Ortoressia, l'ossessione per i cibi sani

Ortoressia, l’ossessione per i cibi sani

Ortoressia, l’ossessione per i cibi sani

Saluto del CIS - Dr. Walter La Gatta

YouTube player

L’ortoressia rappresenta un esempio significativo di come un comportamento apparentemente positivo – la cura per l’alimentazione – possa degenerare in un disturbo che compromette la salute e la qualità della vita. Conosciamola meglio.

Cosa significa “ortoressia”?

Il termine deriva dal greco orthós (giusto, corretto) e órexis (appetito), ed è stato coniato nel 1997 dal medico statunitense Steven Bratman. Sebbene non sia ancora formalmente riconosciuta come diagnosi autonoma nei principali manuali diagnostici (DSM-5 o ICD-11), l’ortoressia è oggetto crescente di attenzione clinica e scientifica per i suoi effetti potenzialmente dannosi sulla salute fisica e psicologica.

Chi era il Dottor Steven Bratman?

Questo medico, specializzatosi in medicina alternativa, era diventato egli stesso un maniaco dell’alimentazione, al punto che consumava i propri pasti nel silenzio più assoluto, si alzava da tavola quando il suo stomaco non era ancora sazio, non mangiava una verdura se questa era stata colta da più di quindici minuti e masticava il boccone di cibo, prima di ingerirlo, per più di cinquanta volte. Mangiare del formaggio pastorizzato poteva farlo sentire male al punto di temere di contrarre, dopo questa ingestione di cibo ‘avvelenato’, una polmonite, se non addirittura il cancro. Riconosciuto di avere qualcosa che non andava, si è curato ed ha anche divulgato le caratteristiche e la sintomatologia di questo nuovo disturbo alimentare.

Tariffe Psicoterapia

Cosa caratterizza l’ortoressia?

Chi soffre di ortoressia non è semplicemente attento all’alimentazione: ciò che distingue il disturbo è l’intensità e la rigidità con cui vengono seguite regole autoimposte sul cibo considerato “sano” o “puro”. Le persone ortoressiche passano molte ore al giorno a pensare, pianificare e preparare i pasti, evitando cibi percepiti come impuri, industriali, trattati o non naturali. Gli alimenti vengono suddivisi in modo rigido tra “buoni” e “cattivi”, senza alcuna flessibilità.

Questo comportamento può portare a:

  • Restrizioni alimentari estreme, che possono compromettere l’equilibrio nutrizionale;
  • Isolamento sociale, dovuto alla difficoltà di partecipare a eventi o pasti fuori casa;
  • Ansia e senso di colpa, legati alla trasgressione delle regole autoimposte;
  • Bassa autostima, spesso legata alla percezione morale del cibo (mangiare “bene” come essere “migliori”).

Perché l’ortoressia porta all’isolamento sociale?

Le diete drastiche aggravano il problema dell’isolamento sociale, poiché l’ortoressico tende a sentirsi superiore a causa del livello di vita nutrizionale che ha, in confronto con quello degli altri, e dunque rifiuta di mangiare insieme ad altre persone.  Per seguire il regime, gli ortoressici dimostrano una grande forza di volontà, ma se si trovano ad infrangere le loro regole, soccombendo alla tentazione del cibo proibito, poi si sentono colpevoli e corrotti. Questo comportamento è simile a quello delle persone che soffrono di anoressia o bulimia , tuttavia, la preoccupazione degli anoressici e dei bulimici riguarda la quantità di cibo che consumano, mentre gli ortoressici sono ossessionati dalla sua qualità.

Le interazioni sociali di questo tipo di pazienti non sono mai troppe e non sono mai buone: infatti questi soggetti sono in genere piuttosto orgogliosi di sé stessi, della cura che hanno per il proprio corpo e vivono una sorta di complesso di superiorità nei confronti degli altri. La consapevolezza che a niente siano valsi i propri appelli al salutismo dietetico, il rifiuto del proselitismo di amici e conoscenti, porta l’ortoressico ad allontanarsi da tutti, con pensieri sempre meno espressi apertamente, sempre più marcati da aspetti paranoici.

Occorre del resto considerare che è obiettivamente difficile rinunciare alle occasioni sociali; è difficile rinunciare ad un pezzo di torta per il compleanno o al panettone di Natale e ci vuole davvero una grande forza di volontà per andare contro corrente, per cui è abbastanza normale che la personalità dell’individuo si irrigidisca, non solo nei riguardi di se stessi, ma anche degli altri.

Dr. Walter La Gatta

ANCONA FABRIANO TERNI CIVITANOVA MARCHE E ONLINE

Tariffe Psicoterapia

Può trattarsi di una forma mascherata di controllo?

Si. A differenza dell’anoressia o della bulimia, in cui l’obiettivo primario è solitamente il controllo del peso o dell’immagine corporea, nell’ortoressia la motivazione dichiarata è quella della salute. Tuttavia, la ricerca mostra che dietro l’ossessione per il cibo sano si celano spesso ansie più profonde: paura della contaminazione, bisogno di controllo, perfezionismo, e in alcuni casi una forma di identità personale costruita intorno alla purezza alimentare.

