti, per lo più dall’Italia settentrionale. Questi primi arrivi si stabilirono in comunità sparse in tutto il paese, dalle città agricole del New Jersey e dai vigneti della California ai porti di San Francisco e New Orleans.

L’impatto dei loro contributi è visibile ancora oggi. Il poeta Lorenzo da Ponte costruì il primo teatro dell’opera negli Stati Uniti, divenne professore di italiano alla Columbia University e quasi da solo affermò l’opera italiana negli Stati Uniti.

Il movimento abolizionista ricevette un sostegno fondamentale dal famoso rabbino di Philadelphia Sabato Morais, che portò un forte impegno per la libertà e i diritti umani dalla sua nativa Toscana.

A partire dalla metà degli anni ’50 dell’Ottocento, il pittore Costantino Brumidi trascorse decenni a creare i dipinti e gli affreschi che adornano il Campidoglio degli Stati Uniti, tra cui le spettacolari immagini sulla grande cupola dell’edificio.

Una lezione divulgativa su Freud e il suo libro "Totem e Tabù"

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Ellis Island

Ellis Island è stata fondata come soluzione a una grave crisi sociale. La precedente stazione di smistamento degli immigrati di New York era una fortezza in rovina chiamata Castle Garden, diventata ormai un pozzo di corruzione e furto, dove i nuovi immigrati dovevano superare, come primo approccio, una serie di imbroglioni, borseggiatori e rapinatori armati.

Per garantire un processo di ingresso sicuro, controllato e regolamentato, il governo federale si assunse il controllo dell’elaborazione degli immigrati e eresse una serie di nuove strutture appositamente costruite su un’isola nel porto di New York, Ellis Island

La stazione di immigrazione di Ellis Island rappresentava un nuovo tipo di istituzione governativa e divenne un simbolo duraturo dell’esperienza  di immigrazione negli Stati Uniti. Durante i quarant’anni in cui fu operativa, Ellis Island vide passare oltre 12 milioni di immigrati, a un ritmo di fino a 5.000 persone al giorno. Per molte generazioni di americani, e per quasi tutti gli italoamericani, Ellis Island è il primo capitolo della storia della loro famiglia negli Stati Uniti.

Quando il primo gruppo di immigrati sbarcò a Ellis Island nel 1892, si ritrovarono in balia di un regime sconcertante, seppur ordinato, di procedure burocratiche. I nuovi arrivati ​​venivano numerati, smistati e sottoposti a una serie di ispezioni, in cui venivano controllati per la loro idoneità fisica e mentale e per la loro capacità di trovare lavoro negli Stati Uniti.

Le conseguenze di un fallimento a un esame della vista, o di sembrare troppo fragili per i lavori manuali, potevano essere devastanti; un membro di una famiglia poteva essere rimandato in Italia, forse per non rivedere mai più i propri cari, a causa di un accenno di tracoma o di un ispettore negligente. La paura di essere separati dalla famiglia portò alcuni immigrati a chiamare Ellis Island “l’isola delle lacrime”.

Durante i primi decenni di controllo federale, c’erano poche restrizioni su chi poteva entrare nel paese (tranne per gli immigrati cinesi, che erano stati effettivamente banditi dal Chinese Exclusion Act del 1882). Il governo degli Stati Uniti aveva chiarito che non avrebbe accolto anarchici, poligami, criminali o chiunque fosse malato, avesse una morale debole o non fosse in grado di sostenersi. Allo stesso tempo, tuttavia, non erano richiesti né visti, né passaporti, né altra documentazione, e non c’erano limiti al numero di persone che potevano entrare nel paese.

Gli immigrati che alla fine passavano per Ellis Island avevano iniziato il loro viaggio acquistando un passaggio su un piroscafo, solitamente in partenza dall’Europa. Le compagnie di navigazione erano incoraggiate a controllare attentamente i passeggeri per garantirne la salute, la buona condotta e la solvibilità finanziaria: se non lo facevano, venivano multati di 100 $ per ogni persona a cui veniva rifiutato l’ingresso negli Stati Uniti e dovevano pagare il viaggio di ritorno dell’immigrato respinto.

Le navi che entravano nel porto di New York venivano accolte da una piccola imbarcazione proveniente da Ellis Island che trasportava ispettori dell’immigrazione, che salivano a bordo per esaminare rapidamente i passeggeri di prima e seconda classe, molti dei quali non erano immigrati. I passeggeri privi di malattie evidenti e le cui risposte corrispondevano alle informazioni sul manifesto della nave potevano sbarcare quando la nave attraccava a uno dei moli della città.

A Ellis Island, donne e bambini venivano separati in file diverse. Le file si snodavano attraverso la Great Hall mentre i nuovi arrivati ​​procedevano attraverso una catena di montaggio di esami medici superficiali condotti da dottori in uniforme.

Anche per coloro che superarono con successo la batteria di ispezioni, Ellis Island non fu generalmente un’esperienza piacevole. I regolamenti erano ancora confusi, la folla disorientante, i funzionari frettolosi e il frastuono di innumerevoli lingue in competizione poteva creare grande disagio. Il momento della partenza, quando gli immigrati di successo salivano sui traghetti per New York City o per destinazioni più a ovest, era un enorme momento di sollievo.

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Gli immigrati italiani in numeri

Negli anni ’80 dell’Ottocento erano 300.000; negli anni ’90 dell’Ottocento erano 600.000; nel decennio successivo, più di due milioni. Nel 1920, quando l’immigrazione iniziò a diminuire, più di 4 milioni di italiani erano giunti negli Stati Uniti e rappresentavano più del 10 percento della popolazione nata all’estero della nazione.

Cosa ha causato questa drammatica ondata di immigrazione dall’Italia?

Le cause sono complesse e ogni individuo o famiglia ha senza dubbio una sua storia. Verso la fine del XIX secolo, la penisola italiana era finalmente stata riunita sotto un’unica bandiera, ma la terra e la gente non erano affatto unite.

Decenni di conflitti interni avevano lasciato una scia di violenza, caos sociale e povertà diffusa. I contadini del sud Italia, prevalentemente povero e per lo più rurale, e dell’isola di Sicilia in particolare, avevano poche speranze di migliorare la loro sorte.

Malattie e disastri naturali travolsero la nuova nazione, ma il suo governo in erba non era in grado di portare aiuti alla popolazione. Man mano che i trasporti transatlantici divennero più accessibili e che la notizia della prosperità americana giunse tramite immigrati di ritorno e reclutatori statunitensi, gli italiani trovarono sempre più difficile resistere al richiamo dell’America.

Questa nuova generazione di immigrati italiani era nettamente diversa nella composizione da quelle che l’avevano preceduta. Non erano più artigiani e negozianti del Nord Italia in cerca di un nuovo mercato in cui esercitare la loro attività: ora la stragrande maggioranza era composta da contadini e braccianti in cerca di una fonte di lavoro stabile, qualsiasi lavoro. C’era un numero significativo di uomini single tra questi immigrati, e molti arrivavano solo per rimanere per un breve periodo. Entro cinque anni, tra il 30 e il 50 percento di questa generazione di immigrati sarebbe tornata a casa in Italia, dove venivano chiamati “i ritornati” .

Rimesse degli emigranti

Quelli che restavano di solito mantenevano uno stretto contatto con la loro famiglia nel vecchio paese e lavoravano sodo per avere soldi da inviare a casa. Nel 1896, una commissione governativa sull’immigrazione italiana stimò che gli immigrati italiani inviavano o portavano a casa tra i 4 e i 30 milioni di dollari ogni anno e che “il notevole aumento della ricchezza di alcune zone d’Italia può essere ricondotto direttamente al denaro guadagnato negli Stati Uniti”.

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Gli immigrati italiani a New York

Gli immigrati italiani che superarono la prova di Ellis Island si misero a trasformare la città che avevano trovato davanti a loro. Molti gruppi di immigrati precedenti, come quelli provenienti dalla Germania e dalla Scandinavia, erano passati da New York City nei decenni passati, ma la maggior parte aveva considerato la città semplicemente come una stazione di sosta e aveva continuato a stabilirsi altrove nel paese. Questa generazione di immigrati italiani, invece, si fermò in questa zona e vi fece le sue case; un terzo non andò mai oltre New York City.

Si sparpagliarono in tutta la regione di New York, insediandosi a Brooklyn, nel Bronx e nelle vicine città del New Jersey. Forse la più grande concentrazione di tutte, però, era a Manhattan. Le strade di Lower Manhattan, in particolare parti di Mulberry Street, divennero rapidamente fortemente italiane, con venditori ambulanti, negozianti, residenti e vagabondi che parlavano tutti la stessa lingua, o almeno un dialetto.

Campanilismo

In parte a causa delle divisioni sociali e politiche della penisola italiana, i villaggi dell’Italia meridionale tendevano a essere isolati e insulari, e i nuovi immigrati tendevano a preservare questo isolamento nel loro nuovo paese, raggruppandosi in enclave ravvicinate. In alcuni casi, la popolazione di un singolo villaggio italiano finiva per vivere nello stesso isolato a New York, o persino nello stesso condominio, e conservava molte delle istituzioni sociali, delle abitudini di culto, dei rancori e delle gerarchie del vecchio paese. In Italia, questo spirito di coesione del villaggio era noto come “campanilismo”, ovvero la lealtà verso coloro che vivevano nel suono delle campane della chiesa del villaggio.

Molti eventi e pratiche distintivi mantenevano l’unità del villaggio: matrimoni, feste, battesimi e funerali. Ciò che spesso catturava l’attenzione degli estranei era la “festa”, una parata che celebrava il giorno di festa del santo patrono di un particolare villaggio. Centinaia o migliaia di residenti seguivano l’immagine del santo in una processione attraverso le strade del quartiere.

La vita urbana era spesso piena di pericoli per i nuovi immigrati, e gli alloggi potevano essere uno dei pericoli più grandi. All’inizio del secolo più della metà della popolazione di New York City, e la maggior parte degli immigrati, viveva in case popolari, edifici bassi e poco spaziosi che di solito erano sovraffollati dai loro proprietari. Stretti, scarsamente illuminati, poco ventilati e solitamente privi di impianti idraulici interni, le case popolari erano focolai di parassiti e malattie, e spesso erano colpite da colera, tifo e tubercolosi. Il giornalista investigativo Jacob Riis, lui stesso un immigrato danese, lanciò una campagna pubblica per denunciare e sradicare lo sfruttamento abitativo che i nuovi immigrati erano costretti a sopportare.


