Freud, il piccolo Hans e l'analisi infantile

Freud, il piccolo Hans e l’analisi infantile

FREUD, IL PICCOLO HANS E L’ANALISI INFANTILE

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Il caso del piccolo Hans rappresenta uno dei contributi più noti e discussi di Sigmund Freud allo studio della psicoanalisi infantile. Pubblicato nel 1909 con il titolo originale “Analisi della fobia di un bambino di cinque anni”, questo lavoro illustra alcuni dei concetti fondamentali della teoria freudiana dello sviluppo psicosessuale e introduce alcune delle prime riflessioni sulla psicoterapia con i bambini.

La terapia, infatti, non si svolse secondo i canoni della psicoanalisi classica in setting individuale, ma costituì un primo esempio di psicoanalisi indiretta o terapia mediata dai genitori, un approccio che avrebbe influenzato molte delle pratiche successive nella psicoterapia dell’età evolutiva.

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Contesto e modalità dell’analisi

Il caso di Hans fu il secondo grande studio clinico pubblicato da Freud dopo Gli studi sull’isteria e dopo il celebre caso di Dora (1901). Ciò che rende questo caso ancor più singolare è il fatto che Freud vide il bambino solo una volta: l’intera analisi venne condotta tramite il padre di Hans, Max Graf, un musicologo viennese vicino agli ambienti psicoanalitici. Freud stesso sottolinea questo aspetto nella sua introduzione al caso, lodando il ruolo centrale svolto dal padre:

“Secondo me, nessun altro sarebbe riuscito a far fare al bambino simili ammissioni. Le conoscenze particolari grazie alle quali il padre è stato in grado d’interpretare le osservazioni del figlio cinquenne, erano indispensabili e senza di esse le difficoltà tecniche che la psicoanalisi di un bambino così piccolo presenta, sarebbero state insormontabili. È solo perché l’autorità del padre e di medico si fondevano in una persona, e perché in essa si combinavano l’interesse affettivo e quello scientifico, che è stato possibile in questo caso particolare applicare il metodo ad uno scopo cui esso di solito non si presta.”

Freud riconosce inoltre esplicitamente di essere intervenuto solo marginalmente:

“È vero che ho tracciato le linee generali del trattamento e che in una singola occasione sono intervenuto personalmente in un colloquio col bambino, ma il trattamento stesso è stato eseguito dal padre del piccolo paziente; a lui va tutta la mia riconoscenza per avermi consegnato i suoi appunti affinché fossero pubblicati.”

Chi era il piccolo Hans?

Dietro lo pseudonimo scelto da Freud si nascondeva Herbert Graf, figlio di Max Graf. La documentazione del caso avvenne attraverso un metodo peculiare: il padre di Hans, fortemente interessato alla psicoanalisi, raccoglieva osservazioni quotidiane sul figlio, gli poneva domande suggerite da Freud e trasmetteva allo psicoanalista viennese dettagliate relazioni scritte.

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La fobia dei cavalli

Il sintomo principale di Hans era una fobia intensa e invalidante verso i cavalli. Il bambino temeva che i cavalli potessero morderlo o cadergli addosso. La paura si manifestò intorno ai cinque anni, subito dopo un episodio particolarmente impressionante: Hans aveva assistito a un incidente in cui un cavallo, trascinando un carro pesante, era crollato in strada.

Da quel momento, il piccolo iniziò a evitare ogni contatto con i cavalli, mostrando particolare paura per quelli che portavano carichi pesanti o che indossavano i paraocchi. Lo spaventavano anche i modi aggressivi con cui i carrettieri spronavano gli animali, urlando “arrì”. La paura si estese fino al punto che Hans rifiutava di uscire di casa.

Secondo Freud, questa fobia era espressione di conflitti inconsci legati alla fase fallica dello sviluppo psicosessuale e, più nello specifico, al complesso di Edipo. Il bambino nutriva desideri affettivi e sessuali verso la madre e, parallelamente, viveva sentimenti di rivalità e timore nei confronti del padre.

Altri sintomi e dinamiche familiari

Nelle lettere indirizzate a Freud, il padre di Hans descrive ulteriori preoccupazioni riguardanti il comportamento del figlio, in particolare il forte interesse per i genitali. Per dissuadere il bambino dal toccarsi continuamente, la madre lo aveva minacciato che sarebbe stato chiamato un dottore per tagliargli il “faipipì”, termine usato dal bambino per indicare il pene.

La nascita della sorellina Hanna segnò un momento importante nell’elaborazione psicologica di Hans. Notando l’assenza del pene nella sorella, il bambino sviluppò l’idea che l’organo sessuale fosse legato all’età e che col tempo sarebbe cresciuto anche per lei.

La conflittualità tra i genitori ebbe un ruolo significativo: il padre tendeva a incolpare la madre per le difficoltà psicologiche del bambino. Proprio in questo periodo Hans fu trasferito in una stanza separata, evento che segnò l’inizio della sua analisi tramite la mediazione paterna.

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La terapia mediata dal padre

Un elemento distintivo del caso fu proprio il ruolo attivo del padre, che sotto la guida di Freud instaurò un dialogo costante con il figlio, annotando sogni, fantasie e paure. Questo lavoro di osservazione e rielaborazione consentì a Freud di ricostruire il conflitto psichico sottostante ai sintomi.

Analizzando i sogni e le fantasie del bambino, Freud individuò un senso di inferiorità nei confronti del padre e la paura che la madre preferisse il marito al figlio per via delle dimensioni dell’organo sessuale, lo stesso motivo per cui Hans, inconsciamente, era terrorizzato dai cavalli.

Attraverso una progressiva chiarificazione del significato simbolico della sua fobia, il bambino arrivò a comprendere le ragioni inconsce della propria angoscia, fino a una sostanziale remissione dei sintomi. Come scrisse Freud, l’angoscia si ridusse “a un residuo” e i progressi ottenuti apparvero “innegabili”.