Quali sono le conseguenze fisiche e psicologiche?

Le conseguenze fisiche dell’ortoressia possono essere gravi, soprattutto quando l’eliminazione di interi gruppi alimentari comporta carenze nutrizionali, perdita di peso e squilibri metabolici. Le conseguenze psicologiche comprendono ansia cronica, depressione, perdita di spontaneità nella vita quotidiana e compromissione della qualità delle relazioni.

È importante notare che, in molti casi, l’ortoressia può insorgere gradualmente, passando da un’attenzione legittima verso una dieta equilibrata a una spirale di rigidità, regole e isolamento.

Il contesto culturale: quanto conta?

Molto. L’ortoressia si sviluppa in un contesto culturale in cui l’alimentazione “pulita” (clean eating), le diete “detox”, il bio, il naturale e l’“healthy lifestyle” vengono spesso idealizzati e promossi come sinonimo di virtù, successo e autodisciplina. I social media, in particolare, contribuiscono alla diffusione di modelli alimentari estremi, accompagnati da immagini patinate e da narrazioni che confondono la salute con il moralismo.

Questa pressione culturale può favorire la comparsa o il mantenimento di comportamenti ortoressici, soprattutto in persone predisposte al perfezionismo, al controllo o con una storia di disturbi alimentari.

IPNOSI CLINICA: una intervista al Dr. Walter La Gatta

YouTube player

ANCONA FABRIANO TERNI CIVITANOVA MARCHE E ONLINE
 

Tariffe Psicoterapia

Quali sono le altre “manie” degli ortoressici?

Le persone ossessionate dal cibo sano, come intuibile, sono anche quelle della  ‘salute, a qualsiasi costo’ dunque il loro interesse non riguarda solamente l’alimentazione, ma anche l’ossessione per il fitness, la pulizia, i massaggi, il rilassamento, la meditazione

Possono esservi poi altre fissazioni che portano ad esempio ad evitare, nei luoghi pubblici, stoviglie (piatti, pentole, posate) contaminate dalle ‘vibrazioni’ della carne, oppure considerate tossiche, come quelle di alluminio o di plastica, oppure al ristorante chiedere un piatto di insalata con foglie non tagliate, per non far perdere alla verdura le sue qualità nutritive, mangiare solo (e soltanto) verdura e frutta di stagione, o escludere dalla propria dieta anche i latticini e le uova, per essere vegetariani totali, o ‘vegetaliani’, come molti si definiscono.

Un altro segnale di ortoressia è la conoscenza precisa di tutte le etichette dei cibi in vendita al supermercato: questi soggetti conoscono a memoria i componenti nutritivi di ogni genere di prodotto, per cui sanno benissimo, in termini assoluti ed in percentuale, quanti grassi saturi e insaturi contiene quel determinato prodotto, il suo valore calorico, i carboidrati… In pratica questi ‘estremisti del cibo’ focalizzano tutte le loro attenzioni ed energie solamente sugli aspetti dietetici, trascurando completamente gli altri aspetti della loro vita quotidiana, come ad esempio le relazioni sociali.

Quale trattamento?

Poiché l’ortoressia non è ancora una diagnosi ufficiale, la sua individuazione può risultare difficile. Inoltre, molte persone ortoressiche non percepiscono il proprio comportamento come problematico, convinte di perseguire uno stile di vita virtuoso. Tuttavia, quando l’ossessione per il “mangiar sano” compromette la salute, il benessere psicologico e la vita sociale, è importante cercare un supporto professionale.

Il trattamento può includere:

  • Psicoterapia individuale
  • Educazione alimentare
  • Psicoeducazione

Dr. Walter La Gatta

ANCONA FABRIANO CIVITANOVA MARCHE TERNI E ONLINE

Come si previene il disturbo?

Prevenire significa sapersi porre dei limiti quando ci si accorge di esagerare in questo ambito: il campanello d’allarme può suonare quando ci si accorge di aver rifiutato un invito a stare con gli altri a causa del cibo, o quando ci si sta per presentare ad una festa con il proprio pacchettino di cibo macrobiotico, ad uso strettamente personale.

Deve poi essere interrotto il circolo vizioso che porta l’ortoressico a programmare il pasto, ad acquistare personalmente il cibo e a cucinarlo secondo determinate teorie: cercare di limitare questa o quella attività, delegando ad altri la responsabilità della propria alimentazione, almeno un giorno alla settimana, può essere l’inizio di un’autoterapia.

L’importante è concedersi una sorta di ‘licenza di mangiare tutto’ almeno qualche volta, in giorni stabiliti, in modo poi di non sentirsi in colpa.

L’ortoressia  di Bratman è stato criticata da alcuni scienziati?

Si; essi sostengono che il desiderio di seguire una dieta sana è nel migliore dei casi benefico e non indica un disturbo psicologico di sé. L’ortoressia è stata piuttosto collegata a disturbi dello spettro ossessivo-compulsivo.