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Vita e lavoro a New York

Per gli italiani, questo stile di vita fu uno shock enorme. In Italia, molte famiglie rurali dormivano in piccole e anguste case; tuttavia, trascorrevano la maggior parte delle loro ore di veglia fuori casa, lavorando, socializzando e consumando i pasti all’aperto. A New York si trovarono confinati in un’esistenza claustrofobica al chiuso, usando la stessa piccola stanza per mangiare, dormire e persino lavorare. Una percentuale sostanziale di famiglie di immigrati lavorava a casa eseguendo lavori a cottimo , ovvero svolgeva lavori che venivano pagati a cottimo, come cucire insieme indumenti o assemblare macchinari a mano. In una situazione come questa, una donna o un bambino immigrati potevano passare giorni senza vedere la luce del sole.

I luoghi di lavoro degli immigrati potevano essere malsani quanto le loro case. La maggior parte degli immigrati italiani del sud avevano lavorato solo come contadini, ed erano quindi adatti solo per lavori urbani non qualificati e più pericolosi. Molti italiani andarono a lavorare nei progetti di lavori municipali della città in crescita, scavando canali, posando pavimentazioni e linee del gas, costruendo ponti e scavando tunnel nella metropolitana di New York. Nel 1890, quasi il 90 percento dei lavoratori del Dipartimento dei lavori pubblici di New York erano immigrati italiani.

Non tutti i lavori degli immigrati italiani erano tetri e pericolosi. Gli italiani trovarono lavoro in tutta la città, in molti dei mestieri improvvisati che da tempo sono un rifugio per gli immigrati, come calzolai, muratori, baristi e barbieri. Per un certo periodo, si pensò che dietro ogni carretto dei venditori di frutta in città vi fosse un italiano. Per molti immigrati, però, e in particolar modo donne e bambini, il lavoro si poteva trovare solo nelle fabbriche, fabbriche buie e pericolose che spuntavano in quei tempi intorno alla città di New York. Quando scoppiò un incendio nella fabbrica Triangle Shirtwaist nel 1911, uccidendo 146 operaie, quasi metà delle vittime erano giovani donne italiane.

La grande ondata di immigrazione continuò nel XX secolo e le comunità italiane fiorirono in tutto il paese. Nel frattempo, gli immigrati italiani si dedicarono anche ad altri lavori. A San Francisco, sede di una lunga enclave italiana, i nuovi arrivati ​​trovarono la strada per i moli, per poter lavorare come pescatori e scaricatori. Negli Appalachi e nel West montano, andarono nelle miniere scavando per trovare carbone e altri minerali. Gli scalpellini che avevano imparato il mestiere sulle rocce e sulle rupi dell’Italia meridionale lavorarono nelle cave del New England e dell’Indiana. Inoltre, gli italiani lavoravano anche nelle fattorie e nei ranch in ogni angolo del paese, dalle torbiere di mirtilli del nord-est alle coltivazioni di fragole della Louisiana, ai campi di fagioli della California.

Nel 1940, uno scalpellino di Barre, nel Vermont, raccontò la sua storia a uno storico del WPA  project, the Historical Records Survey.

Viuggi, Italia, nel distretto di Como, è dove sono nato. Un buon centro di granito, Viuggi. Sono cresciuto per sentire il granito, per annusarlo e conoscerlo. Anche mio padre e suo fratello lavorano la pietra… Buffo, qui a Barre abbiamo circa un paio di dozzine di persone dalla mia città di Viuggi.

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Immigrati italiani di successo

Alcuni italiani colsero al volo le opportunità imprenditoriali nella loro nuova casa. Gli immigrati italiani nella parte settentrionale dello stato di New York fondarono la Società Alimentare Contadina nel 1918, e Andrea Sbarbaro di Genova contribuì a fondare l’industria vinicola della California.

A San Francisco, a cavallo del secolo, un italoamericano di nome AP Giannini iniziò a offrire piccoli prestiti ai suoi connazionali, andando porta a porta per riscuotere gli interessi. Alla fine, l’attività di Giannini crebbe fino a quando non fu costretto ad affittare un ufficio nel quartiere di North Beach, poi ad acquistare un edificio. Oggi, la Banca D’Italia di Giannini è diventata una delle più grandi istituzioni finanziarie del mondo, la Bank of America.

Caporalato

Molti immigrati italiani, tuttavia, si ritrovarono a faticare per una paga bassa in condizioni di lavoro malsane. A cavallo del XX secolo, gli immigrati italiani del sud erano tra i lavoratori meno pagati degli Stati Uniti. Il lavoro minorile era comune e persino i bambini piccoli spesso andavano a lavorare in fabbriche, miniere e fattorie, o vendevano giornali per le strade cittadine.

Molte migliaia di immigrati italiani si ritrovarono prigionieri del sistema di lavoro del caporalato. I caporali erano mediatori di manodopera, a volte immigrati essi stessi, che reclutavano immigrati italiani per grandi datori di lavoro e poi fungevano da supervisori sul posto di lavoro. In pratica, molti caporali si comportavano più come schiavisti che come manager. Un caporale spesso controllava i salari, i contratti e la fornitura di cibo degli immigrati sotto la sua autorità e poteva tenere i lavoratori al lavoro per settimane o mesi oltre i loro contratti. Alcuni caporali costruirono vasti imperi del lavoro, tenendo migliaia di lavoratori confinati in campi chiusi, dietro recinti di filo spinato pattugliati da guardie armate. Il sistema del caporalato, nonostante le sue numerose ingiustizie, non fu sradicato fino alla metà del XX secolo.

Sindacalismo

Gli immigrati italiani combatterono contro la gestione senza scrupoli e le condizioni di sicurezza insicure intraprendendo azioni organizzate. Poiché molti dei principali sindacati statunitensi impedirono ai lavoratori stranieri di iscriversi per molti anni, molti immigrati formarono i propri sindacati, come l’Italian Workers Union di Houston, o si unirono al radicale International Workers of the World.

Gli organizzatori sindacali italiani si sparpagliarono in tutta la nazione, spesso rischiando l’arresto o la morte per i loro sforzi. I lavoratori italiani furono attivi nella maggior parte delle grandi lotte sindacali dei primi decenni del XX secolo, guidando scioperi nelle fabbriche di sigari di Tampa, nelle cave di granito del Vermont e nelle fabbriche tessili del New England. Nel 1912, durante un duro sciopero tessile a Lawrence, Massachusetts, gli organizzatori italiani dell’IWW Arturo Giovannitti e Joseph Ettor, insieme allo scioperante Joseph Caruso, furono incarcerati per quasi un anno con false accuse di omicidio. Nel massacro di Ludlow del 1914, quando le guardie nazionali del Colorado tentarono di interrompere uno sciopero dei minatori bruciando il villaggio di tende degli scioperanti, le due donne e gli undici bambini che morirono nell’incendio erano tutti immigrati italiani.

Le lotte sindacali non furono gli unici conflitti che gli immigrati italiani affrontarono. Durante gli anni della grande immigrazione italiana, dovettero anche confrontarsi con un’ondata di pregiudizi virulenti e ostilità nativista.

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Sentimento anti-immigrazione

Quando l’immigrazione dall’Europa e dall’Asia si avvicinava al suo apice alla fine del XIX secolo, il sentimento anti-immigrati aumentò con essa. Gli Stati Uniti erano in preda a una depressione economica e gli immigrati venivano accusati di rubare i lavori americani. Allo stesso tempo, sulla stampa circolavano teorie razziste, che avanzavano teorie pseudoscientifiche che sostenevano che i tipi “mediterranei” erano intrinsecamente inferiori alle persone di origine nordeuropea. Disegni e canzoni che caricaturavano i nuovi immigrati come infantili, criminali o subumani divennero tristemente comuni. Una vignetta del 1891 affermava che “Se l’immigrazione fosse opportunamente limitata, non saresti mai turbato dall’anarchismo, dal socialismo, dalla mafia e da mali simili!”

Tuttavia, gli attacchi contro gli italiani non si limitarono alla stampa. Dalla fine degli anni ’80 dell’Ottocento, le società anti-immigrazione fiorirono in tutto il paese e il Ku Klux Klan vide un picco di iscritti. Le chiese cattoliche e le associazioni di beneficenza furono vandalizzate e bruciate e gli italiani furono attaccati dalla folla. Solo negli anni ’90 dell’Ottocento, più di 20 italiani furono linciati.

Uno degli episodi più sanguinosi ebbe luogo a New Orleans nel 1891. Quando il capo della polizia fu trovato ucciso a colpi di arma da fuoco per strada una notte, il sindaco diede la colpa ai “gangster siciliani” e radunò più di 100 siculoamericani. Alla fine, 19 furono processati e, mentre gli italoamericani della nazione guardavano nervosamente, furono dichiarati non colpevoli per mancanza di prove. Prima che potessero essere liberati, tuttavia, una folla di 10.000 persone, tra cui molti dei cittadini più importanti di New Orleans, irruppe nella prigione. Trascinarono fuori dalle loro celle 11 siciliani e li linciarono, tra cui due uomini incarcerati per altri reati.

Il sentimento anti-immigrazione continuò fino agli anni ’20, quando il Congresso degli Stati Uniti impose severe restrizioni all’immigrazione. Quando questa legislazione fu approvata, la grande era dell’immigrazione italiana giunse al termine.

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Seconde e Terze generazioni

Con l’avanzare del XX secolo, gli immigrati italiani si sono spostati costantemente nelle principali correnti della società statunitense. Entro gli anni ’20 e ’30, la generazione di immigrati aveva iniziato a vedere i propri figli crescere come americani, un processo che molti immigrati vedevano con una certa ambivalenza. Il sistema scolastico pubblico statunitense forniva ai bambini immigrati una nuova lingua, un nuovo tipo di simboli patriottici, un’immersione nella cultura popolare statunitense e talvolta persino un nuovo nome anglicizzato. Allo stesso tempo, però, questo processo creava spesso un divario culturale tra la seconda generazione, americanizzata, e i loro genitori, che sarebbero sempre appartenuti, almeno in parte, al vecchio paese.