L’esito e le riflessioni successive

Freud considerò il caso un successo: Hans, secondo le parole dello psicoanalista, superò senza particolari difficoltà la pubertà, senza sviluppare ulteriori disturbi o inibizioni significative, neanche di fronte al divorzio dei genitori.

Tuttavia, anni dopo, ormai adulto, Herbert Graf rilesse la pubblicazione del suo caso clinico e dichiarò di non riconoscersi affatto in quel bambino descritto da Freud. Trovava l’intero resoconto estraneo e sconosciuto.

Anche di fronte a questa distanza soggettiva, Freud non mancò di elaborare una spiegazione teorica: la rimozione e la trasformazione dei ricordi sarebbero stati una naturale conseguenza della risoluzione del conflitto edipico e della maturazione psichica avvenuta nel frattempo.

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L’interpretazione del caso di Hans

Freud vide in Hans un piccolo Edipo, cioè un soggetto che avrebbe voluto togliere di mezzo il padre, per essere solo con la madre e dormire con lei. Nel cavallo che morde, così come nel cavallo che cade, che tanto lo impressionavano, il bambino vedeva, secondo Freud, la figura paterna, dalla quale temeva una punizione, per aver nutrito pensieri cattivi nei suoi confronti.

Freud così racconta l’unica seduta avuta col bambino:

Quel pomeriggio padre e figlio erano venuti a consultarmi nel mio studio. Conoscevo già il bricconcello, tutto sicuro di sé ma tanto simpatico che mi faceva sempre piacere vederlo. Non so se si ricordasse di me, ad ogni modo si comportò in modo impeccabile, come un ragionevolissimo membro del consorzio umano. La visita fu breve. Il padre cominciò col dire che, nonostante tutte le spiegazioni, la paura dei cavalli non era diminuita. Dovemmo anche convenire che tra i cavalli, di cui aveva paura, e i moti palesi di tenerezza verso la madre, non c’erano molte relazioni. Ciò che sapevamo non era certo in grado di spiegare i particolari che appresi soltanto allora: che lo infastidiva soprattutto ciò che i cavalli hanno davanti agli occhi e il nero intorno alla loro bocca.

Ma mentre guardavo i due seduti davanti a me e ascoltavo la descrizione dei cavalli che incutevano paura, mi venne improvvisamente in mente un altro pezzo della soluzione, tale, come capii, da sfuggire proprio al padre. Chiesi a Hans in tono scherzoso se i suoi cavalli portassero gli occhiali, e il piccino disse di no; poi se il suo papà portasse gli occhiali, e anche questa volta egli negò, nonostante fosse evidente il contrario; gli chiesi ancora se con il nero intorno alla “bocca” non intendesse dire i baffi, e infine gli rivelai che egli aveva paura del suo papà, e proprio perché lui, Hans, voleva tanto bene alla mamma. Credeva che perciò il babbo fosse arrabbiato con lui, ma non era vero, il babbo gli voleva bene lo stesso e lui gli poteva confessare tutto senza paura. Già tanto tempo prima che lui venisse al mondo, io già sapevo che sarebbe nato un piccolo Hans che avrebbe voluto così bene alla sua mamma da aver paura, per questo, del babbo, e tutto questo l’avevo raccontato al suo papà.

“Come puoi credere che io sia arrabbiato con te? “ m’interruppe il padre,” t’ho mai sgridato o picchiato”?
“Oh si” lo corresse Hans, “ mi hai picchiato”.
“ Non è vero; ma quando“?
“ Questa mattina” rispose il bambino, e il padre si ricordò che al mattino Hans gli si era gettato all’improvviso con la testa contro la pancia e che, quasi automaticamente, egli aveva risposto con uno scappellotto.

Fatto singolare, il padre non aveva messo in riferimento questo particolare col contesto della nevrosi; ora però si rese conto ch’esso costituiva un’espressione della disposizione ostile del piccino verso di lui e fors’anche del bisogno di ricevere una punizione per questo.

Ritornando a casa Hans chiese al padre: “ Com’è che il professore sapeva già tutto prima? Forse parla col buon Dio “? Sarei straordinariamente fiero di questo riconoscimento per bocca di un bambino, se non l’avessi provocato io stesso con la mia scherzosa vanteria.

Dopo quella visita ricevetti quasi ogni giorno ragguagli sulle variazioni dello stato del piccolo paziente. Non ci si poteva aspettare che, grazie alla mia spiegazione, egli si liberasse di colpo delle sue angosce; si vide però che ora gli era offerta la possibilità di portare avanti le sue produzioni inconsce e dipanare la sua fobia. Da quel momento in poi Hans attuò un programma che potei preannunciare al genitore.

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Il padre cominciò dunque a porre al figlio le domande suggerite da Freud, annotandole in un diario.

Eccone alcuni stralci:

– Il 2 aprile si nota il primo reale miglioramento . Finora non era mai stato possibile convincerlo a trattenersi per un po’ di tempo fuori del portone, e quando si avvicinava un cavallo rientrava a precipizio in casa, spaventatissimo; oggi invece è rimasto davanti al portone un’ora, anche quando passava qualche carrozza, il che avviene piuttosto spesso davanti a casa nostra. Qualche volta, vedendo da lontano una carrozza, faceva per correr dentro, ma poi tornava indietro subito, come se ci avesse ripensato. Ad ogni modo, l’angoscia sembra ridotta a un residuo e i progressi avvenuti dopo la spiegazione sono innegabili.
– La sera dice: “Adesso che arriviamo fino davanti al portone, possiamo anche andare al Parco municipale”.
– La mattina del 3 aprile viene a letto da me, mentre negli ultimi giorni non era mai venuto e anzi sembrava fiero di questa sua riservatezza. Gli chiedo: “ Perché oggi sei venuto”?
– Hans: “Quando non ho più paura non vengo più”.
– Io: “ Allora tu vieni da me perché hai paura”?
– Hans: “Quando non sto con te, ho paura; quando non sto a letto con te, ho paura, ecco. Quando non avrò più paura, non vengo più”.
-Io: “Allora tu mi vuoi bene, e la mattina presto a letto hai paura, e perciò vieni da me”?
– Hans: “ Si. Perché mi hai detto che io voglio bene alla mamma e che è per questo che ho paura, mentre invece io voglio bene a te” ?