Dr. Walter La Gatta

Una intervista sulla Timidezza

YouTube player

 

Immagine
Pexels

I Social
Scegliere sapendo di rimetterci

Scegliere sapendo di rimetterci: il gusto che c’è

Scegliere sapendo di rimetterci: il gusto che c’è

Dal punto di vista psicologico si capisce perfettamente come masse angosciate, avvilite, sfiduciate, possano appoggiare una rivoluzione che promette di cambiare totalmente le cose, dal momento che cambiare tutto, in molti casi, può apparire migliore del non cambiare niente, o del cambiare troppo poco. Ciò che è difficile da capire è come si possa appoggiare una linea politica che va in direzione opposta rispetto ai propri interessi.

Per spiegare questa particolare dinamica si potrebbe utilizzare la scoperta di Molly Crockett, neuroscienziata e ricercatrice presso l’Università di Oxford, esperta di psicologia della punizione. La ricercatrice ha infatti scoperto che le persone, in presenza di una condizione di percepita ingiustizia, sono portate a fare delle scelte che prevedono la punizione di coloro che sentono come antagonisti, anche se sanno benissimo che questa scelta non porterà loro alcun guadagno, semmai qualche danno.

Seguici su YouTube Psicolinea Channel

Il modo classico per studiare in laboratorio il desiderio umano di punire gli altri prevede l’uso del “gioco dell’ultimatum”. Funziona così: ad un giocatore vengono dati dei soldi, che ha la possibilità di dividere con un secondo giocatore. Questo secondo giocatore può accettare la parte di denaro che gli viene offerta dal primo giocatore, o rifiutarla. Se però la rifiuta, nessun giocatore riceve un centesimo e quindi questo va a danno di entrambi i giocatori.

Questo esperimento è stato studiato per quasi 40 anni e i ricercatori hanno scoperto che se il primo giocatore offre al secondo meno del 30% della somma totale, la maggior parte dei secondi giocatori considera questa proposta talmente ingiusta, da respingerla. I secondi giocatori rinunciano così alla loro piccola parte, ma fanno saltare il premio anche per i primi giocatori. Il piacere di punire il primo giocatore ricompensa dunque il secondo giocatore del suo mancato guadagno.

Gli esperimenti della Crockett hanno implicazioni abbastanza importanti: infatti, nei suoi studi di imaging cerebrale si vede che l’atto del punire impegna la parte del cervello che gestisce il sistema della ricompensa, la stessa che viene attivata dalle sostanze stupefacenti. Potrebbe dunque esistere la possibilità che, col tempo, si possa instaurare una sorta di dipendenza dal bisogno di punire chi (a proprio avviso) sbaglia, per sentirsi più felici.

Clinica della Timidezza
Dal 2002 parole che curano, orientano e fanno pensare.

In tempi moderni questo bisogno di punire potrebbe essere riconosciuto non solo nel mondo reale, ma anche in quello virtuale, sui social media. Alcune persone, come l’hater impersonato da Crozza con la consueta abilità, avvelenano le discussioni online con i loro commenti, improntati a un odio violento e che spesso appare immotivato. Sicuramente è un modo per cercare gratificazioni attraverso la distruzione mediatica dei propri nemici, reali o presunti tali.

Chi odia, chi vuole punire, non sempre è consapevole del bisogno che sottostà a questi comportamenti: le persone tendono infatti a giustificare le proprie posizioni estremiste sostenendo che il proprio obiettivo è positivo, come può essere, ad esempio, il ristabilimento della giustizia sociale, il rispetto di un valore etico condiviso, la sicurezza del proprio Paese.

Questi meccanismi richiamano, tra l’altro, il concetto di “sublimazione”, il meccanismo di difesa individuato da Sigmund Freud, che si basa sullo spostamento di una pulsione sessuale o aggressiva verso una meta diversa, che non appare sessuale o aggressiva, come ad esempio sono le attività artistiche, o quelle a carattere intellettuale e culturale. In questo senso, dietro un acceso attivismo politico potrebbero, ad esempio, celarsi pulsioni, sessuali o aggressive, che nulla hanno a che fare con gli obiettivi dichiarati, ma che hanno comunque bisogno di esprimersi.

Psicolinea Facebook

Fatte queste riflessioni, a livello individuale potremmo chiederci se, dietro alle nostre convinzioni etiche o politiche, ai nostri comportamenti di opposizione costante, di contrasto o di conflitto, vi sia sempre la volontà di raggiungere un obiettivo che riteniamo giusto, o vi sia piuttosto l’irrefrenabile desiderio di dare una sonora lezione a qualcuno, anche se questo ci comporterà qualche danno.

Dr. Giuliana Proietti

Intervento del 14-09-2024 su Sessualità e Terza Età
Dr. Giuliana Proietti

YouTube player

 

Pubblicato anche su Huffington Post

Terapia di Coppia

Immagine
Freepik

I Social
Figli gay: cosa fare in caso di coming out

Figli gay: cosa fare in caso di coming out

Figli gay: cosa fare in caso di coming out

Relazione sulle Coppie Non Monogamiche

YouTube player

Chi viene a sapere per primo dell’omosessualità di un ragazzo/una ragazza?

