Razze, razzismo e paura di diventare minoranza

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Ogni raggruppamento d’individui con caratteri somatici esteriori comuni (es. colore della pelle) è stato per secoli definito ‘razza’: in realtà ciò è del tutto privo di fondamento sul piano dell’analisi genetica, tanto che oggi, almeno nella nostra lingua, il termine è sempre più spesso sostituito con quello più appropriato di “etnia”.

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Non possiamo infatti dimenticare la lezione di vita che ci dette Einstein quando, entrando da immigrato negli USA, dopo la fuga dalla Germania nazista, compilò la carta per ottenere il permesso di soggiorno, e arrivando alla richiesta di descrivere la razza di appartenenza scrisse semplicemente “umana”.

Tutti apparteniamo infatti alla razza umana, siamo fatti nello stessi modo, percepiamo la realtà in maniera identica: questo dovrebbe forse bastarci per capirci e andare d’accordo, visto che le somiglianze che ci accomunano sono molte più delle differenze che ci separano.

Oltre tutto, volendo dividere le popolazioni del mondo in “razze”: bianche, nere o gialle, si è visto che i nostri geni sono ormai tutti mescolati e non esiste più una razza “pura”. In uno studio di qualche anno fa, dei genetisti scoprirono che in Brasile persone dichiaratamente “bianche” avevano in realtà il 33 per cento di geni amerindi e il 28 per cento di geni africani. I neri avevano invece una proporzione molto elevata di geni non africani: ben il 48 per cento. Tutto ciò spiega quanto sia pericoloso identificare il colore della pelle con la stirpe o la provenienza geografica.

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Eppure, seppure la scienza ce lo spieghi e ce lo dimostri, leggendo gli studi psico-sociali, specialmente americani, ci si imbatte continuamente in questa odiosa divisione all’interno dei campioni utilizzati per le ricerche: caucasici, asiatici, afroamericani ecc. In Italia è molto difficile trovare uno studio (che non sia una traduzione dall’inglese), che parla esplicitamente di “razza”, perché appunto abbiamo ben compreso che le razze non esistono. Del resto, non dimentichiamoci che gli americani credono più alla Bibbia che a Darwin, e che i sostenitori della teoria creazionista in quel Paese riguardano il 40-47% della popolazione.

Questo potrebbe forse spiegare perché nella “Patria della democrazia” abbiano così bene attecchito idee come quelle che hanno portato Donald Trump al potere: la sua retorica razzista e nazionalista ha profondamente soddisfatto le aspettative di buona parte dei “nativi” americani, i quali si stanno dando molto da fare per recuperare le “loro” terre. (Molte delle quali furono, a suo tempo e a loro volta, sottratte agli indiani).

Sebbene gli Stati Uniti siano una sorta di melting pot di persone provenienti da tutte le zone geografiche, quando nel 2008, il Census Bureau pubblicò un rapporto che prevedeva uno stravolgimento, entro il 2050, della demografia americana, per cui le minoranze (cioè i non-bianchi) sarebbero salite ad oltre il 50 per cento della popolazione e sarebbero dunque diventate la maggioranza, ciò destò moltissima preoccupazione.

La psicologa Jennifer Richeson, docente ad Harvard, ha condotto da allora diversi studi sulle interazioni interrazziali scoprendo che quando le persone vivono in un ambiente in cui si sentono la maggioranza, la percezione delle differenze razziali è meno evidente. Se però la prospettiva cambia e si rischia di scoprirsi minoranza, ciò può improvvisamente esaltare la percezione di appartenenza alla propria gente, alla propria “razza”.

La stessa cosa sta accadendo anche in Italia: la copiosa immigrazione, la minaccia percepita del cambiamento demografico, l’instabilità sociale e politica sta rendendo le persone sempre più insicure e, per questa ragione, più propense a fare discorsi e scelte che una volta si sarebbero vergognate di fare.

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Come mostra, ad esempio, lo studio della Richeson, le persone si trovano a scegliere, nei questionari, affermazioni come questa: “Preferirei lavorare con persone della mia stessa origine etnica” o a mostrare apertamente meno empatia verso i membri di altre etnie, senza sentirsi in colpa per questo.

La perdita di empatia verso soggetti di altre etnie si è materializzata in modo sconvolgente pochi giorni fa in Italia, a Venezia, con quella storia incredibile dell’immigrato nero che si è gettato dal Canal Grande per commettere suicidio e che non solo nessuno si è tuffato per salvarlo, ma qualcuno gli ha addirittura gridato insulti razzisti. E pensare che fino a pochi decenni fa erano gli italiani ad emigrare, fra cui moltissimi veneti… Ma la storia si dimentica facilmente, specie quando non fa comodo.

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Nigel Farage, Marine Le Pen, il nostro Salvini, vedono in Putin un grande statista;  la britannica Theresa May si propone con entusiasmo di diventare un’alleata di Trump, grande sostenitore non solo della pena di morte, ma perfino della tortura! Ma quale leader occidentale ha finora parlato in questi termini?

Non lasciamo che la paura dell’immigrazione diventi una copertura per re-introdurre i mai del tutto azzerati ideali fascisti e nazisti, come quello della “difesa della razza”: stavolta è difficile capire chi potrebbe salvarci dall’orrore, sbarcando in Normandia.

Dr. Giuliana Proietti

 

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Pubblicato anche su Huffington Post

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