Il piccolo è qui straordinariamente esplicito. Egli fa capire che in lui l’amore per il padre è in conflitto con l’ostilità verso il padre, rivale nei confronti della madre, al quale egli fa il rimprovero di non avergli fatto rilevare questo gioco di forze opposte che doveva trovar sfogo nell’angoscia. Il padre non comprende ancora completamente suo figlio perché, durante questo colloquio, non fa che convincersi della sua ostilità verso di lui, quell’ostilità ch’io gli avevo fatto rilevare nell’ultima visita. Ciò che segue serve in realtà a dimostrare più i progressi del padre che quelli del figlio; tuttavia lo riferirò senza cambiare nulla.

– Purtroppo non comprendo subito il senso di questa obiezione. Poiché Hans ama la mamma, vuole evidentemente che io non ci sia più, in modo da mettersi al posto del padre. Questo desiderio ostile represso si tramuta in angoscia per la sorte del padre, sicché egli viene la mattina da me per vedere se ci sono ancora. Questa spiegazione non mi viene purtroppo in mente lì per lì, e gli dico:
– “ Quando tu sei solo, è che hai paura per me e allora mi vieni a trovare”.
– Hans: “ Quando tu sei via, io ho paura che non torni più a casa”.
– Io: “Forse ti ho minacciato qualche volta di non tornare più?
– Hans: “ Tu no, ma mamma sì. La mamma mi ha detto che non ritornava più a casa – (probabilmente aveva fatto i capricci e la mamma l’aveva minacciato di andarsene).
– Io: “Questo l’ha detto perché tu eri cattivo”.
– Hans: “Sì”.
– Io: “ Tu perciò hai paura che io me ne vada via perché sei stato cattivo, e allora vieni da me”.
– Appena fatta colazione mi alzo da tavola e Hans dice: “ Papà, perché trotti subito via” ? Noto che ha detto ‘trotti’ invece di ‘corri’ e gli rispondo: “ Ah, ecco! tu hai paura che il cavallo trotti via”. Hans ride.

LibriAutori:
Dr. Giuliana Proietti - Dr. Walter La Gatta

Spiegazione teorica

Freud spiegò che l’angoscia di Hans aveva due componenti: la paura del padre e la paura per il padre. La prima proveniva dall’ostilità verso il padre, la seconda dal conflitto tra tenerezza, esagerata per reazione, e ostilità.

Quanto alle fobie, Freud concluse che fobie come quelle sviluppate del piccolo Hans sono assai comuni nei bambini, ma che spesso esse vengono represse da una eccessiva severità educativa.

Le nevrosi degli adulti si riallacciano dunque spesso ad angosce infantili e di fatto ne sono la continuazione, dimostrando così la continuità di un lavorio psichico che va avanti per tutta la vita del soggetto, indipendentemente dalla persistenza del primo sintomo.

Per Hans, aggiunse Freud, l’aver prodotto la fobia fu, tutto sommato, una cosa salutare, poiché essa da una parte era servita a richiamare l’attenzione dei genitori sulle difficoltà del bambino, dall’altra aveva fatto accorrere il padre in suo aiuto…

Il trattamento della nevrosi infantile di Hans, la possibilità di aver trattato il suo complesso edipico sin dall’età giovanile, togliendogli dunque “quel germe di complessi rimossi che influisce sulla vita futura, attraverso una deformazione del carattere o la disposizione ad una successiva nevrosi” poteva, secondo Freud, aver privilegiato lo sviluppo di Hans rispetto ad altri bambini. Scrisse infatti in proposito: “Questo è il parere cui sono incline, ma non so quanti altri condivideranno tale giudizio e non so neppure se l’esperienza mi darà ragione”.

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Editore: Xenia, Collana: I tascabili
Anno edizione: 2004 Pagine: 128 p., Brossura
Autori: Giuliana Proietti - Walter La Gatta

Le conseguenze dell’analisi

Freud era convinto che questa analisi infantile avrebbe favorito lo sviluppo psicosessuale del bambino e non pensava minimamente che avrebbe potuto provocare alcun danno.

Scrive infatti Freud:

“Le uniche conseguenze dell’analisi sono che Hans guarisce, che non ha più paura dei cavalli e che assume una specie di tono cameratesco con il padre, come questi ci riferisce divertito”.

Fosse stato per lo psicoanalista, lui avrebbe esplicitato al bambino molto di più di quello che gli era stato detto:

“Se la cosa fosse dipesa soltanto da me avrei osato dare al bambino anche una spiegazione che i genitori ritennero di ricusargli. Avrei confermato i suoi presentimenti istintivi rivelandogli l’esistenza della vagina e del coito, e in tal modo avrei ulteriormente ridotto i suoi residui insoluti e messo fine al suo torrente di domande. Sono convinto che non ne avrebbero sofferto né il suo amore per la mamma né la sua natura di bimbo e che avrebbe compreso egli stesso che, per occuparsi di queste importanti, anzi imponenti questioni, avrebbe dovuto attendere in pace che si fosse adempiuto il suo desiderio di diventare grande. Ma l’esperimento pedagogico non fu condotto così a fondo”.

Dove avrebbe dovuto spingersi l’educazione dei bambini, alla luce delle teorie psicoanalitiche?