Di solito, la prima rivelazione dell’omosessualità avviene al di fuori della famiglia: il primo ad esserne informato è un amico eterosessuale, poi un fratello o una sorella e infine i genitori. Gli amici rappresentano infatti un’importante fonte di sostegno e di conforto per il giovane gay, specialmente nel caso la sua famiglia di origine sia omofobica e non disponibile ad accettare questa rivelazione.

Perché i genitori possono rimanere traumatizzati da questa notizia?

Molti genitori sono, ancora oggi, particolarmente influenzati dagli stereotipi e dai luoghi comuni che riguardano la sessualità, per cui possono reagire in modo imprevedibile: superato lo shock iniziale, possono esprimere sentimenti di rabbia verso il figlio, a causa del dolore che stanno provando, oppure possono sentirsi colpevoli della sua omosessualità e tentare in tutti i modi di ‘curarlo’, magari proponendogli la conoscenza di potenziali partner di sesso opposto, o cure psicologiche.

Quali altre reazioni sbagliate possono avere i genitori?

I genitori potrebbero iniziare a minacciare o a ricattare psicologicamente il giovane, con umiliazioni pubbliche e divieto di uscire di casa. Il senso di fallimento e di colpa provato dai genitori per questa rivelazione, il loro senso di vergogna nei confronti del mondo esterno, può creare conflitti con il figlio e anche all’interno della relazione di coppia, con comportamenti impulsivi, dettati dai pregiudizi e dalla scarsa informazione. La famiglia può optare inoltre per l’isolamento sociale, cosa che non migliora certo la condizione già critica in cui si trova il giovane.

Seguici sui sociale

Facebook - Instagram - X

Quale è la reazione migliore?

La reazione migliore è quella di non drammatizzare: i genitori non possono decidere loro quale dovrebbe essere l’orientamento sessuale del figlio e dunque devono accettare questa rivelazione senza mostrare segni di delusione.

Se il ragazzo o la ragazza sono molto giovani può essere utile fare in modo che ne parlino con un sessuologo, per cercare di comprendersi meglio e comprendere meglio anche le loro scelte. In adolescenza, ad esempio, è possibile che vi siano incertezze sull’orientamento sessuale per mancanza di esperienza, timidezza, difficoltà di stabilire una relazione o di sentirsi accettati, ecc. In ogni caso, è importante dimostrare al figlio che fa coming out che l’affetto che i genitori provano per lui/lei rimane immutato.

Quali potrebbero essere le scelte del ragazzo/della ragazza nel caso decida di non parlarne con i genitori?

Se il giovane sa che potrebbe verificarsi una reazione negativa a tale scoperta, in genere preferisce tacere sulla sua situazione omosessuale prendendo le distanze dal proprio nucleo familiare, anche trasferendosi in altre località, con la scusa delle scelte scolastiche o lavorative. La distanza psicologica dai genitori può anche non comportare distanze geografiche: possono essere semplicemente ridotti gli spazi di comunicazione e di confronto, pur continuando a vivere nella stessa casa.

Clinica della Timidezza
Dal 2002 parole che curano, orientano e fanno pensare.

Con il tempo i genitori possono riuscire a cambiare opinione e accettare l’omosessualità del figlio senza problemi?

Certamente: un fattore da non sottovalutare nel miglioramento dei rapporti familiari è il tempo. Spesso, dopo le angosce iniziali, alcuni genitori sono disposti ad informarsi meglio sul tema dell’omosessualità, documentandosi o parlandone con altre persone più esperte, fino a che il momento doloroso della rivelazione risulta sempre più lontano ed il nuovo rapporto con il figlio, ricostruito con fatica, comincia a diventare più stabile e sereno.

Può essere utile parlarne con altri genitori di figli gay?

Si, può essere molto utile prendere contatto con le numerose associazioni di genitori di figli omosessuali, che offrono un importante momento di confronto e di conforto, offrendo utili consigli per affrontare meglio la cosa.

Dr. Walter La Gatta



Immagine
Pexels

Una intervista sulla Timidezza

YouTube player

 

CITTA' DI RICEVIMENTO - COSTI

Costi Psicoterapia e Città

 

I Social
Intelligenza emotiva: cosa è e a che serve

Intelligenza emotiva: cosa è e a cosa serve

Intelligenza emotiva: cosa è e a cosa serve


Terapie online, ovunque tu sia
Dr. Giuliana Proietti - Tel. 347 0375949

Intelligenza emotiva: che cosa è?

E’ la capacità di riconoscere le proprie emozioni e quelle degli altri, di riconoscere sentimenti diversi e saperli definire appropriatamente, usare le “informazioni emotive” per guidare il pensiero e il comportamento, e gestire e / o regolare le emozioni per adattarsi agli ambienti o raggiungere i propri obiettivi. L’intelligenza emotiva riflette anche le capacità di unire l’intelligenza, l’empatia e le emozioni per migliorare il pensiero e la comprensione delle dinamiche interpersonali.

Una intervista sull'anorgasmia femminile

YouTube player

ANCONA FABRIANO TERNI CIVITANOVA MARCHE E ONLINE

Come è nato questo termine?