Nel corso del tempo, gli italoamericani hanno ottenuto progressi nella forza lavoro statunitense. I principali sindacati hanno presto aperto le porte ai lavoratori immigrati e gli italiani sono stati in grado di continuare il loro attivismo su una scala molto più ampia. Man mano che acquisivano più esperienza, gli italoamericani sono diventati imprenditori e manager in numero maggiore. Le opere di autori italoamericani hanno iniziato ad apparire nelle librerie e il tenore napoletano Enrico Caruso è diventato un artista di successo tra italiani e non italiani. Con la prosperità è arrivata una maggiore influenza politica e i candidati hanno iniziato a ingraziarsi le associazioni italoamericane con l’avvicinarsi delle elezioni.

Seconda Guerra Mondiale

L’avvento della seconda guerra mondiale vide gli italoamericani entrare definitivamente al centro della vita culturale degli Stati Uniti. Quasi un milione di italoamericani prestò servizio nelle forze armate, circa il 5 percento della popolazione italoamericana, e milioni di altri lavorarono nelle industrie belliche. Come per molti altri gruppi di immigrati, il servizio militare portò agli italoamericani una mobilità sociale ancora maggiore, un maggiore accesso all’istruzione e un profilo più alto nell’immaginario popolare della nazione. Secondo un racconto, un’operaia aeronautica italoamericana, Rose Bonavita, divenne l’ispirazione per un’icona del XX secolo, Rosie the Riveter.

Dagli anni ’40 in poi, i figli degli immigrati italiani si potevano trovare in tutte le regioni degli Stati Uniti, in quasi ogni carriera e in quasi ogni ceto sociale. Ciò era particolarmente vero a New York City, dove la cultura italoamericana divenne presto una componente importante della personalità della città. Per molti americani, il sindaco di lunga data della città, Fiorello LaGuardia , fu un ambasciatore energico ed erudito sia per la sua città che per il suo patrimonio nazionale.

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Gli italoamericani più famosi

Con l’esplosione dei mass media dopo la guerra, gli italoamericani divennero onnipresenti. Ogni aspetto dello spettacolo, della politica, della scienza e dell’arte sembrava avere un importante italoamericano nella sua avanguardia. Rocky Marciano rivoluzionò lo sport della boxe. Diane Di Prima fu pioniera della poesia e della prosa ruvida del movimento Beat. Enrico Fermi continuò il suo lavoro sui misteri dell’atomo, che gli valse il premio Nobel, diventando senza dubbio il più grande fisico vivente.

Joe DiMaggio, figlio di un pescatore di San Francisco, guidò i New York Yankees a nove campionati delle World Series. I cantanti Perry Como e Dean Martin dominavano le onde radiofoniche e Frank Sinatra di Hoboken, New Jersey, fu, per un periodo, l’intrattenitore più popolare degli Stati Uniti.

Oggi, gli italoamericani sono rappresentati in tutta la società statunitense, dalla Corte Suprema alla National Academy of Sciences alla National Basketball Association. Più di cento anni dopo l’inizio della grande era dell’immigrazione italiana, i figli, i nipoti e i pronipoti degli immigrati originari continuano a celebrare l’eredità che i loro antenati hanno portato nella loro nuova casa.

Per una raccolta completa di fotografie di italoamericani negli anni della guerra, e in particolare a New York City, visita la raccolta Farm Security Administration/Office of War Information Black-and-White Negatives e cerca “Italian American”.

Adattamento

Giuliana Proietti

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Fonte principale: Library of Congress
e National Geographic

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Fotografia di Paul Thompson
National Geografic

I Social
Il Trascendentalismo: Origini, Principi e Impatto Culturale

Il Trascendentalismo: Origini, Principi e Impatto Culturale

Il Trascendentalismo: Origini, Principi e Impatto Culturale

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Il trascendentalismo è un movimento filosofico e letterario nato negli Stati Uniti nella prima metà del XIX secolo, con epicentro il New England. Questa corrente ha avuto un’influenza significativa sulla cultura, la letteratura e il pensiero occidentale, promuovendo una visione della vita basata sull’individualismo, la spiritualità e l’armonia con la natura.

Origini e Contesto Storico

Ciò che oggi conosciamo come “trascendentalismo” nacque tra i congregazionalisti liberali del New England nei primi anni del 1800. In ambito calvinista nacque un dibattito fra teologi della “Nuova Luce”, che credevano che la religione dovesse concentrarsi su un’esperienza emotiva, e gli oppositori della “Vecchia Luce”, che valorizzavano, invece, la ragione nel loro approccio religioso.

Queste “Vecchie Luci” si chiamarono prima “Cristiani liberali” e poi Unitariani.

Essi si allontanarono dal calvinismo ortodosso per due aspetti:

  1. credevano nell’importanza e nell’efficacia dell’impegno umano, in contrapposizione al più cupo quadro puritano di completa e ineluttabile depravazione umana;
  2. sottolineavano l’unità piuttosto che la “Trinità” di Dio (da qui il termine “unitariano”) e ritenevano che Gesù fosse un mortale, anche se più grande degli esseri umani.

I trascendentalisti si separarono dall’unitarianismo per la sua presunta razionalità e abbracciarono invece il romanticismo tedesco nella ricerca di un’esperienza più spirituale.

Essi sostenevano l’idea di una conoscenza personale di Dio, credendo che non fosse necessario alcun intermediario per l’intuizione spirituale. Abbracciarono inoltre l’idealismo, concentrandosi sulla natura e opponendosi al materialismo. 

Nel settembre del 1836, Ralph Waldo Emerson organizzò il primo incontro di quello che in seguito sarebbe stato chiamato Transcendental Club. Insieme, il gruppo discusse le frustrazioni dell’Unitarianismo e le loro principali convinzioni, attingendo a idee dal Romanticismo, dai filosofi tedeschi e dai testi spirituali indù, le Upanishad. I trascendentalisti iniziano a pubblicare scritti sulle loro convinzioni, a partire dal saggio di Ralph Waldo Emerson “Nature“. Altri esponenti di rilievo furono Henry David Thoreau, Margaret Fuller e Bronson Alcott, padre di Lousa May Alcott.

Nel 1840, fu creata la rivista The Dial per i trascendentalisti in modo che potessero pubblicare le loro opere.

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Brook Farm: prima comunità “utopica”

Nel 1841, un piccolo gruppo di loro, tra cui l’autore Nathaniel Hawthorne, si trasferì in una proprietà chiamata Brook Farm a West Roxbury, Massachusetts.

Emerson non si unì mai alla fattoria. Approvava la comune ma non voleva rinunciare alla sua privacy, preferendo essere un visitatore frequente. Anche Thoreau si rifiutò di unirsi, trovando l’intera idea poco attraente. Margaret Fuller la visitò ma sentì che la fattoria era destinata al fallimento.

La fattoria si dimostrò inizialmente così prospera che nel suo primo anno i membri dovettero costruire nuove case sulla proprietà per ospitare tutti. C’erano oltre 100 residenti.

Nel 1844, in seguito a una ristrutturazione che portò ulteriore crescita, la comune iniziò a cadere in un lento declino, un po’ perché i membri non credevano più nella missione, un po’ per problemi economici e un po’ per litigi fra i membri. Nel 1847, questo particolare esperimento trascendentalista terminò.

The Dial

Nel 1840 Emerson e Margaret Fuller fondarono The Dial (1840–44), il prototipo della “ piccola rivista ” in cui apparvero alcuni dei migliori scritti di trascendentalisti minori.

Declino

Verso la fine degli anni ’40 dell’Ottocento, molti trascendentalisti chiave avevano iniziato a dedicarsi ad altre attività e il movimento decadde. Con l’arrivo degli anni ’50 il trascendentalismo perse parte della sua influenza, soprattutto dopo la prematura scomparsa di Margaret Fuller, una delle principali trascendentaliste e co-fondatrice di The Dial. in un naufragio, nel 1850.

Lentamente il trascendentalismo svanì gradualmente dal dibattito pubblico.

Questo movimento è particolarmente importante perché affrancò la cultura americana da quella europea.

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Principi Fondamentali del Trascendentalismo

Il trascendentalismo si fondava su alcuni concetti chiave:

  • Centralità dell’individuo: L’essere umano è visto come dotato di una natura divina e di un’intuizione interiore che gli permette di conoscere la verità senza bisogno di intermediari. (La spiritualità non va spiegata: è qualcosa che senti). Essi consideravano l’individuo un essere puro e credevano che la società e le sue istituzioni corrompessero questa purezza. 
  • Idealismo, derivato dal Romanticismo, un movimento leggermente precedente. Invece di dare valore alla logica e alla conoscenza appresa come facevano molte persone istruite all’epoca, i trascendentalisti davano grande importanza all’immaginazione, all’intuizione e alla creatività. Consideravano i valori dell’Età della Ragione come troppo controllanti e limitanti e volevano riportare in auge un modo di vivere più “ideale” e piacevole.
  • Natura come rivelazione spirituale: La contemplazione della natura è considerata una via privilegiata per comprendere il divino e la propria interiorità. (Ad esempio, visitare un bel luogo è un’esperienza molto più spirituale che leggere un testo religioso). Essi vedevano la natura come sacra e divina. Credevano che fosse fondamentale per gli esseri umani avere una stretta relazione con la natura, che trovavano perfetta così com’era; gli esseri umani non avrebbero dovuto cercare di cambiarla o migliorarla.
  • Autonomia morale e sociale: Il trascendentalismo promuove l’autosufficienza e l’indipendenza, esaltando la libertà di pensiero e il rifiuto delle convenzioni sociali imposte. (La società e le sue istituzioni come la religione organizzata e la politica sono corrotte. Invece di farne parte, gli esseri umani dovrebbero sforzarsi di essere indipendenti e autosufficienti) Molto valore veniva dato al concetto di “pensare con la propria testa”. Le persone venivano considerate migliori quando erano indipendenti e potevano pensare con la propria testa: solo allora gli individui potevano unirsi e formare comunità ideali.
  • Critica alla religione organizzata: Pur riconoscendo la dimensione spirituale dell’esistenza, il movimento respingeva le istituzioni religiose dogmatiche, sostenendo una relazione diretta tra l’individuo e il divino. (La spiritualità dovrebbe provenire dall’io, non dalla religione organizzata).  