Freud si dà questa risposta:

“È ancora difficile rispondere con sicurezza. Finora, essa si è posta per compito soltanto il dominio, o meglio la repressione delle pulsioni. I risultati sono stati tutt’altro che soddisfacenti e dove si è avuto qualche successo, questo ha riguardato soltanto un esiguo numero di privilegiati sfuggiti alla pretesa della repressione pulsionale. D’altra parte nessuno si è domandato per quali vie e in virtù di quali sacrifici si raggiunga la repressione delle pulsioni imbarazzanti.

Se per contro noi sostituiamo a questo compito un altro, quello di rendere l’individuo atto alla civiltà e utile membro del consorzio umano, senza chiedergli di sacrificare la propria attività più di quanto non sia strettamente necessario, ecco che allora i chiarimenti datici dalla psicoanalisi sull’origine dei complessi patogeni e sul nucleo di ciascheduna nevrosi meriteranno giustamente di essere considerati dall’educatore una guida di inestimabile valore per la condotta da tenere nei confronti del bambino.

Quali conclusioni pratiche se ne possano trarre, fino a che punto l’esperienza possa giustificare l’applicazione di tali conclusioni nel nostro sistema sociale, lascio ad altri di decidere e di giudicare”.

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In conclusione

Freud vede in questo caso solo una riconferma delle sue teorie, la prova che effettivamente alcuni disturbi nascono nell’infanzia, come aveva teorizzato, ascoltando gli adulti che parlavano della loro infanzia:

Quest’analisi,  non m’ha rivelato, in senso stretto, nulla di nuovo, nulla che non avessi già appreso (spesso in modo meno chiaro e meno immediato) durante la cura di altri pazienti in età matura.

Ma, poiché le nevrosi di questi altri malati potevano sempre esser ricondotte a quegli stessi complessi infantili che abbiamo scoperto dietro la fobia di Hans, sono tentato di annettere a questa nevrosi infantile l’importanza di un modello e di un tipo, opinando che la molteplicità dei fenomeni nevrotici di rimozione e l’abbondanza del materiale patogeno non impediscano la loro derivazione da pochissimi processi riguardanti gli stessi complessi rappresentativi”.

Hans diventa grande

La storia del piccolo Hans ha una sorpresa finale: Hans che diventa grande e che va a leggere il caso che lo riguarda (senza riconoscersi negli scritti di Freud) e poi va a trovare lo psicoanalista, il quale annota in un poscritto del 1922:

Qualche mese fa – primavera del 1922 – mi si presentò un giovanotto dichiarando di essere il “piccolo Hans”, sulla cui fobia infantile avevo pubblicato un rapporto nel 1909. Fui molto lieto di rivederlo, poiché circa due anni dopo la conclusione dell’analisi l’avevo perso di vista e per oltre un decennio non avevo saputo più nulla di lui. La pubblicazione di quella prima analisi di un bambino aveva suscitato molto rumore e ancor maggiore indignazione; tutte le sventure erano state profetate al povero ragazzo, violato nella sua innocenza e vittima di una psicoanalisi in sì tenera età.

Ma nessuna di queste profezie si era verificata. Hans adesso era un prestante giovane di diciannove anni. Mi disse che stava perfettamente bene e che non soffriva di disturbi o inibizioni di alcun genere.

Non soltanto aveva attraversato indenne la pubertà, ma aveva sopportato senza conseguenze una delle più dure prove della sua vita emotiva: i genitori avevano divorziato passando ambedue a nuove nozze.

Perciò egli viveva solo, pur mantenendo buone relazioni con tutt’e due i genitori: gli rincresceva soltanto che, scioltasi la famiglia fosse rimasto separato dalla giovane sorella che gli era molto cara.

Particolarmente notevole mi apparve una delle cose che mi disse il piccolo Hans, e di cui non tenterò neppure di dare una spiegazione. Dichiarò che, quando aveva letto il suo caso clinico, tutto gli era parso estraneo, non si riconosceva, non si ricordava di nulla, solo leggendo del viaggio a Gmunden gli era balenata l’idea, quasi un barlume di ricordo, di poter essere stato lui.


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Come si spiegò Freud questo mancato riconoscimento del giovane Herbert nel caso del piccolo Hans?

Questa è la risposta di Freud:

L’analisi dunque, lungi dall’aver preservato gli avvenimenti dall’amnesia, vi era essa stessa soggiaciuta. Succede talvolta in modo simile nel sonno a chi ha familiarità con la psicoanalisi: costui è destato da un sogno, decide di analizzarlo senza indugio, si riaddormenta soddisfatto del risultato, e il giorno dopo sogno e analisi sono dimenticati.

Critiche e limiti del caso

Il caso del piccolo Hans ha suscitato, nel corso dei decenni, molte critiche. Alcuni studiosi hanno sottolineato i limiti metodologici della raccolta dei dati, condizionata dalla forte influenza delle teorie freudiane già accettate dal padre di Hans. Altri hanno messo in discussione la validità delle interpretazioni simboliche fornite da Freud, ritenendole troppo legate al modello edipico e poco aperte ad altre possibili spiegazioni (ad esempio fattori ambientali, esperienze traumatiche dirette, o modelli di apprendimento).

Inoltre, va sottolineato che Freud non lavorò mai direttamente con il bambino in modo continuativo, il che solleva interrogativi sull’effettiva accuratezza diagnostica.

Il contributo alla storia della psicoanalisi

Nonostante le critiche, il caso del piccolo Hans rimane una pietra miliare nella storia della psicoanalisi. È stato uno dei primi tentativi sistematici di applicare i concetti della teoria psicoanalitica alla psicopatologia infantile. Ha aperto la strada allo sviluppo della psicoterapia con i bambini e ha contribuito alla comprensione delle dinamiche inconsce nel periodo evolutivo.

La lettura del caso offre ancora oggi spunti di riflessione su come i bambini esprimano il disagio psicologico attraverso sintomi simbolici, e su come il contesto familiare possa diventare sia fonte di conflitto sia risorsa terapeutica.