Il termine “intelligenza emotiva” apparve per la prima volta in un articolo del 1964 di Michael Beldoch e successivamente nella tesi di dottorato di Wayne Payne, A Study of Emotion: Developing Emotional Intelligence del 1985, ma è divenuto estremamente popolare solo dal 1995, quando un giornalista scientifico, Daniel Goleman, scrisse un libro con questo titolo.

Chi è Daniel Goleman e perché è importante?

Daniel Goleman, psicologo laureato ad Harvard e per molti anni giornalista scientifico per il New York Times, ha il grande merito di aver contribuito a sviluppare un atteggiamento culturale più attento, rispettoso e favorevole nei confronti delle emozioni. Il suo libro, Emotional Intelligence, per un anno e mezzo è stato nella lista dei bestseller del New York Times, è stato più volte ristampato, fino a raggiungere i 5.000.000 di copie, vendute in tutto il mondo (il libro è stato tradotto in trenta lingue).

A quale modello si è ispirato Goleman?

Goleman ritiene che l’intelligenza emotiva consti di due tipi fondamentali di competenza: la competenza personale e la competenza sociale.

Relazione sull'Innamoramento - Festival della Coppia 2023

YouTube player


Quali sono gli aspetti che riguardano la competenza personale?

Sono tre: Consapevolezza di sé, padronanza di sé e motivazione.
Più in dettaglio:

Consapevolezza di sé

  • Consapevolezza emotiva: riconoscimento delle proprie emozioni e dei loro effetti;
  • Autovalutazione accurata: conoscenza dei propri punti di forza e dei propri limiti;
  • Fiducia in se stessi: sicurezza nel proprio valore e nelle proprie capacità;

Padronanza di sé

  •  Autocontrollo: dominio delle emozioni e degli impulsi distruttivi;
  • Fidatezza: mantenimento di standard di onestà e integrità;
  • Coscienziosità: assunzione delle responsabilità per quanto attiene alla propria prestazione;
  • Adattabilità: flessibilità nel gestire il cambiamento;
  • Innovazione: capacità di sentirsi a proprio agio e di avere un atteggiamento aperto di fronte a idee, approcci e informazioni nuovi.

Motivazione

  • Spinta alla realizzazione: impulso a migliorare o a soddisfare uno standard di eccellenza;
  • Impegno: adeguamento agli obiettivi del gruppo o dell’organizzazione
  • Iniziativa: prontezza nel cogliere le occasioni
  • Ottimismo: costanza nel perseguire gli obiettivi nonostante ostacoli e insuccessi

Relazione fra sesso e cibo

YouTube player

ANCONA FABRIANO TERNI CIVITANOVA MARCHE E ONLINE

Quali sono gli aspetti che riguardano la competenza sociale?

Questi aspetti sono l’empatia e le abilità sociali.

Più in dettaglio:

Empatia

  • Comprensione degli altri: percezione dei sentimenti e delle prospettive altrui; interesse attivo per le preoccupazioni degli altri;
  • Assistenza: anticipazione, riconoscimento e soddisfazione delle esigenze degli altri:
  • Promozione dello sviluppo altrui: percezione delle esigenze di sviluppo degli altri e capacità di mettere in risalto e potenziare le loro abilità;
  • Sfruttamento della diversità: saper coltivare le opportunità offerte da persone di diverso tipo;
  • Consapevolezza politica: saper leggere e interpretare le correnti emotive e i rapporti di potere in un gruppo

Abilità sociali

  • Influenza: impiego di tattiche di persuasione efficienti
  • Comunicazione: invio di messaggi chiari e convincenti
  • Leadership: capacità di ispirare e guidare gruppi e persone
  • Catalisi del cambiamento: capacità di iniziare o dirigere il cambiamento
  • Gestione del conflitto: capacità di negoziare e risolvere situazioni di disaccordo
  • Costruzione di legami: capacità di favorire e alimentare relazioni utili
  • Collaborazione e cooperazione: capacità di lavorare con altri verso obiettivi comuniLavoro in team: capacità di creare una sinergia di gruppo nel perseguire obiettivi comuni

Tratto da Lavorare con l’intelligenza emotiva, di Daniel Goleman

Terapie Sessuali

Si può apprendere l’intelligenza emotiva?

Si. Goleman ipotizza che sia possibile imparare l’intelligenza emotiva in qualsiasi fase della propria vita, anche se questo potrebbe richiedere un periodo di tempo molto lungo.

Che cosa è l’alessitimia?

Le persone che mancano di intelligenza emotiva sono coloro che soffrono di alessitimia (incapacità di esprimere le proprie emozioni e di empatizzare con gli altri).  Vi sono diversi livelli di alessitimia: a volte l’incapacità di riconoscere ed esprimere le proprie emozioni infatti non è assoluta, ma limitata ad alcuni particolari contenuti, situazioni, emozioni.

Come sono percepite le persone con intelligenza emotiva?

Gli individui emotivamente intelligenti sono percepiti in modo maggiormente positivo dagli altri (appaiono più gradevoli, socialmente preparati ed empatici). Questi individui hanno anche relazioni di coppia e familiari più soddisfacenti, migliore rendimento scolastico, migliori relazioni sociali durante le prestazioni lavorative e nella soluzione dei conflitti. L’intelligenza emotiva è anche correlata positivamente con una maggiore soddisfazione della vita, autostima e percezione del benessere.

