Come e perché Freud abbandonò l'ipotesi della seduzione infantile

Come e perché Freud abbandonò l’ipotesi della seduzione infantile

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Sigmund Freud, nel corso dello sviluppo della psicoanalisi, ha attraversato diverse fasi teoriche;  uno dei momenti di svolta più significativi fu l’abbandono della teoria della seduzione infantile, inizialmente formulata tra il 1895 e il 1897 e poi sostituita con la teoria della fantasia e del desiderio inconscio. Questa transizione ha avuto profonde implicazioni sulla psicoanalisi, segnando il passaggio da un modello basato su eventi reali a uno centrato sui processi psichici interni. 

La teoria della seduzione: il trauma come causa della nevrosi

Inizialmente, Freud era convinto che le nevrosi fossero il risultato di esperienze di seduzione sessuale subite dai bambini da parte di adulti, spesso genitori o figure di riferimento. Secondo questa ipotesi, il trauma dell’abuso sessuale infantile veniva rimosso nell’inconscio e, in età adulta, riemergeva sotto forma di sintomi nevrotici. Questa teoria si basava sulle testimonianze dei suoi pazienti, che sotto ipnosi o nel contesto della terapia psicoanalitica sembravano rievocare episodi di abuso infantile.

Freud presentò questa ipotesi in diverse comunicazioni scientifiche, tra cui la famosa lettera a Wilhelm Fliess del 21 settembre 1897, in cui dichiarava di aver identificato abusi sessuali nei racconti di tutti i suoi pazienti nevrotici.

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L’abbandono della teoria della seduzione

Nel 1897, Freud iniziò a mettere in discussione la validità della teoria della seduzione per diverse ragioni:

  • La diffusione dei racconti di abuso: Freud notò che il numero di pazienti che riportavano esperienze di seduzione infantile era sorprendentemente alto. Se la teoria fosse stata corretta, avrebbe implicato un’incidenza di abusi sessuali nell’infanzia molto più elevata di quanto sembrasse plausibile.
  • La scarsa verificabilità dei ricordi: molti pazienti riportavano episodi di seduzione solo dopo un lungo lavoro analitico, suggerendo che questi ricordi potessero essere costruzioni tardive piuttosto che eventi reali.
  • L’emergere del concetto di fantasia inconscia: Freud si rese conto che i pazienti non stavano necessariamente rievocando ricordi reali, ma esprimevano fantasie inconsce legate alla sessualità infantile. Queste fantasie, spesso di natura edipica, non erano il risultato di esperienze effettive, ma di conflitti psichici interni.
  • Il caso dell’isteria maschile: Freud osservò che anche i pazienti di sesso maschile soffrivano di sintomi isterici, nonostante la teoria della seduzione fosse inizialmente formulata in relazione alle donne. Ciò lo portò a ipotizzare che il nucleo della nevrosi non fosse il trauma reale, ma il desiderio inconscio e il conflitto che ne derivava.

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La riflessione di Freud

Come il sogno, nel suo contenuto manifesto, rappresenta l’esaudimento mascherato di un desiderio, così anche il sintomo nevrotico e la nevrosi di traslazione esprimono l’esaudimento mascherato di un desiderio rimosso. Il desiderio rimosso viene spesso sperimentato sotto forma di fantasie infantili: Freud arrivò così gradualmente ad apprezzare il grandissimo significato della fantasia nella vita psichica e nello sviluppo degli esseri umani.

Un’altra conclusione era a questo punto inevitabile: che il bambino ha fantasie sessuali le quali includono desideri di natura proibita o incestuosa. Tali desideri possono essere presentati in forma distorta e mascherata nel materiale dei sogni. Ormai era chiaro che la sessualità svolgeva un ruolo importante, sia durante l’infanzia, sia nell’adolescenza.

Dalla seduzione alla sessualità infantile: la nuova teoria

Dopo aver abbandonato la teoria della seduzione, Freud sviluppò il concetto di sessualità infantile, che divenne un pilastro della psicoanalisi. In questa nuova prospettiva, la nevrosi non era il risultato di un evento traumatico esterno, ma della lotta interna tra desideri inconsci e difese psichiche.