Fonti:
S. Freud, Analisi della fobia di un bambino di cinque anni,  Opere, Boringhieri
Ernest Jones Vita e opere di Freud, 2 gli anni della maturità 1901-1919

Dr. Giuliana Proietti

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Le differenze fra Freud e Jung

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LE DIFFERENZE FRA FREUD E JUNG

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Sigmund Freud e Carl Gustav Jung hanno profondamente influenzato la psicologia moderna, soprattutto per quanto riguarda lo studio dell’inconscio e della psicoanalisi. Nonostante un iniziale rapporto di stima e collaborazione, i loro approcci alla mente umana finirono per divergere in modo significativo. Di queste differenze parleremo approfonditamente in questo articolo.

Chi ha fondato la psicoanalisi?

La psicoanalisi è stata fondata da Freud, che ha gettato le basi per una nuova comprensione delle dinamiche psicologiche. Senza il suo contributo, probabilmente non ci sarebbe stato Jung e, forse,  non esisterebbe oggi la terapia psicologica che chiamiamo psicoterapia. 

Erano simili come persone Freud e Jung?

No. I due erano anzi molto diversi per età, cultura, religione, interessi e visione del mondo. In particolare, Freud era scettico verso la religione, mentre Jung attribuiva grande importanza agli aspetti spirituali della psiche. E’ dunque evidente che tra i due ci fossero interpretazioni completamente diverse della realtà e della psicologia umana, che non mancarono di emergere, non appena Jung si sentì più sicuro di muoversi in autonomia.

Ci fu un periodo di collaborazione?

Sì. Dal 1906 iniziarono a lavorare insieme. Freud definì Jung il suo “figlio maggiore adottivo” e Jung descrisse Freud come una persona intelligente e stimolante.

Perché Freud cercava un “figlio adottivo”?

Freud desiderava garantire un futuro alla psicoanalisi. Vedeva in Jung, giovane e non ebreo, una possibilità per far accettare le sue teorie anche fuori dal contesto ebraico. Lo si deduce da una lettera del 1908 indirizzata a Karl Abraham:

“[…] è solo grazie alla sua apparizione sulla scena che la psicoanalisi non corre più il pericolo di diventare un affare nazionale ebraico”.

Jung rappresentava una nuova opportunità per la psicoanalisi: fu dunque drammatico, per Freud, scoprire che Jung, lo psicoanalista più caro alla sua causa, fosse in realtà impegnato in una sua ricerca personale, spirituale, mistica e occulta, che nulla aveva a che fare con il complesso edipico e le teorie sessuali della psicoanalisi.

Quando iniziarono i contrasti?

Nel 1911, quando Jung comunicò la sua intenzione di dedicarsi agli studi sul pensiero magico e spirituale. Freud, ateo e razionalista, temeva che ciò danneggiasse la credibilità scientifica della psicoanalisi.

Le divergenze religiose e filosofiche

Freud collocava la psicoanalisi in una cornice scientifica e materialista. Anche se appartenente alla comunità ebraica, Freud era ateo e vedeva la religione in modo critico, considerandola una sorta di illusione o una forma di nevrosi collettiva. Per lui, la religione rappresentava una risposta infantile al bisogno di protezione e una difesa contro l’angoscia esistenziale.

Jung era invece profondamente religioso e interessato al mondo dell’occulto. Studiava non solo la religione cristiana, ma anche le religioni indiane e il buddismo ed in esse trovava elementi per spiegare la psicologia umana, al di là delle (per lui) imbarazzanti spiegazioni di Freud, basate sulla sessualità e sul desiderio infantile di incesto. Jung era convinto che l’esperienza religiosa potesse favorire il processo di individuazione e aiutare l’individuo a dare un senso più profondo alla propria esistenza.

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Principali divergenze teoriche

– La teoria della libido

Freud definiva la libido come energia sessuale. Secondo lui, gran parte dei comportamenti umani nasce dalla gestione delle pulsioni sessuali e dai conflitti legati a esse.

Jung propose una visione più ampia della libido, considerandola come un’energia psichica generale, non limitata alla sessualità. Per Jung, la libido poteva esprimersi anche in forme creative, spirituali o intellettuali.

Secondo Jung, Freud aveva interpretato correttamente alcuni aspetti della psiche, ma facendo eccessivo riferimento alla sua biografia personale e alla sua cultura familiare.

Dice infatti Jung:

“Ciò che Freud ci dice sugli istinti sessuali dell’adulto e del fanciullo, sul conflitto che ne consegue con il “principio della realtà”, sull’incesto e su cose simili, può essere preso come la più giusta espressione della sua psicologia personale. Egli ha dato forma adeguata a quanto ha osservato in se stesso”.

– La concezione dell’inconscio

Freud credeva che l’inconscio fosse l’epicentro dei pensieri repressi, dei ricordi traumatici e delle pulsioni, sessuali e aggressive. Lo vedeva come un deposito di tutti i desideri sessuali nascosti, che danno origine alle nevrosi, o a ciò che oggi chiameremmo malattia mentale. Affermò che la mente umana si incentra su tre strutture: l’Es, l’Io e il Super-Io. L’Es forma le pulsioni inconsce (principalmente sessuali) e non è vincolato da vincoli morali, ma cerca solo di soddisfare il piacere; l’Io è costituito dalle percezioni, dalla memoria e dai pensieri coscienti, che permettono di affrontare efficacemente la realtà. Il Super-Io cerca di mediare le pulsioni dell’Es attraverso comportamenti socialmente accettabili.

Jung vedeva l’inconscio non come la sede dei conflitti sessuali rimossi, come per Freud, ma in una dimensione più ampia, legata a simboli e miti universali. Anche lui divise la psiche umana in tre parti: Io, inconscio personale e inconscio collettivo. L’Io è la coscienza, l’inconscio personale include i ricordi personali (sia quelli rievocati che quelli repressi) e l’inconscio collettivo, che contiene le nostre esperienze come specie o le conoscenze innate (ad esempio, l’amore a prima vista). La visione di Jung sulla psiche umana trasse ispirazione dai suoi studi della filosofia e delle religioni orientali, come il buddismo e l’induismo.