Gli individui emotivamente intelligenti hanno maggiori probabilità di avere una migliore comprensione di se stessi e di prendere decisioni consapevoli basate sull’emozione e sulla logica combinate. Complessivamente, queste competenze portano verso l’autorealizzazione.

Una Conferenza sulla Paura

YouTube player

In sostanza, avere intelligenza emotiva potrebbe significare vivere la vita in tranquillità, evitando gli scontri con gli altri?

Assolutamente no. In un articolo pubblicato su Harvard Business Review, Daniel Goleman sostiene che le persone si sbagliano sul concetto dell’essere “gentili” nell’intelligenza emotiva. In effetti, secondo Goleman, essere gentili non significa essere remissivi: riuscire ad essere abili in ciascuna delle quattro componenti dell’intelligenza emotiva può generare conflitti con gli altri, solo che l’intelligenza emotiva permette di gestire questi conflitti in modo più strategico e produttivo.

L’intelligenza emotiva, secondo Goleman. conferisce una forte autoconsapevolezza e capacità di autogestione, il che permette di controllare i propri impulsi iniziali o qualsiasi ansia che si potrebbe avere durante la conversazione. Un senso di empatia altamente sviluppato: fa parte della consapevolezza sociale – e permette di vedere la situazione dal punto di vista dell’altra persona, in modo da poter presentare agli altri la propria argomentazione in un modo che li faccia sentire ascoltati o che parli dei loro interessi. La gestione dei conflitti è una parte importante della gestione delle relazioni: è importante poter dire chiaramente e con forza quello che si pensa, e in un modo che l’altra persona possa sentire.

Credere che l’intelligenza emotiva significhi semplicemente essere “gentili”, sostiene Goleman, oscura ciò che rende questo quadro così utile e impedisce ai leader di avere conversazioni potenti e produttive per influenzare e guidare tutte le loro relazioni.

Concludendo, cosa pensare della intelligenza emotiva?

Concludendo, la popolarità dell’ intelligenza emotiva sembra sia dovuta più alla pubblicità di cui il concetto ha goduto nei media, piuttosto che a risultati scientifici oggettivi.

Tuttavia, è innegabile che la capacità di riconoscere i propri sentimenti e quelli degli altri, di motivare se stessi, e di gestire positivamente le emozioni, sia interiormente, sia nelle relazioni sociali, capacità non rilevate dai test di intelligenza (che si basano unicamente sulle capacità cognitive e sul pensiero razionale), non possano che essere di aiuto ad una persona che voglia perseguire i suoi obiettivi, nonostante le frustrazioni e gli eventuali insuccessi, perché permette di gestire meglio le emozioni, di controllare gli impulsi e di rimandare il momento della gratificazione.

Forse non è giusto parlare di intelligenza, forse si tratta solo di alcune abilità… In ogni caso, sono i risultati quelli che contano.

Dr. Giuliana Proietti

PSICOTERAPIA SESSUOLOGIA ONLINE
Anche su Instagram!


ANCONA FABRIANO TERNI CIVITANOVA MARCHE E ONLINE

Foto di Timothy Dykes su Unsplash

I Social
L'Effetto Lucifero: intervista a Philip Zimbardo

L’Effetto Lucifero: intervista a Philip Zimbardo

L’Effetto Lucifero: intervista a Philip Zimbardo

Le interviste

 

Philip Zimbardo è uno psicologo statunitense noto soprattutto per il suo famoso esperimento della prigione, noto come “Stanford Prison Experiment”, che sollevò importanti questioni sull’etica della ricerca psicologica. È anche autore di diversi libri di successo che esplorano temi come la psicologia dell’essere umano e il potere delle situazioni nell’influenzare il comportamento. Ecco un’intervista esclusiva per psicolinea.

WLG Lei è stato probabilmente il primo psicologo a dare importanza alla timidezza e a decidere di studiarla. Perché ha aperto la ‘Shyness Clinic’? E’ soddisfatto dei risultati raggiunti dalla ricerca in questo campo?

PhZ Credo di essere stato il primo ricercatore a studiare la timidezza negli adulti. Il mio interesse in questo argomento deriva dall’esperimento della prigione di Stanford (Stanford Prison Experiment, SPE). Dopo anni di ricerca sono cominciati i trattamenti per adulti e adolescenti timidi, allo scopo di mettere in pratica quanto avevamo appreso. (Vedi sezione del mio nuovo libro su questo argomento (1)

Psicolinea 20+anni di attività

WLG Si può dire che la timidezza non sia ‘patologica’, ma che rappresenta solo una riduzione delle abilità sociali e della fiducia in sé stessi ?

PhZ La timidezza varia enormemente da un ‘varietà infantile’ di lieve apprensione e riservatezza, a una discreta paura di incontrare gli altri, fino all’estrema, paralizzante paura e all’isolamento sociale.