Sintetizzando, i trascendentalisti avevano tre valori principali: individualismo, idealismo e divinità della natura.

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Impatto Culturale e Letterario

L’influenza del trascendentalismo si estese ben oltre la filosofia, influenzando la letteratura, la politica e il movimento per i diritti civili.

Thoreau, con il suo Walden (1854), esemplificò la vita semplice e in armonia con la natura, mentre il suo saggio Disobbedienza civile divenne una fonte d’ispirazione per figure come Mahatma Gandhi e Martin Luther King Jr.

Il trascendentalismo contribuì anche all’emancipazione femminile, con Margaret Fuller impegnata nella difesa dei diritti delle donne attraverso l’opera Woman in the Nineteenth Century (1845).

Eredità Contemporanea

Le idee trascendentaliste hanno lasciato un’impronta duratura sul pensiero contemporaneo, in particolare nei movimenti ambientalisti, nella spiritualità laica e nella filosofia del self-help. La loro enfasi sull’autenticità individuale e sul rapporto con la natura risuona ancora oggi in molte correnti filosofiche e culturali. Anche di recente, film come L’attimo fuggente e Il re leone esprimono convinzioni trascendentaliste, come l’importanza del pensiero indipendente, dell’autosufficienza e del godersi il momento.

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Legame tra Psicologia e Trascendentalismo

Il trascendentalismo, pur essendo nato come movimento filosofico e letterario, presenta punti di contatto significativi con la psicologia, specialmente in relazione alla comprensione della mente, della coscienza e del benessere individuale. Il dialogo tra queste due discipline si sviluppa attorno a temi come l’autoconsapevolezza, la ricerca di significato e la relazione tra individuo e ambiente.

Autoconsapevolezza e Intuizione

Uno degli elementi centrali del trascendentalismo è l’idea che l’essere umano possieda un’intuizione innata, una forma di conoscenza diretta e immediata che va oltre la ragione logica. Questo concetto può essere messo in relazione con la psicologia umanistica di Carl Rogers e Abraham Maslow, che enfatizzano la crescita personale e la realizzazione di sé come processi guidati dall’autoconsapevolezza e dall’esperienza interiore.

Maslow, in particolare, con la sua teoria della gerarchia dei bisogni e del concetto di esperienza di picco, sembra richiamare l’idea trascendentalista di un’esperienza diretta e profonda del divino o dell’assoluto nella vita quotidiana.

Relazione tra Mente e Natura

La contemplazione della natura come via di introspezione e guarigione, tipica del trascendentalismo, ha riscontri nella psicologia ambientale e nella terapia basata sulla natura. Studi recenti dimostrano come l’esposizione alla natura possa migliorare il benessere psicologico, ridurre lo stress e favorire la mindfulness. Questa connessione tra natura e salute mentale rispecchia l’idea trascendentalista di una relazione armoniosa tra individuo e ambiente come fonte di equilibrio interiore.

Spiritualità e Benessere

Il trascendentalismo promuove una spiritualità individuale e non dogmatica, che può essere accostata alla psicologia transpersonale, una corrente che esplora le esperienze spirituali e mistiche come parte integrante dello sviluppo umano. Autori come William James, con il suo studio Le Varietà dell’Esperienza Religiosa, hanno analizzato come tali esperienze possano contribuire al benessere psicologico e alla trasformazione personale.

Autodeterminazione e Libertà Individuale

L’accento posto dal trascendentalismo sull’autonomia individuale e sul rifiuto delle convenzioni sociali si riflette nella psicologia positiva e nelle teorie dell’autodeterminazione, che sottolineano l’importanza di perseguire scopi personali autentici per il benessere psicologico. La libertà di pensiero e l’invito all’autenticità, promossi da Emerson e Thoreau, risuonano con il concetto di self-actualization di Rogers e Maslow.

Critiche al Trascendentalismo

Nonostante il trascendentalismo abbia esercitato un’influenza significativa sul pensiero filosofico, letterario e sociale, il movimento è stato oggetto di diverse critiche, sia da parte di contemporanei sia di pensatori successivi. Le principali obiezioni riguardano il carattere idealistico, l’individualismo estremo e l’approccio astratto alla realtà sociale.

Spiritualità sulla religione organizzata

Per la maggior parte delle persone, l’aspetto più scioccante del trascendentalismo era che promuoveva la spiritualità individuale rispetto alle chiese e ad altri aspetti della religione organizzata. La religione era la pietra angolare della vita di molte persone in quel periodo, e qualsiasi movimento che dicesse che la religione era corrotta e occorreva rinunciarvi era incomprensibile per molti.

Idealismo e Astrattezza

Una delle critiche più frequenti al trascendentalismo è il suo eccessivo idealismo. La fiducia nella capacità dell’individuo di raggiungere la verità attraverso l’intuizione è stata considerata da molti come una visione ingenua o irrealistica. Filosofi come George Santayana hanno contestato l’idea di una conoscenza diretta e immediata della verità, sostenendo che la mente umana è soggetta a errori e illusioni.

Inoltre, il trascendentalismo è stato accusato di trascurare la complessità e le contraddizioni della natura umana, offrendo una visione eccessivamente ottimistica delle potenzialità individuali.

Individualismo Estremo

Se da un lato il trascendentalismo ha promosso la libertà di pensiero e l’autenticità personale, dall’altro ha offerto poche risposte alle disuguaglianze sociali e alle dinamiche collettive.

Critici come Orestes Brownson, inizialmente vicino al movimento, sottolinearono come l’enfasi sull’individuo potesse condurre a una visione egoistica e isolazionista, incapace di affrontare le ingiustizie sociali.

Scarso Impegno Sociale

Paradossalmente, pur celebrando la libertà e l’uguaglianza, il movimento non ha sempre affrontato in modo incisivo le questioni sociali del tempo, come la povertà o le discriminazioni di genere e razza.

Visione Antiscientifica

Il trascendentalismo ha privilegiato l’intuizione e l’esperienza soggettiva rispetto all’indagine scientifica, risultando spesso in un rifiuto implicito del metodo empirico. Questa posizione è stata contestata dai sostenitori del positivismo, che consideravano la scienza come l’unico strumento affidabile per conoscere la realtà.

Ideali utopici irrealistici

Alcune persone consideravano l’attenzione dei trascendentalisti sul godersi la vita e massimizzare il loro tempo libero come irrimediabilmente ingenua e idealistica. Le critiche si concentravano spesso sulle comunità utopiche che alcuni trascendentalisti creavano per promuovere la vita in comune e l’equilibrio tra lavoro e fatica. Nathaniel Hawthorne, che soggiornò all’esperimento di vita in comune di Brook Farm, detestò così tanto la sua esperienza che scrisse un intero romanzo, The Blithedale Romance , criticando il concetto e le credenze trascendentaliste in generale.

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L'ingegneria del consenso: Edward Bernays

L’ingegneria del consenso: Edward Bernays

L’ingegneria del consenso: Edward Bernays


Edward Bernays fu considerato dal giornale Life come uno dei cento americani più influenti del ventesimo secolo. Questo articolo riguarda la biografia di Bernays ed analizza alcune delle sue teorie e tecniche relative alle Pubbliche Relazioni. Partendo dallo studio degli individui, dei gruppi sociali e delle loro interrelazioni, vengono analizzate le tecniche per la diffusione delle informazioni e la persuasione attraverso i mezzi di comunicazione di massa.

Introduzione

Sessantaquattromila ripetizioni fanno la verità
Aldous Huxley

La manipolazione è sempre esistita: nel quotidiano, nella politica, nello spettacolo. Già Platone, che viveva in una Atene attraente richiamo per esperti del discorso e della parola come i sofisti, spiegava come vi fossero due tipi di discorsi: quelli che hanno come obiettivo la conoscenza e la comunicazione autentica e quelli che invece, usati ad arte, mirano ad ottenere un beneficio esteriore. I primi rispettano l’interlocutore, la sua autonomia e libertà, i secondi cercano invece di convincerlo con trucchi e menzogne ben congegnati.

Molti secoli più tardi, nel 1599, il Papa Clemente VIII fondò la Sacra Congregatio de Propaganda Fide, allo scopo di riavvicinare uomini e donne alla Chiesa e propagare la dottrina in missioni in terre lontane. Interrotta per alcuni anni, l’iniziativa fu poi rilanciata in forma stabile da Gregorio XV, successore di Clemente VIII.

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Nell’etimologia della parola latina “propaganda” si scopre il suo significato originario: questa parola designa ciò che della fede deve essere propagato, cioè le credenze, i misteri, le leggende dei santi, i racconti dei miracoli. Non si trattava di trasmettere quindi una conoscenza obiettiva e accessibile a tutti tramite il ragionamento, ma di convertire a verità nascoste che promanano dalla fede, non dalla ragione.

Vi è infatti una differenza sostanziale fra “persuasione” e “propaganda”: la persuasione considera e valuta i benefici anche per l’interlocutore, mentre la propaganda prende in considerazione solo le finalità della fonte del messaggio.

Oggi la comunicazione non passa più solo attraverso il linguaggio, verbale e non verbale, ma attraverso dei media che utilizzano l’immagine suscitando emozioni: essi riescono a fare ciò che i sofisti facevano attraverso la sola manipolazione del linguaggio, ma raggiungendo un numero impressionante di persone nello stesso momento, agendo sulla loro quotidianità, creando nuove abitudini, formando la pubblica opinione.

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Come affermava il sociologo Vance Packard nel suo saggio I persuasori occulti, del 1957, vi sono personaggi che “studiano segretamente le nostre segrete debolezze e vergogne nell’intento di influenzare più efficacemente il nostro comportamento”. Il sociologo faceva riferimento al consulente di pubbliche relazioni, esperto di propaganda, delineato da Edward Bernays (considerato dal settimanale Life come uno dei cento americani più influenti del ventesimo secolo) per il quale però l’uso della propaganda non aveva assolutamente nulla di reprensibile ed era anzi al servizio delle “relazioni pubbliche”.