– I sogni

Secondo Freud, i sogni rappresentano la realizzazione mascherata di desideri inconsci, spesso di natura sessuale o aggressiva. L’interpretazione dei sogni serve, nella psicoanalisi, a portare alla luce questi desideri rimossi. Freud credeva anche che i sogni fossero in grado di accedere a pensieri repressi o ansiogeni (principalmente desideri sessualmente repressi) che non possono essere affrontati direttamente, per paura di ansia e imbarazzo. Pertanto, i meccanismi di difesa permettono a un desiderio o a un pensiero di insinuarsi nei sogni in una forma simbolica mascherata: ad esempio, chi sogna un grosso serpente, secondo Freud, starebbe sognando un pene. Era compito dell’analista interpretare questi sogni alla luce del loro vero significato.

Secondo Jung i sogni sono messaggi dell’inconscio rivolti alla propria coscienza. Nei sogni si manifestano archetipi e simboli che aiutano la persona a comprendere meglio se stessa e il proprio percorso di crescita interiore. Anche lui credeva che l’analisi dei sogni permettesse di aprire una finestra sulla mente inconscia, ma non credeva che il contenuto di tutti i sogni fosse necessariamente di natura sessuale o che avessero sempre un significato mascherato. Piuttosto, la descrizione dei sogni da parte di Jung si concentrava maggiormente sull’immaginario simbolico, un immaginario che poteva esprimere contenuti personali, così come collettivi o universali. Questo contenuto universale o collettivo veniva manifestato attraverso ciò che Jung chiamava “Archetipi”.

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– L’obiettivo della terapia

Per Freud, il fine della psicoanalisi era rendere conscio l’inconscio e aiutare il paziente a superare i conflitti interiori, spesso legati alle esperienze infantili.

Jung aveva una visione più evolutiva della terapia: il suo obiettivo era facilitare il processo di individuazione, cioè l’integrazione delle diverse parti della psiche per raggiungere una maggiore completezza e autenticità personale.

– Lo sviluppo della personalità

Freud poneva l’accento sulle esperienze della prima infanzia e sui conflitti irrisolti di quel periodo, considerandoli determinanti per la formazione della personalità adulta.

Jung, invece, riteneva che lo sviluppo della personalità fosse un processo continuo, che si estende lungo tutto l’arco della vita. Secondo lui, la seconda metà della vita era un momento cruciale per la realizzazione del Sé e per la crescita spirituale.

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Sigmund Freud aveva un ottimo livello di istruzione e leggeva moltissimo. Aveva una fornitissima libreria in casa e una incolmabile curiosità intellettuale, che lo portò a leggere non solo di scienza, ma anche molta letteratura, che influenzò profondamente il suo lavoro e contribuì alla sua visione della psiche umana.

Durante gli anni del liceo, Freud, studente molto brillante, scoprì le tragedie di Sofocle, in particolare l’ Edipo-Re che, come sappiamo, avrebbe avuto un futuro di tutto rispetto nella teoria psicoanalitica.

“Sono sempre stato orgoglioso”, scrisse Freud, “del ricco sedimento depositato nella mia memoria dallo studio della lingua greca (Sofocle, Omero)”.

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Quando, nel 1906, fu invitato alla compilazione di un questionario su quelli che considerava “dieci buoni libri”, iniziò chiedendosi quali opere della letteratura mondiale potessero essere considerate le più belle… Nessuna esitazione: scelse ancora quelle di Omero e Sofocle, cui seguivano Goethe e Shakespeare.

Nel discorso pronunciato nel 1930, quando fu insignito del Premio Goethe, affermò di essere un grande estimatore di Goethe: in particolare apprezzava il Faust, e la Ifigenia in Tauride, opere nelle quali aveva scoperto molti concetti, confermati poi dalla psicoanalisi.

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Oltre a Goethe, i classici tedeschi amati da Freud sono Schiller (da cui trae il concetto per cui “la fame e l’amore forniscono la ragione del funzionamento del mondo”, suo primo punto di appoggio per la costruzione della teoria psicoanalitica), insieme al poeta Heinrich Heine.

Secondo Freud, Shakespeare ci introduce “in un mondo di spiriti, demoni e fantasmi”. Di questo autore apprezzava in particolare l’Amleto e il Macbeth, trovando in questi drammi una ricca analisi dei conflitti psicologici umani, dei desideri nascosti e delle dinamiche familiari complesse.

Ma tra i gusti letterari di Freud vi erano anche i romanzieri del XIX secolo: Dostoevskij, che “non è molto lontano da Shakespeare” e fra le sue opere, “il più grande romanzo mai scritto”: I fratelli Karamazov, che affronta lo stesso tema di parricidio edipico di Sofocle e presenta, secondo Freud, nell’episodio del Grande Inquisitore, le più belle pagine mai scritte.

Freud non disdegnava neanche il romanzo francese. Lesse Zola – Fécondità e il Dr. Pascal, e Balzac, il cui La pelle di zigrino sarà la sua ultima lettura.

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Un altro autore ammirato da Freud era Miguel de Cervantes: considerava il “Don Chisciotte” una profonda analisi della follia umana e della lotta tra realtà e immaginazione.

In Edgar Allan Poe Freud ammirava la rappresentazione brillante delle ansie, delle ossessioni e delle paure più profonde dell’animo umano.

I sapori ed i riferimenti letterari di Freud, come si vede, sono molto classici. Se lui leggeva e apprezzava  Thomas Mann, Stefan Zweig o Arthur Schnitzler, gran parte della letteratura tedesca del Novecento non sembrava interessarlo, come nel caso di autori come Rilke, Kafka, Musil o Döblin.