In questi casi estremi essa diventa una patologia seria, che produce forte disagio alle persone, ma anche dei livelli medi di timidezza possono limitare molte opportunità sociali, influire sul proprio stile di vita, portare la persona timida a vivere una vita meno soddisfacente e perfino a guadagnare di meno di altri che non sono timidi.

I bambini timidi sono presi in giro a scuola, oppure sono vittime di bullismo, il che può portare ad un rendimento scolastico insoddisfacente.

WLG Tornando alla timidezza, il suo collega Bernardo Carducci ha parlato recentemente della sua teoria della ‘timidezza cinica’, una forma estrema di timidezza che riguarda soprattutto i maschi e che può portare a comportamenti violenti, come si sono visti nella scuola della Virginia. Lei cosa ne pensa?

PhZ Quando degli studenti timidi vengono presi in giro, sono vittime di bullismo o rifiutati in altri modi, essi costruiscono un risentimento e una rabbia nei confronti degli altri e contro il sistema scolastico che permette questi comportamenti. Negli Stati Uniti, questi soggetti hanno facile accesso alle armi; le armi cambiano i rapporti di forza, trasformando gli studenti timidi in persone pericolose, capaci di vendicarsi. Questa è la mia opinione sulla ‘timidezza cinica’ di Carducci.

Ho raccolto dei dati qualche anno fa che mostravano come la maggior parte degli uomini che si trasformavano ‘improvvisamente’ in assassini, che commettevano omicidi senza neanche aver avuto delle reazioni violente, erano molto timidi. Avevano anche un’immagine femminilizzata o androgina. Inoltre, essi sono ipercontrollati nei loro impulsi.

Una intervista sulla Timidezza

YouTube player

 

WLG Ci può spiegare come ha elaborato la sua nuova teoria dell’Effetto Lucifero che trasforma persone normali in persone malvagie ?

PhZ Il mio nuovo libro mi ha dato l’opportunità di mettere in relazione il male, come io avevo avuto modo di osservarlo e che avevo contribuito a creare nello studio della Stanford Prison, con gli altri mali presenti nel mondo, come il genocidio, la tortura, gli abusi sui prigionieri della prigione di Abu Graib da parte dei soldati americani, ed il male nelle aziende dove la brama trasforma delle persone intelligenti ed ambiziose, come accaduto alla Enron ed altri disastri.

La mia opinione è che molte di queste azioni malvagie vengano perpetrate da persone assolutamente normali da tutti i punti di vista, non portate al male o con problemi patologici. Credo che dovremmo prestare maggiore attenzione al potere di alcune forze che dipendono dalle situazioni sociali e alle forze del sistema che crea queste situazioni, quando vogliamo comprendere le cause del male e sviluppare mezzi per combatterlo e prevenirlo. E’ più frequente che sia un cattivo contesto a corrompere delle persone rette piuttosto che delle mele marce inserite in un ambiente sano. Credo che avremmo bisogno di un cambiamento di paradigma dal modello medico prevalente che si focalizza sull’individuo da curare, per adottare un modello di salute pubblica.

Questo tipo di modello cerca di trovare il virus che fa ammalare la società e poi vaccina la popolazione contro i suoi cattivi effetti. Il male è un virus che si trova in molte società: la mafia ne è un esempio. Non è abbastanza focalizzare l’attenzione solo su chi compie il male, ma anche sulle condizioni del sistema che supporta e mantiene l’abitudine al male. Intendo dire anche i valori legati alla cultura, alla legalità, alla politica, alla storia, che legittimano le persone che si comportano in modo malvagio.

Clinica della Timidezza
Dal 2002 parole che curano, orientano e fanno pensare.

WLG Secondo la sua teoria, un normale individuo può anche, in alcune particolari condizioni, agire bene e diventare un eroe…

PhZ Se le persone comuni possono essere colpevoli della banalità del male, possono anche erigersi a rappresentare il meglio della natura umana, nella banalità dell’eroismo. Credo che la migliore difesa o antidoto al male sociale sia promuovere l’immaginario eroico nel maggior numero di persone possibile. Gli eroi sono in genere delle persone normali, eroi della vita quotidiana, i quali in particolari situazioni si coinvolgono in azioni straordinarie.

Essi agiscono mentre gli altri restano passivi. Si interessano di più degli altri, sono socio-centrici piuttosto che interessati al proprio egocentrico benessere. Sto iniziando una ricerca sperimentale progettata per studiare quale è il momento decisivo perché una persona decida di compiere un atto eroico, come disobbedire ad una autorità ingiusta. Il mio collaboratore dell’Università di Palermo, Piero Bocchiaro ed io abbiamo da poco completato la prima serie di esperimenti per cercare di comprendere quali fattori sociali e di personalità caratterizzano le persone che si sono comportate in modo eroico.

Nell’ultimo capitolo dell’Effetto Lucifero, presento una nuova tassonomia di 12 differenti tipi di eroi con esempi tratti da varie culture. Naturalmente, l’eroismo è culturalmente e storicamente definito. Quando il mio libro sarà tradotto in italiano, verso la primavera del 2008, spero di ricevere dei riscontri dai lettori italiani circa la natura di quelli che essi definiscono eroi.