Oggi il lavoro di Bernays è stato ancor più perfezionato dagli spin doctor, che sono degli esperti nella manipolazione delle informazioni, soprattutto in campo politico.

Le interviste

 

1.   Biografia di Edward Bernays

Edward Bernays (1891-1995) era il nipote di Sigmund Freud, figlio di sua sorella Anna (1859-1955). Nell’ottobre del 1883, Anna Freud si sposò con Eli Bernays, fratello di Martha Bernays, fidanzata e futura moglie di Sigmund.

Nel 1892 Anna Freud Bernays ed il marito emigrarono in America dove Eli diventò un ricchissimo commerciante di cereali. La coppia ebbe in tutto cinque figli.

Edward crebbe dunque negli Stati Uniti. Nel 1912 si laureò in agricoltura presso la Cornell University, per seguire il padre nella sua attività commerciale. Scelse invece in un primo momento il giornalismo come sua prima occupazione, lavorando come redattore nella Rivista di Medicina Medical Review of Reviews di New York City.

Rapidamente Bernays si fece strada come pubblicista per produzioni teatrali, settore in cui lavorò fra il 1913 ed il 1917, sfruttando il nome di Freud. Lo storico di PR Scott Cutlip e lo scrittore Irwing Ross hanno ricordato che, quando qualcuno lo incontrava per la prima volta, non doveva aspettare molto prima che lo zio Sigmund entrasse nella conversazione: la relazione con Freud era costantemente al centro dei suoi pensieri e del suo lavoro di consulente. Scott Cutlip ha detto anche che Bernays era un uomo molto brillante, ma anche un tipo piuttosto “fanfarone” (braggart).

Basti del resto pensare che, pur non avendo studiato né medicina, né psicologia, si auto-definiva “psicoanalista delle imprese”, traduceva e diffondeva in America i lavori dello zio e, così facendo, si costruiva di fatto una reputazione in parallelo con quella di Sigmund Freud (che dal 1909 era famosissimo anche in America, dopo aver tenuto cinque conferenze presso la Clark University)

Oltre l’aver inizialmente promosso spettacoli teatrali, tra cui quelli di Enrico Caruso e della compagnia di ballo russa Diaghilev, Bernays ricoprì un ruolo importante anche nella situazione politica statunitense.

Infatti sono questi gli stessi anni in cui in Europa si combatteva la Grande Guerra, cominciata il 28 Luglio 1914 con il bombardamento di Belgrado, a seguito dell’ultimatum inviato pochi giorni prima dall’Austria alla Serbia. Serbo era infatti l’assassino dell’arciduca Francesco Ferdinando e di sua moglie, avvenuto a Sarajevo un mese prima.

Il conflitto, di cui l’attentato era solo un casus belli, coinvolse le maggiori potenze mondiali divise in due blocchi contrapposti, gli Imperi Centrali (Germania, Austria-Ungheria, Impero ottomano, Bulgaria) contro la Triplice Intesa (Francia, Regno Unito, Impero russo) a sostegno della Serbia, al cui schieramento si unirono, dopo una iniziale neutralità, Grecia, Romania, Portogallo, Italia nel 1915 e Stati Uniti nel 1917.

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Come detto, gli Stati Uniti non partecipavano ancora alla guerra. Essi, fin dall’inizio del secolo, avevano assunto il ruolo di grande potenza industriale, tanto che nel corso del primo decennio avevano incrementato la produzione del 76% ed erano anche tra i maggiori esportatori di prodotti alimentari (erano leader in particolare nelle esportazioni di cereali e carne bovina).

Nei primi tre anni di guerra il volume delle esportazioni americane in Europa si era quadruplicato, nonostante il commercio con la Germania fosse azzerato dal blocco inglese. L’annuncio tedesco della “guerra sottomarina totale”, che mirava ad affondare qualunque nave fosse entrata in contatto con la Gran Bretagna, mise in allerta gli Stati Uniti in quanto avrebbe leso i loro enormi interessi commerciali, e pertanto il governo americano decise di entrare in guerra a fianco delle potenze dell’Intesa il 6 Aprile 1917, anche se l’opinione pubblica era nettamente contraria.

Nel 1917, il Presidente americano Woodrow Wilson chiamò l’ex giornalista George Creel e lo mise a capo del “Committee on Public Information” ( o Creel Committee), al quale parteciparono, oltre ai ministri dell’estero, della guerra e della marina, anche intellettuali, pubblicitari e giornalisti, oltre che consulenti, fra cui Bernays. Il Creel Committee era un gigantesco laboratorio di propaganda bellica, che utilizzava per i suoi scopi tutti i mezzi di diffusione allora disponibili (stampa, film, poster, caricature, comizi, radio, telegrafo).

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Ogni giorno venivano narrate storie di torture, violenze, uccisioni, per provocare una reazione di “vendetta” e per salvaguardare i diritti umani e la democrazia. Ed infatti l’America entrò in guerra con lo slogan: “Fare il Mondo Sicuro per la Democrazia”.

Nel ricordo che Bernays fa del Comitato nel libro Propaganda, egli ricorda che esso mobilitò l’opinione pubblica attraverso tutti gli strumenti allora possibili (visivi, grafici e sonori) per “indurre i cittadini a sostenere lo sforzo della nazione” ottenendo il contributo di eminenti personalità di ogni ambiente, la cui parola “era vangelo per centinaia, migliaia e perfino centinaia di migliaia di seguaci”.

In quella campagna, dice ancora Bernays, furono utilizzate le molle classiche per suscitare emozioni, reazioni collettive contro le atrocità descritte e illustrate, sollevando l’indignazione delle masse contro il terr ore e la tirannia del nemico.

Come giustamente osservò Bernays, il grande successo della propaganda durante la prima guerra mondiale aveva aperto gli occhi a molti, in diversi settori dell’economia e delle istituzioni, sulle grandi potenzialità delle nuove tecniche di “regimenting the public mind”.

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Nel 1919 Bernays era un uomo di successo, con molti appoggi politici. Dopo aver lavorato per l’American Peace Commission a Parigi, Bernays tornò a New York dove decise di applicare i metodi del Creel Committee al mondo civile e commerciale. Sua socia nell’impresa fu la giornalista Doris E. Fleischmann, con la quale si sposò nel 1922. Nel 1923 Bernays cominciò anche ad insegnare Pubbliche Relazioni presso la New York University e si interessò della campagna politica del futuro presidente, Calvin Coolidge, nel 1924.

Pubblicò tre libri e numerosi saggi sulla propaganda e l’ingegneria del consenso (vedi oltre) e continuò la sua brillante carriera fino a tarda età. Morì nel Marzo del 1995, a 104 anni.

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2. Opere

Le idee di Bernays traggono ispirazione da diversi libri, fra cui quelli di Freud e quelli di Gustave Le Bon sulle folle. In quegli anni però uscì un altro libro che influenzò molto Bernays: Public Opinion di Walter Lippman (1922) che può essere considerata la prima influente opera di sociologia del giornalismo.

L’anno successivo (1923) Bernays pubblicò il libro “Crystallizing Public Opinion”, in cui delineava le sue prime strategie di intervento nelle Pubbliche Relazioni. Il libro si ispirava direttamente al lavoro di Lippman in Public Opinion, ma se Lippman denunciava i rischi della manipolazione dell’ambiente “mentale” della società da parte di chi deteneva il controllo dei mezzi di comunicazione, attraverso un uso consapevole di simboli e stereotipi, Bernays intendeva deliberatamente mettere queste strategie al servizio del consulente di PR.

Le strategie comunicative individuate dal giornalista venivano spregiudicatamente adattate al mondo degli affari: la battaglia da vincere era quella del mercato e la conoscenza delle tecniche propagandistiche veniva messa al servizio di aziende private ed interessi commerciali.

Stesso paradosso è presente nell’uso della “talking cure”: per Freud era un mezzo per svelare ai pazienti le loro pulsioni inconsce e le motivazioni che si nascondevano nei sogni o nei lapsus linguae, nella convinzione che rendere consci questi aspetti dell’inconscio avrebbe portato le persone a condurre una vita più sana. Bernays, al contrario, utilizzava le tecniche psicologiche e psicoanalitiche per studiare le motivazioni delle persone, non per liberarle dalla sofferenza, ma come deliberata strategia volta a plasmare le loro menti.

Il primo libro di Bernays riscosse tuttavia l’apprezzamento unanime delle riviste di marketing, che vi scorsero una efficace trattazione delle tecniche di “vendita” delle idee.

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Bernays andava oltre Lippman, che si fermava all’analisi della sola stampa, intravedendo pionieristicamente potenzialità ancora maggiori nella radio, usata a fini commerciali. Mentre i regimi totalitari usavano la radio come “tamburo tribale”, Bernays pensava a programmi radiofonici di quiz, programmi musicali a richiesta, programmi di intrattenimento, per usare commercialmente il mezzo.

Nel 1928 pubblicò “Propaganda”, un libro sintetico ma perfino straordinariamente eloquente sulle tecniche di manipolazione delle masse e sul governo invisibile. In esso vi si trovano tutte le tecniche di Bernays, non più semplicemente esposte nelle loro dinamiche e nei loro effetti, ma giustificandole alla luce di una morale sociale e di un più generale tentativo teorico di legittimazione del ruolo sociale del consulente di PR. Scrive infatti su Propaganda che:

“La manipolazione consapevole e intelligente delle abitudini e delle idee delle masse è un aspetto importante del funzionamento di una società democratica”.

Nel 1965 uscì una sua autobiografia, “Biography of an Idea: Memoirs of Public Relations Counsel Edward L. Bernays”. Non stupisca l’aver messo il proprio nome nel titolo: Bernays conosceva l’importanza di queste auto-promozioni e, invecchiando, cercava disperatamente il suo posto nella storia, per emulare il famoso zio. Con questo libro creò le basi per essere ricordato come l’inventore della sua professione.