Probabilmente ciò che affascinava Freud non era tanto la forma letteraria, quanto i contenuti di questi libri. Per quanto riguarda la creazione, letteraria o artistica in generale, Freud la riteneva analoga ad un sogno ad occhi aperti, una porta di accesso alla conoscenza dell’inconscio, ove Freud ricercava la conferma della sua teorie.

Per questo, anche le opere mediocri a volte potevano apparirgli ricche di contenuti, così come opere della grande letteratura.

Ad esempio la Gradiva di Jensen, descritta da Freud come “una piccola storia di per sé di nessun valore, di nessun interesse letterario”, gli permise di mettere in evidenza che anche i sogni nati dalla finzione poetica possono autorizzare ugualmente interpretazioni reali e che agiscono, nella produzione del poeta, con gli stessi meccanismi che l’inconscio utilizza nel lavoro onirico.

Fonti principali:
L’Express
Freud Museum
Pubmed

Dr. Giuliana Proietti, psicoterapeuta

Una lezione divulgativa su Freud e il suo libro "Totem e Tabù"

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Immagine: La pelle di zigrino di Balzac, ultimo libro letto da Freud

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L'arte al tempo di Freud

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La rivoluzione industriale cominciava a distruggere le tradizioni stesse dell’artigianato, ormai sostituito dalla produzione meccanica: alla bottega succedeva la fabbrica. I risultati più immediati di questo mutamento furono visibili in architettura, seriamente minacciata dalla mancanza di una salda competenza artigiana e insieme dalla strana accentuazione dell’esigenza dello ‘stile’ e della ‘bellezza’. Sorsero più edifici nell’Ottocento che non in tutti i periodi precedenti messi insieme.

Era il tempo della vasta espansione urbanistica in Europa e in America, che trasformò vaste distese di campagna in ‘agglomerati urbani’, senza uno stile proprio. Si voleva che gli edifici pubblici fossero ‘artistici’ e per questo si chiedevano facciate in stile gotico, oppure edifici che somigliassero ad un castello normanno, ad un palazzo del Rinascimento o ad una moschea orientale. Le chiese si costruivano maggiormente in stile gotico, i teatri in stile barocco, palazzi e ministeri prevalentemente in stile rinascimentale.

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Gli artisti dipingevano pale d’altare e quadri da appendere nei salotti, oppure facevano affreschi nelle dimore di campagna della classe agiata, con mecenati non sempre preparati nella storia dell’arte e volti a richiedere prodotti spesso volgari, secondo questa o quella moda del momento. Fra artisti e pubblico la sfiducia era reciproca.

Agli occhi del cliente l’artista era un impostore che chiedeva prezzi assurdi, fra gli artisti divenne passatempo preferito scandalizzare i borghesi, anche attraverso la propria immagine personale: gli artisti cominciarono a farsi crescere folte chiome e barbe, vestivano di velluto e fustagno, portavano cappelli a larga tesa e cravatte svolazzanti, accentuando la loro mancanza di rispetto per le convenzioni.

Parigi era divenuta un centro artistico come la Firenze del Quattrocento e la Roma dei Seicento e attirava da tutto il mondo giovani desiderosi di studiare con i più grandi maestri, partecipando alle discussioni nei caffè di Montmartre, dove a poco a poco si andavano formulando le nuove teorie sull’arte.

Il più importante pittore con tendenze conservatrici fu Jean-Auguste Ingres (1780-1867) allievo e seguace di Jacques-Louis David, di cui condivideva l’ammirazione per lo stile epico dell’antichità classica. Egli si dedicava allo studio rigoroso del vero e disprezzava l’improvvisazione e il disordine. Gli oppositori di Ingres esaltavano invece Eugéne Delacroix (1798-1863) che apparteneva alla lunga serie di grandi rivoluzionari.

Questo artista non tollerava i richiami ai greci e ai romani, l’importanza attribuita al disegno esatto e la costante imitazione di statue classiche. Riteneva che in pittura il colore fosse più importante del disegno e la fantasia della tecnica. Nelle accademie prevaleva ancora l’idea che la pittura dovesse rappresentare personaggi ‘dignitosi’ e non lavoratori o contadini secondo la tradizione dei maestri dei Paesi Bassi.

Francois Millet (1814-1875) volle dipingere scene di vita contadina, donne e uomini al lavoro nei campi e questo fu, per l’epoca, rivoluzionario. Dei soggetti plebei erano infatti al centro della scena del quadro e non più delle figure marginali sullo sfondo del soggetto ‘dignitoso’ da illustrare.

Gustave Courbet (1819-1877) voleva che i suoi quadri fossero una protesta contro le convenzioni correnti del tempo, che scandalizzassero il borghese pieno di sufficienza, che proclamassero il valore dell’intransigenza e della spontaneità artistica contro l’abile rimaneggiamento dei paradigmi tradizionali.

Nello stesso periodo si affermò un’altra corrente di pittori che ritenevano che Raffaello, esaltando l’idealizzazione della natura, sacrificando la realtà in nome della bellezza, aveva compiuto un passo falso e dunque occorreva tornare a prima di Raffaello, quando gli artisti facevano del loro meglio per copiare la natura. Questo gruppo di artisti si chiamò Confraternita Preraffaellita. Uno dei membri di maggior talento era figlio di un profugo italiano, Dante Gabriele Rossetti (1828-82) .

Relazione La sessualità femminile fra sapere e potere

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18 Marzo 2023, Castelferretti Ancona
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In Francia, nel contempo, vi fu un’altra ondata rivoluzionaria in campo artistico, iniziata da Edouard Monet (1832-1883): l’impressionismo. Questi artisti sostenevano che l’osservazione attenta della natura non significa vedere oggetti definiti, ognuno con il suo colore e la sua forma, ma una gaia mescolanza di toni che si fondono al nostro occhio. Le nuove teorie non riguardavano solo il trattamento dei colori, ma anche l’impressione del movimento.