Walter La Gatta



(1) La timidezza come prigione auto-imposta

Quale altra prigione è così oscura come il proprio cuore!
Quale carceriere è così inesorabile come il proprio sé?
Nathaniel Hawthorne

Nella prigione allestita negli scantinati, i prigionieri hanno rinunciato alle loro libertà basilari in seguito al controllo coercitivo delle guardie. Tuttavia, a parte il laboratorio, anche nella vita reale molte persone volontariamente rinunciano alla propria libertà di parola, di azione e di associazione anche senza che vi siano delle pressioni esterne che impongano di farlo.

Ciò dipende dall’interiorizzazione che esse hanno fatto di questi carcerieri così esigenti, che sono diventati parte del proprio sé; le guardie che limitano le opportunità verso la spontaneità, la libertà, la gioia di vivere. Paradossalmente, queste stesse persone hanno interiorizzato anche l’immagine del prigioniero passivo che, seppure in modo riluttante, si mostra acquiescente nei confronti di queste restrizioni che si è auto-imposto in tutte le proprie azioni. Ogni azione che richiama l’attenzione degli altri spaventa queste persone che temono di sentirsi potenzialmente umiliate, di provare sentimenti di vergogna, di essere rifiutate dagli altri, per cui tutto questo va evitato.

In risposta al carceriere interno, la persona si fa prigioniera e si tira indietro dalla vita, nascondendosi dentro una corazza, scegliendo la sicurezza della silenziosa prigione della timidezza. Elaborando questa metafora, a partire dall’esperimento della Stanford University, ho pensato alla timidezza come una fobia sociale che rompe i legami dei rapporti interpersonali facendo degli altri una minaccia, anziché un’opportunità. L’anno successivo al termine del nostro studio sulla SPE, ho iniziato un progetto di ricerca più impegnativo, il Progetto Timidezza della Stanford University per investigare le cause, le componenti, le conseguenze della timidezza negli adulti e negli adolescenti.

Il nostro fu il primo studio sistematico della timidezza nell’adulto; quando ne sapemmo abbastanza, andammo avanti per sviluppare un programma di trattamento della timidezza in un’unica Shyness Clinic (1977). La Clinica, che è stata sempre in attività in tutti questi anni a Palo Alto, è diretta dalla Dr.ssa Lynne Henderson, ed ora è parte della facoltà di psicologia presso la Pacific Graduate School.

Il mio maggiore successo nel trattamento e nella prevenzione della timidezza è stato quello di sviluppare degli strumenti per aiutare le persone timide a liberarsi delle loro silenziose, auto-imposte prigioni. Ho fatto questo in parte scrivendo libri divulgativi per il grande pubblico su come trattare la timidezza negli adulti e nei bambini (2). Queste attività sono state un modo per riparare gli imprigionamenti cui avevo sottoposto i partecipanti all’esperimento presso la Stanford University ( SPE).

(Traduzione dall’inglese di Walter La Gatta, tutti i diritti riservati)

Psicolinea for open minded people

(2) Shyness research: Zimbardo, P G. (1986). The Stanford shyness project. In W. H. Jones, J. M. Cheek, & S. R. Briggs (Eds.), Shyness: Perspectives on research and treatment (pp. 17-25). New York: Plenum Press.

Zimbardo, P. G. (1977). Shyness: What it is, what to do about it. Reading, MA: Addison-Wesley,

Zimbardo, P. G., & Radl, S. (1986). The Shy Child. New York: McGraw Hill. Traduzione italiana: “Il bambino timido” (Erickson, 2000), di Philip Zimbardo e Shirley Radl

Chi è Philip Zimbardo?

Philip Zimbardo, Professore Emerito della Università di Stanford (nato il 23 Marzo del 1933) è conosciuto per il suo esperimento della prigione di Stanford (Stanford Prison Experiment, SPE) e come autore di libri di psicologia che hanno introdotto alla materia della psicologia uno sterminato numero di studenti.

Nel 2002, Zimbardo fu eletto Presidente della American Psychological Association. Sotto la sua direzione l’organizzazione sviluppò il sito PsychologyMatters.org, un compendio della ricerca psicologica che può essere utilizzato per le sue applicazioni pratiche, nella vita quotidiana. Nello stesso anno apparì come commentatore nel reality inglese The Human Zoo, dove i partecipanti venivano osservati mentre interagivano in un ambiente controllato.

Nel 2004, Zimbardo ha testimoniato presso la corte marziale in difesa del sergente Ivan “Chip” Frederick, una guardia della prigione di Abu Graib, sostenendo che la pena relativa a Frederick doveva essere ridotta a causa delle pressioni ambientali subite dal militare, con le aggravanti di un addestramento e di una supervisione molto limitati.. A Frederick è stata inflitta una pena di 8 anni. Zimbardo utilizzando l’ esperienza maturata con il caso Frederick ha scritto un nuovo libro, The Lucifer Effect: Understanding How Good People Turn Evil,(non ancora pubblicato in Italia).

Links

www.PrisonExp.org

www.Shyness.com

Su questo sito, altri articoli del Prof. Zimbardo.

Psicolinea.it © 2007

I Social