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3. Democrazia e Governo Invisibile

L’analisi di Bernays parte dalla considerazione delle caratteristiche delle masse messe a fuoco dallo zio Sigmund in Psicologia delle masse ed analisi dell’Io  (1921, a sua volta ispiratosi alla Psicologia delle Folle di Gustave Le Bon, 1895).

Dice Freud che all’interno di una massa e per influsso di questa, il singolo subisce una profonda modificazione della propria attività psichica: la sua affettività viene straordinariamente esaltata, la sua capacità intellettuale si riduce considerevolmente, ed entrambi i processi tendono manifestamente a uguagliarlo agli altri individui della massa.

Gli individui che fanno parte di una massa perdono dunque autonomia ed equilibrio, ma acquisiscono la sensazione di essere forti, in quanto parte di un tutto organizzato, che rassicura e protegge.

La massa è mutevole, impulsiva, irritabile ed, essendo governata interamente dall’inconscio, non tollera alcun indugio fra il desiderio e la realizzazione di quel desiderio: il suo anelito però non dura mai a lungo, perché la massa è incapace di volontà duratura. Del resto, niente di tutto quello che fa la massa è premeditato.

Occorre contestualizzare questi argomenti: si era infatti negli anni Venti, periodo di grave crisi economica, in cui stavano nascendo le lotte operaie organizzate, le grandi ideologie, le dittature. In Austria si assisteva alla disgregazione dell’Impero asburgico, avvenuta alla fine del 1918; in Italia , dopo la nascita nel 1919 del Partito Popolare Italiano, nascevano il Partito Nazionale Fascista e il Partito Comunista Italiano nel 1921, mentre in Germania Adolf Hitler diventa leader del Partito nazionalsocialista tedesco, l’Nsdap.

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Ciò che principalmente si temeva era dunque il caos sociale. Bernays sosteneva la necessità di una manipolazione “scientifica” dell’opinione pubblica, per controllare il caos sociale e i conflitti della società. Questo per Bernays era assolutamente un bene in quanto solo in questo modo larga parte della popolazione avrebbe potuto “collaborare e cooperare” in modo da rendere possibile il funzionamento ordinato della società.

Ispirandosi a Freud, Bernays descriveva il pubblico come “un gregge che ha bisogno di essere guidato” e fu sempre fedele al principio che bisognava controllare le masse senza che queste lo sapessero. Infatti sosteneva:

“in quasi tutte le azioni della nostra vita, sia in ambito politico, o negli affari o nella nostra condotta sociale, o nel nostro pensiero morale, siamo dominati da un relativamente piccolo numero di persone che comprendono i processi mentali e i modelli di comportamento delle masse. Sono loro che tirano i fili che controllano la mente delle persone”.

Il vero potere dunque non è nei parlamenti o nel popolo, a cui si assegna formalmente la sovranità, ma in un ristretto gruppo di persone che dominano effettivamente, realmente, la società.

Come scriveva Lippman (Public Opinion, 1922):

“l’ambiente reale, preso nel suo insieme, è troppo grande, troppo complesso e troppo fuggevole per consentire una conoscenza diretta. Non siamo attrezzati per affrontare tante sottigliezze, tante varietà, tante mutazioni e combinazioni” ed inoltre “in qualsiasi società che non sia talmente assorbita nei suoi interessi, né tanto piccola che tutti siano in grado di sapere tutto ciò che vi accade, le idee si riferiscono a fatti che sono fuori del campo visuale dell’individuo e che per di più sono difficili da comprendere”.

Dovendo operare in questo ambiente, gli individui sono dunque costretti a rappresentarselo per mezzo di immagini più semplici, i modelli di realtà.

Bernays riprende tutti questi concetti nel libro Propaganda, aggiungendo che, in uno Stato democratico come l’America, è pura teoria che ogni cittadino possa votare chi desidera. Infatti, se tutti i cittadini (anche i meno acculturati, che erano la maggioranza) avessero dovuto studiare tutte le informazioni di ordine economico, politico, morale, che entrano in gioco quando si affrontava ogni minimo argomento, non si sarebbe mai arrivati a nessuna conclusione.

C’era poi la paura della massa organizzata. Con la Rivoluzione Industriale ottocentesca, basata sulla macchina a vapore, la stampa e l’alfabetizzazione di massa (il “tridente” della rivoluzione industriale) dice Bernays, si era di fatto strappato il potere ai sovrani e all’aristocrazia per darlo alla borghesia, che lo aveva ricevuto in retaggio.

Questo processo era stato rafforzato dal suffragio universale, al punto che la borghesia cominciava – dice ancora Bernays – a temere il popolo minuto, le masse che si ripromettevano di giungere al potere. Occorreva dunque profilare per tempo una reazione, plasmando l’opinione delle masse, in modo da convincerle ad orientare la forza acquisita nella direzione voluta.

Questo avrebbe potuto accadere tramite la propaganda, un mezzo attraverso il quale la minoranza poteva influenzare la maggioranza, in funzione dei suoi interessi. In questo modo, osserva Bernays, la forza da poco acquisita dalle masse, poteva essere “spinta nella direzione voluta”.

In una democrazia organizzata dunque, i responsabili della manipolazione delle masse costituiscono “un vero e proprio governo invisibile che regge le sorti del Paese” e che utilizza la propaganda (cui Bernays non assegnava evidentemente il connotato negativo che oggi noi gli attribuiamo) e le pubbliche relazioni, per “dare forma al caos”.

Queste persone hanno lo scopo di “inventare nuovi modi per organizzare il mondo e guidarlo”: loro dovere è passare al vaglio tutte le informazioni in loro possesso, per individuare il problema principale e ricondurre le scelte a proporzioni realistiche.

Questa struttura secondo Bernays doveva rimanere invisibile, legandosi però attraverso vari legami sociali, a innumerevoli gruppi e associazioni. In questo modo si potevano ottenere gli scopi desiderati, pur mantenendo democratica la forma dello stato. L’organo esecutivo di questo governo invisibile era la propaganda: dirigenti, ugualmente invisibili, avevano il compito di controllare il destino di milioni di esseri umani.

Certo, nota lo stesso Bernays, si possono criticare certi fenomeni che derivano dall’uso di queste strategie, in particolare la manipolazione delle informazioni, l’esaltazione dell’individualismo e tutto il battage pubblicitario sui personaggi pubblici o i prodotti commerciali, ma in lui prevale il realismo:

“Anche se talvolta si fa un cattivo uso degli strumenti che consentono di organizzare e polarizzare l’opinione pubblica, queste attività sono però necessarie per una vita bene ordinata”.

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4. I mezzi di comunicazione di massa

La propaganda di Bernays utilizza in modo sinergico i media, i leader e gli opinion maker, per creare il consenso verso le autorità del Governo. Quando fu adottata la Costituzione americana, spiega Bernays, l’unità di base della costituzione sociale era la comunità del villaggio, che produceva la maggior parte dei beni che le servivano e attingeva le sue idee e opinioni collettive tramite i contatti e gli scambi personali.

Ora però era divenuto finalmente possibile trasmettere le idee in tempo reale, indipendentemente dalle distanze e dal numero di persone cui ci si voleva rivolgere, per cui occorreva indirizzarsi a nuove forme di aggregazione, oltre alla primitiva integrazione geografica. Persone che condividevano delle idee potevano ad esempio unirsi e mobilitarsi per un’azione collettiva, anche a migliaia di chilometri di distanza le une dalle altre.

Dice Bernays:

“La libertà di parola e la stampa libera, suo naturale corollario in democrazia, hanno di fatto ampliato la Carta dei Diritti, fra i quali c’è anche il diritto di persuasione. Chiunque dunque, attraverso questi mezzi di comunicazione ha di fatto la possibilità di influenzare gli atteggiamenti e le azioni dei suoi concittadini. In particolare, negli Stati Uniti, la grande espansione dei mezzi di comunicazione di massa ha fatto si che ogni residente sia costantemente esposto agli effetti di una vasta rete di comunicazioni, che giungono in ogni angolo del Paese, non importa quanto sia remoto o isolato. Molte parole martellano dunque continuamente gli occhi e le orecchie di ogni americano. Gli Stati Uniti sono divenuti una piccola stanza in cui un piccolo bisbiglio può essere ingrandito migliaia di volte. A questo punto diventa una questione di primaria importanza imparare a gestire questo sistema di amplificazione per le forze interessate”.

Mezzi di comunicazione di massa erano per Bernays i quotidiani, le riviste, le stazioni radio, le case di produzione cinematografica, le case editrici, oltre a strumenti come cartelloni, volantini, lettere di pubblicità spedita per posta.

“Dobbiamo riconoscere l’importanza dei moderni mezzi di comunicazione non solo come una rete altamente organizzata, ma come una forza potente per il bene sociale o anche per il male. Siamo noi a determinare se questa rete può essere impiegata nella sua massima estensione per fini sociali”,

dice Bernays.

Ad usare i mezzi di comunicazione di massa dovevano essere i leaders, i quali si facevano portavoce di punti di vista diversi, come quelli di grandi gruppi industriali o di unità governative.

“Questi leader, con l’aiuto di tecnici che si sono specializzati nell’utilizzo dei canali di comunicazione, sono oggi in grado di realizzare consapevolmente e scientificamente ciò che abbiamo chiamato L’ingegneria del consenso”.

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Tra gli strumenti di comunicazione di massa degli anni Venti, Bernays aveva una particolare simpatia per la radio, che durante la grande guerra si era dimostrata uno strumento indispensabile per il coordinamento delle azioni militari. Quando finì la guerra la radio si rivelò come un possibile grande affare, con le stazioni radio commerciali.

E poiché, come aveva sottolineato Bernays “non c’è una sostanziale differenza fra vendere un prodotto e vendere un’idea”, il mondo politico si accorse presto che la radio poteva essere uno strumento utile non solo per la pubblicità, ma anche per la diffusione di idee e la manipolazione delle masse.

Negli USA il presidente Franklin Delano Roosevelt abituò i cittadini ai suoi firesite chats, i discorsi del caminetto, in cui il presidente si rivolgeva direttamente ai cittadini, parlando della difficoltà del periodo della depressione e di quello che lui e la sua amministrazione facevano per risolverle.