Questo stile, inizialmente molto avversato dai pittori accademici che mal sopportavano l’apparente mancanza di rigore tecnico e gli ‘scarabocchi’prodotti dagli artisti, fu chiamato ‘impressionismo’. I pittori infatti, dopo l’impressione ricevuta, fissavano subito i colori sulla tela a colpi rapidi, non curandosi dei particolari, quanto dell’effetto nell’insieme.

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Di essi ricordiamo Monet, Manet, Renoir, Pisarro, Degas, e molti altri. I primi visitatori dell’esposizione impressionista che si imbatterono in questi quadri pensarono che i pittori fossero dei pazzi. Ci volle tempo per far capire al pubblico che, per apprezzare un quadro impressionista, occorreva allontanarsi di qualche passo e gustare il miracolo di vedere queste macchie enigmatiche prendere forma e animarsi.

Accanto all’arte tradizionale poi in quel tempo si aggiunse la fotografia, usata soprattutto in un primo tempo, per i ritratti. Poiché erano necessarie delle pose prolungate, i soggetti dovevano assumere un atteggiamento rigido.

La fotografia aiutò a scoprire il fascino delle vedute casuali, prese da un’angolazione inattesa. Questa scoperta liberava il pittore dalla necessità di rappresentare il vero e gli permetteva di esprimersi finalmente senza tutti i clichés delle tradizioni.Anche la scultura fu coinvolta nella battaglia pro e contro il ‘modernismo’.

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Auguste Rodin (1840-1917), come gli impressionisti, rifiutava la rifinitura esteriore e preferiva lasciare un po’ di margine alla fantasia dello spettatore. A volte lasciava intatto un pezzo della pietra che scolpiva, per dare l’impressione, come faceva peraltro anche Michelangelo, che la figura prendesse forma lentamente, a partire dalla pietra. Al pubblico medio parve un’eccentricità irritante, se non una semplice pigrizia. Anche nell’arte dunque, questo fu un periodo di grandi rivoluzioni, soprattutto a causa degli artisti, che diventavano sempre più insofferenti delle tendenze e dei metodi che piacevano al pubblico.

Fonte: La storia dell’arte raccontata da E.H. Gombrich, Einaudi

Dott.ssa Giuliana Proietti Ancona

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Dante Gabriele Rossetti

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Freud in vita e in morte

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Freud in vita e in morte di Max Schur è più di una biografia: è un ritratto intimo e rigoroso del “maestro” nel momento più vulnerabile (quello della malattia e dell’elaborazione della morte), scritto da chi lo accompagnò con competenza, rispetto e lealtà. Il testo parla non solo del dolore, ma della capacità di dignità, riflessione e autoanalisi che resero Freud – come uomo e clinico – uno dei protagonisti indiscussi della cultura moderna.

Chi era Max Schur?

Era un medico internista e psicoanalista viennese il quale, dopo un’analisi personale, entrò nella Società Psicoanalitica di Vienna nel 1932 e divenne il medico personale di Freud nel 1928.

Schur si occupò di Freud negli anni della lenta malattia, fino al trasferimento a Londra nel 1938 e, dopo la morte di Freud, emigrò negli Stati Uniti, proseguendo la sua carriera come medico e psicoanalista.

Il medico racconta che Freud aveva molta paura della morte. Il suo tormentato rapporto con questo evento ineluttabile si manifestava attraverso molte fobie, ossessioni e somatizzazioni.

Ricordiamo infatti i suoi complicati esercizi di numerologia per prevedere la data in cui la sua vita sarebbe finita, oppure gli svenimenti improvvisi  quando si affrontava l’argomento della morte.

Schur evidenzia la presenza costante della morte nella vita di Freud, ricollegandola anche all’ansia cardiaca giovanile e alle riflessioni sulla “pulsione di morte”, teorizzate nel 1920

I medici che lo ebbero in cura non riuscirono a dirgli la verità sul suo male, un cancro alla mascella, e a provvedere per tempo ed in modo completo alla sua asportazione.

Egli stesso si era accorto di avere questo problema, nel mese di febbraio («ho scoperto sul mio palato una proliferazione leucoplastica» scriverà a Ernst Jones, amico e biografo), ma si decise a farsi esaminare solo alla fine di aprile. Ed i diversi amici medici, dermatologi, chirurghi, spesso contemporaneamente analisti, cui Freud si rivolse, si accorsero che si trattava di cancro, ma non glielo dissero.

Freud finì col farsi operare da un chirurgo del quale, giustamente, non si fidava; l’intervento non andò bene, e quando vennero finalmente chiamate la moglie e la figlia Anna, «lo trovarono seduto su una sedia di cucina, coperto di sangue, senza l’assistenza né di un’infermiera, né di un medico».

Poco dopo le due donne vennero mandate a casa; quando tornano scoprirono che Freud aveva avuto una grave emorragia, e, non potendo parlare per l’operazione, aveva suonato il campanello, rotto.

Relazione fra sesso e cibo

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Solo l’intervento di un nano, un minorato mentale, ricoverato con lui, corso a chiedere aiuto, l’aveva salvato. Da questo momento cominciò un percorso di sofferenze, interventi, protesi, dolori, che si intensificherà fino alla morte, sedici anni dopo, nel 1939. Un percorso che Freud affrontò stoicamente, lavorando e continuando a scrivere.

Rifiutò infatti i sedativi per non intaccare il lavoro analitico, continuò le sedute fino a un mese prima della morte e chiese trasparenza totale sul suo stato di salute.

Freud morì grazie alla somministrazione finale di morfina da parte di Schur, su richiesta di Freud e in coerenza con la promessa fattagli nel 1928.

Tutta la vicenda è perfettamente ricostruita nel libro del suo medico, Max Schur, Freud in vita e in morte,  pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri

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