Un uso così personale della radio permise a Roosevelt di conquistare la fiducia popolare e di infondere nel popolo la fiducia nelle istituzioni, anche in momenti di grande crisi.

Ma una nuova forma di comunicazione si stava facendo largo: il cinema, di cui la propaganda si servì largamente.

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5. L’ingegneria del consenso

La “propaganda moderna” di Bernays è una pratica che consiste nel creare le situazioni e simultaneamente delle immagini nella mente di milioni di persone.

“Lo scopo è inquadrare l’opinione pubblica così come un esercito inquadra i suoi soldati” dice l’inventore delle PR.

Del resto, non è possibile non accorgersi che nella moderna organizzazione sociale ogni progetto importante deve essere approvato dall’opinione pubblica. Una volta coloro che governavano erano delle guide, dei capi, orientavano il corso della storia facendo ciò che avevano progettato, spiega Bernays, ma:

” Oggi, se non c’è il consenso delle masse, quei personaggi non potrebbero più esercitare il loro potere, semplicemente in virtù della loro posizione”.

Il Consulente di PR è dunque:

“colui che, servendosi dei mezzi della comunicazioni di massa e delle associazioni presenti nella società, si incarica di far conoscere una determinata idea al grande pubblico”.

Questa figura professionale studia i comportamenti, le dottrine, i sistemi, le maniere, per ottenere il sostegno popolare, conosce i prodotti commerciali, i servizi pubblici, le grandi corporazioni e le associazioni.

E’ un po’ come un avvocato, semplifica Bernays, solo che questo si concentra sugli aspetti giuridici dell’azione del proprio assistito, mentre il consulente di PR lavora sui punti di contatto fra attività del cliente e pubblico. Studia i gruppi che il suo cliente vuole raggiungere, individua i leader che possono facilitare l’approccio.

Si tratta di gruppi sociali, economici o territoriali, classi di età, formazioni politiche o religiose, comunità etniche, linguistiche o culturali: queste sono le categorie per cui, per conto del cliente, si rivolge al grande pubblico. Il suo mestiere è quello di sedurre le masse, di destare il loro interesse.

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Bernays arriva a dire che l’’ingegneria del consenso è:

“l’essenza stessa del processo democratico, avendo la libertà di persuadere e suggerire. La libertà di parola, di stampa, di petizione, di assemblea, le libertà che rendono la progettazione del consenso possibile, sono tutte previste dalla Costituzione degli Stati Uniti”.

E ancora:

Quando ci sono decisioni urgenti da prendere,  un leader spesso non può attendere che anche il suo popolo arrivi alla comprensione generale delle cose. In alcuni casi, i leader democratici devono fare la loro parte nel condurre il pubblico attraverso l’ingegneria del consenso per perseguire obiettivi socialmente costruttivi e valori.

Questo ruolo impone naturalmente loro l’obbligo di utilizzare il processo dell’istruzione, come pure altre tecniche disponibili, per realizzare una comprensione quanto più completa possibile. In nessun caso l’ingegneria del consenso può sostituire o o rimuovere le funzioni educative, sia formali che informali. L’ingegneria del consenso è spesso un supplemento al processo educativo.

Se in un Paese dovessero esservi un giorno degli standard di istruzione più elevati,  generando un maggiore livello di conoscenza e comprensione, questo approccio manterrebbe ancora il suo valore, secondo Bernays, dal momento che:

“Anche in una società con uno standard educativo perfetto, il progresso non potrà essere ottenuto in ogni campo. Ci sarebbero sempre ritardi e punti di debolezza, e per questo l’ingegneria del consenso sarebbe ancora essenziale. L’ingegneria del consenso sarà dunque sempre necessaria in aggiunta al processo educativo”.

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6. La creazione di una campagna di PR

Bernays ha introdotto e codificato l’uso delle ricerche sociali nella fase di ascolto o di analisi del contesto, prima della stesura del piano di comunicazione, non trascurando quindi la soddisfazione dell’interlocutore. E’ stato inoltre il primo professionista che ha individuato e studiato gli opinion leaders, quali amplificatori/moltiplicatori dei messaggi nei confronti dell’opinione pubblica.

Le idee dell’opinione pubblica, ammoniva Bernays, non devono essere attaccate frontalmente, ma è importante trovare un comune denominatore fra gli interessi del venditore e quelli degli acquirenti.

Bernays capì che per rendere credibile un’idea o vendere un prodotto, doveva esserci una «terza parte indipendente» che se ne rendesse garante. Creò quindi numerosissimi Enti e Organizzazioni “indipendenti”, che sfornavano studi «scientifici» e comunicati stampa, che venivano così a mescolarsi e a sovrapporsi con quelli emessi da Istituzioni veramente scientifiche e indipendenti.

Così come l’ingegnere civile deve analizzare ogni elemento della situazione prima di costruire un ponte, così il consulente di PR, per ottenere un’utile finalità sociale, deve operare da piani di azione che abbiano solide basi. Supponiamo che si sia impegnato in un compito specifico. I suoi piani devono basarsi su quattro presupposti:

1. Calcolo delle risorse, sia umane sia fisiche, vale a dire la manodopera, il denaro, e il tempo disponibile per lo scopo;

2. Conoscenza approfondita della materia;

3. Determinazione degli obiettivi, soggetti a possibili cambiamenti dopo la ricerca; In particolare, ciò che deve essere compiuto, con il quale e attraverso il quale;

4. La ricerca del pubblico da informare, perché e come agire, sia a livello individuale, sia come gruppo.

Solo dopo questo lavoro preliminare di base sarà possibile capire se gli obiettivi sono raggiungibili. Solo allora il consulente di PR potrà utilizzare le sue risorse di  manodopera, denaro e tempo, ed i mezzi di comunicazione disponibili. La strategia, l’organizzazione, e le attività saranno orientate in base alla realtà della situazione.

E’ importante conoscere le motivazioni consce e inconsce del pensiero pubblico, ed anche le azioni, le parole e le immagini che le sostengono. Tutto questo rivelerà la consapevolezza pubblica, le idee più o meno visibili presenti nella mente del pubblico.

Quando il lavoro preliminare è stato fatto, sarà possibile procedere alla pianificazione vera e propria. Dai sondaggi di opinione emergeranno i temi principali della strategia.  Questi temi contengono le idee che devono essere trasmesse, mostrano i canali più adeguati per raggiungere il pubblico e tutti i mezzi di comunicazione da utilizzare.

L’importante, ricorda Bernays, non è avere articoli in un giornale o ottenere un maggiore tempo alla radio o organizzare un pezzo per il cinegiornale, ma piuttosto:

“mettere in moto un’ampia attività, il successo della quale dipende dall’interconnessione di tutte le fasi e gli elementi della strategia proposta, attraverso tattiche che devono essere realizzate nel loro momento di massima efficacia. Un’azione rinviata di un giorno potrebbe perdere la sua efficacia”.

Il consulente di PR dovrà dare enfasi alla parola, scritta e parlata, orientata verso i media e progettata per il pubblico che sta affrontando.

“Deve essere sicuro che il materiale sia adatto per il suo pubblico. Deve preparare copie scritte in un linguaggio semplice e frasi di sedici parole adatte al livello di scolarizzazione del suo pubblico. Alcune copie saranno finalizzate alla comprensione delle persone che hanno avuto diciassette anni di scolarizzazione. Egli deve familiarizzare con tutti i media e sapere come fornire loro un materiale adatto in quantità e qualità”.

In primo luogo, tuttavia, il consulente di PR deve saper creare notizie.

“La notizia non è una cosa inanimata. E’ l’evidenza dei fatti che fa la notizia, e le notizie a loro volta riecheggiano gli atteggiamenti e le azioni delle persone. Un buon criterio per capire se qualcosa è o non è una notizia è capire se il caso esce dalla routine. Lo sviluppo di eventi e circostanze che non sono di routine è una delle funzioni di base del tecnico del consenso. Alcuni eventi programmati possono essere inviati all’attenzione dei sistemi di comunicazione  in modo da far nascere delle idee anche in chi non è stato direttamente testimone degli eventi”.

L’evento gestito con fantasia può competere con successo con altri eventi, per ricevere attenzione.

“Gli eventi interessanti, che coinvolgono persone, di solito non accadono per caso. Sono previsti deliberatamente per raggiungere uno scopo, per influenzare le nostre idee ed azioni. Gli eventi possono essere programmati anche con effetto a catena. Sfruttando le energie dei leader dei gruppi, l’ingegnere del consenso può stimolarli a prendere iniziative. Si organizzeranno così eventi aggiuntivi, specializzati, collaterali, che serviranno tutti ad enfatizzare ulteriormente il tema di fondo”. Se i piani sono ben formulati e se ne fa un uso corretto, le idee trasmesse dalle parole verranno assimilate dalle persone.

Quando il pubblico è convinto della solidità di un’idea, procederà a metterla in pratica:

“Le persone trasformano le idee nelle azioni suggerite dall’idea stessa, sia essa ideologica, politica o sociale.  Si può adottare una filosofia che sottolinea la tolleranza razziale e religiosa; si può votare un New Deal in ufficio, oppure si può organizzare l’astensione all’acquisto per un gruppo di consumatori. Ma tali risultati vengono fatti accadere. In una democrazia che può essere compiuta grazie alla ingegneria del consenso”.

7. Campagne di persuasione di maggiore successo

Clienti di Bernays furono gruppi molto potenti, come Procter & Gamble, CBS, the United Fruit Company, the American Tobacco Company, General Electric, Dodge Motors, il Public Health Service, il presidente Americano Coolidge (ed altri) e, pare, anche la CIA.

– bacon (pancetta) per la Beechnut Packing

Per promuovere le vendite di questo taglio di carne, Bernays condusse una ricerca, intervistando un campione di medici per chiedere loro che tipo di prima colazione ritenessero migliore per la salute: meglio una prima colazione leggera o sostanziosa?

La maggior parte dei medici riferì che riteneva più indicata una prima colazione sostanziosa. Queste conclusioni furono inviate a 5.000 medici, insieme ad una pubblicità che suggeriva di mangiare eggs and bacon (uova e pancetta) per rendere la colazione più sostanziosa. La moda prese subito piede, tanto che la tipica colazione del mattino degli americani è ancor oggi eggs and bacon.

– American Tobacco company

La più famosa campagna di Bernays rimane comunque quella elaborata per l’American Tobacco Company Quando gli fu offerto l’incarico di trovare un modo per fare iniziare le donne a fumare, Bernays individuò nella sigaretta un simbolo fallico e pensò che le donne si sarebbero messe volentieri a fumare se avessero visto nella sigaretta un mezzo per emanciparsi simbolicamente dalla dominazione maschile.

A metà degli anni Venti, alle donne era vietato fumare in pubblico: consultandosi con lo psicoanalista A. A. Brill, discepolo americano di Freud, Bernays intuì che ciò che più di ogni altra cosa le donne di quel tempo desideravano era comportarsi pubblicamente allo stesso modo degli uomini. Così, durante la parata di Pasqua di New York del 1929, la stampa fu avvertita che qualcosa di straordinario sarebbe accaduto.

Effettivamente, al segnale convenuto, una ventina di ragazze, selezionate da Bernays (dovevano essere eleganti, carine, possibilmente legate a movimenti femministi), che sfilavano insieme alle suffragette, accesero delle sigarette, che furono chiamate “freedom torches”, torce di libertà. Naturalmente non mancava una nutrita schiera di fotografi, assoldati per immortalare l’”evento”. Fu un fatto di cui si parlò in tutto il mondo e, da allora, il fumo fra le donne divenne un segno di emancipazione.

L’industria del tabacco aveva invece conseguito il suo obiettivo. Sulla base di una esigenza produttiva (vendita di sigarette) si era creato un bisogno (essere come gli uomini), che passa attraverso la promessa della soddisfazione di un desiderio (fumare), nato in nome della libertà individuale.
Va detto che il fumo, più che una libertà, crea una dipendenza.

– Aluminium Company of America

Per la Aluminum Company of America (Alcoa), convinse invece il pubblico americano che la fluoridificazione dell’acqua era utile per la salute. Questo obiettivo fu raggiunto grazie alla collaborazione con l’American Dental Association.

– United Fruit Company

La più estrema propaganda politica di Bernays fu invece condotta per conto della United Fruit Company (oggi Chiquita Brands International) situata negli Stati Uniti, che controllava gran parte del terreno agricolo del Guatemala.

Il governo americano aveva allora interesse a rimuovere il presidente democraticamente eletto (1951) Jacobo Arbenz Guzman (Operation PBSUCCESS). Arbenz Guzmán infatti aveva tentato di nazionalizzare la United Fruit Company (UFC), offrendo alla compagnia il compenso di 600.000 dollari, il valore dichiarato dalla Compagnia: molto inferiore alla realtà, per evitare la tassazione.

Nel 1952 il Partito Comunista dei Lavoratori Guatemalteco venne legalizzato; la United Fruit Company e le banche che la sostenevano, collaborarono dunque con la CIA per persuadere l’amministrazione statunitense che Arbenz era un comunista e che stava aprendo la strada a una presa del potere da parte dei comunisti.

L’amministrazione americana ordinò dunque alla CIA di sponsorizzare un colpo di stato che rovesciasse il governo guatemalteco, costringendo il presidente eletto democraticamente, Arbenz Guzmán, alla fuga. Bernays si occupò personalmente di far circolare delle informazioni false su Arbenz nei maggiori giornali americani. Per il suo lavoro alla United Fruit, sembra sia stato pagato 100.000 dollari all’anno, un guadagno enorme negli anni cinquanta.

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8. Propaganda nelle dittature

Se nelle democrazie la propaganda viene camuffata in vario modo e sembra salva la possibilità di mantenere una dialettica sociale e politica, spesso solo di facciata, è nel contesto dittatoriale che la propaganda trova il suo brodo di coltura.

Nelle dittature la propaganda attraverso i mezzi di comunicazione di massa fu presto usata come strumento di indottrinamento e di manipolazione.

Nell’Italia fascista si fece grande uso della propaganda, attraverso l’utilizzo dei mezzi di comunicazione di massa. Innanzitutto si procedette alla fascistizzazione della stampa, attuata in modo graduale ma intransigente e curata direttamente da Mussolini: i direttori delle testate non aderenti al regime furono allontanati e sostituiti; la Stefani, l’agenzia di stampa nazionale, doveva fornire ai quotidiani le “veline” delle notizie in base alle indicazioni dell’Ufficio Stampa e propaganda, divenuto nel 1937 ministero della Cultura popolare, e così i giornali divennero opuscoli propagandistici nelle mani della dittatura, che distorcendo i reali avvenimenti di cronaca presentava sempre le proprie scelte politiche come le uniche possibili e giuste.

In secondo luogo si operò prima una stretta censura sulla produzione cinematografica, e solo successivamente si operò per la statalizzazione dell’Istituto Luce, che deteneva il monopolio dell’informazione cinematografica. Infine, il regime fascista rese anche le trasmissioni radiofoniche monopolio dell’agenzia di stato, l’Eiar.

Non bisogna nemmeno dimenticare le adunate fasciste nelle piazze e la ripetizione ossessiva di motti e slogan corti e facilmente comprensibili, come per esempio i celebri “Vincere e vinceremo”, “Il Duce ha sempre ragione”, “Credere, obbedire, combattere”, e così via.

Anche in Germania la propaganda, orchestrata da Paul Joseph Goebbels, si servì di tutti i moderni mezzi di comunicazione di massa, cioè radio, cinema, fotografia, tabelloni, stampe murali. Inoltre grande importanza ricoprirono le immense adunate e le parate militari: esse, attraverso le musiche guerresche e la voce ipnotica di del Fuhrer erano mirate ad esaltare le masse; Goebbels sapeva incanalare le emozioni delle folle e trasformarle, a seconda dei progetti del potere, in masse sottomesse agli ordini e alla volontà del Fuhrer, oppure in rabbia e risentimento verso minoranze esposte e attaccabili, come per esempio gli ebrei.

Inoltre, Goebbels aveva compreso che l’incisività degli slogan e la loro ripetizione cadenzata affascinava, convinceva ed esaltava. Tutte queste tecniche utilizzate da Goebbels erano però state attinte da un sapere codificato su come mescolare la realtà e la finzione, su quali mezzi utilizzare per diffondere false informazioni, notizie allarmanti, narrazioni in grado di generare paura, commuovere o convincere: infatti tutto questo era scritto nel libro Propaganda di Edward Bernays, che scrisse di essere rimasto “scioccato” nello scoprire che il ministro tedesco della propaganda avesse i suoi libri nella sua biblioteca personale, e che queste teorie servirono ad organizzare la nascita del Terzo Reich e la persecuzione degli ebrei.


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La propaganda fu utilizzata in modi simili anche nel regime comunista sovietico, che addirittura nel 1934, con il XVII congresso del partito bolscevico, sancì l’inizio della stagione del culto della personalità di Stalin. Una reazione contro tali stili di propaganda si trova nel romanzo “Animal Farm” di George Orwell, romanzo allegoria del fallimento della rivoluzione in generale e in particolare della rivoluzione russa.

Nella storia, è interessante notare come la propaganda, che utilizza in larga parte slogan, non si limiti a manipolare le informazioni riguardanti l’attualità e i progetti futuri, ma che arrivi a correggere addirittura la storia secondo gli interessi del regime creato dai maiali, tanto da arrivare a riscrivere o rovesciare completamente la verità di alcuni episodi passati: un esempio su tutti è l’evoluzione della percezione del personaggio di Snowball nell’arco dell’intero romanzo.

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Conclusione

Il termine “propaganda” oggi ha assunto connotazioni piuttosto negative, essendo considerata non uno strumento lecito di una democrazia compiuta ma piuttosto un’ “arma di disinformazione di massa”, in quanto veicola messaggi manipolati, che alterano la realtà e costruiscono verità alternative, attraverso il trasferimento di informazioni false.

E’ per questo che, per contrastare la propaganda, in uno stato democratico è assolutamente necessaria l’indipendenza dei giornalisti, la possibilità di fare inchieste e di raccontare la realtà.

In mancanza di questo contro-peso, il potere si servirà dei mezzi di comunicazione di massa per alimentare percezioni e convinzioni nell’opinione pubblica che andranno sempre nella direzione desiderata dalla classe dirigente.

Il persuasore occulto, il consulente di PR, non diversamente da quanto raccomandato da Machiavelli ne il Principe, rimane “un gran simulatore e dissimulatore”; ma del resto “gli uomini sono tanto ingenui, e talmente legati alle circostanze presenti, che colui che inganna troverà sempre chi si lascia ingannare”.

In una democrazia compiuta, contrariamente a come la pensava Bernays, i cittadini non devono essere considerati dei consumatori, il consumo non deve prendere il posto della cittadinanza e il mercato il posto della polis.

Emanuele La Gatta

LibriAutori:
Dr. Giuliana Proietti - Dr. Walter La Gatta

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

Bernays L. Edward, The Engineering of Consent, The ANNALS of the American Academy of Political and Social Science March 1947 250: 113-120
BBC Century of the self, documentario in 4 parti, You Tube
Bernays L. Edward, Propaganda, Ed. Fausto Lupetti, 2008
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Canziani Roberto, Comunicare spettacolo, Tecniche e strategie per l’ufficio stampa Franco Angeli, 2008
De Bernardi Guarracino, I saperi della storia, Bruno Mondadori, 2006
Demichelis Lelio, Bio-tecnica, la società nella sua forma tecnica, Liguori 2008
Freud Sigmund Psicologia delle masse e analisi dell’Io, Bollati Boringhieri, 2005
Gili Guido, il problema della manipolazione. Peccato originale dei media? Franco Angeli, 2001
Machiavelli, il Principe, 2006
Oliverio Ferraris Anna, Chi manipola la tua mente? Vecchi e nuovi persuasori, riconoscerli per difendersi, Giunti 2010
Orwell George, Animal Farm, Secker e Warburg, 1945
Vecchiato Giampietro, Relazioni pubbliche: l’etica e le nuove aree professionali, Franco Angeli, 2006

Immagine:

Wikimedia

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