Freud teorizzò che i bambini non fossero esseri asessuali, ma attraversassero fasi di sviluppo libidico (orale, anale, fallica) culminanti nel complesso di Edipo, in cui il desiderio verso il genitore di sesso opposto e la rivalità con il genitore dello stesso sesso giocavano un ruolo centrale. Questo passaggio segnò il definitivo spostamento della psicoanalisi da una teoria del trauma a una teoria del desiderio.

Una lezione divulgativa su Freud e il suo libro "Totem e Tabù"

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Implicazioni e controversie

L’abbandono della teoria della seduzione fu uno degli snodi più discussi della storia della psicoanalisi. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che Freud abbia ritrattato la sua teoria iniziale per ragioni culturali e sociali: l’idea che l’abuso sessuale infantile fosse diffuso nelle famiglie borghesi del tempo era inaccettabile e avrebbe potuto compromettere la credibilità della psicoanalisi. Altri, invece, sostengono che Freud fece una scoperta fondamentale, spostando l’attenzione dai traumi reali ai processi psichici, aprendo la strada alla comprensione dell’inconscio.

Il crollo dell’ipotesi della seduzione,  che era sembrato un ostacolo, divenne infatti una nuova prospettiva di lavoro per Freud: l’accento veniva ora posto sulla sessualità infantile e sulla fondamentale importanza delle pulsioni, come causa della formazione della fantasia e come fonte delle proprietà dinamiche dell’apparato psichico.

Negli ultimi decenni, il dibattito si è riaperto con le ricerche sulla memoria traumatica e le testimonianze di abusi sessuali infantili. Studi contemporanei sulla dissociazione e sui disturbi post-traumatici suggeriscono che, in alcuni casi, ricordi rimossi possano effettivamente riemergere. Tuttavia, la psicoanalisi freudiana rimane centrata sul conflitto inconscio piuttosto che sulla mera ricostruzione storica del trauma.

Fonte principale: Zetzel-Meissner, Psichiatria psicoanalitica, Boringhieri

Dott.ssa Giuliana Proietti

Intervento del 14-09-2024 su Sessualità e Terza Età
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Adolescenza e problemi adolescenziali: come e quando intervenire

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Adolescenza deriva dal latino “adolescere”, ovvero “crescere”. È una fase di transizione tra infanzia ed età adulta, caratterizzata da profondi cambiamenti fisici, cognitivi, emotivi e relazionali. L’adolescente non solo assiste al cambiamento del suo corpo, ma si trova a rimettere in discussione tutte le competenze e le conoscenze acquisite, il rapporto con se stesso e con gli altri, sperimenta nuovi piaceri, conosce nuovi doveri e responsabilità, deve imparare a gestire nuove emozioni. Tutti questi cambiamenti producono una crisi esistenziale, in cui gli adolescenti possono non sentirsi compresi o sentirsi rifiutati, dagli adulti e dai coetanei. Cerchiamo di saperne di più.

Quali sono i principali cambiamenti durante l’adolescenza?

Durante l’adolescenza si verificano trasformazioni ormonali, crescita fisica (altezza, peso, caratteri sessuali secondari), sviluppo cerebrale (sistema limbico e corteccia prefrontale), e cambiamenti emotivi e sociali.

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In che modo l’adolescente cambia psicologicamente?

L’adolescente comincia a fare riflessioni su di sé, sull’identità personale e sull’identità sessuale. Cresce la necessità di autonomia, ma anche la vulnerabilità alle opinioni dei coetanei. Le emozioni diventano più intense e difficili da gestire.

Quando inizia e finisce l’adolescenza?

Secondo l’OMS, va dai 10 ai 19 anni, ma molti studi includono anche i giovani fino a 24-25 anni, data la durata degli studi e l’ingresso posticipato nel mondo adulto.

Qual è il ruolo delle culture nello sviluppo adolescenziale?

Nelle culture meno sviluppate, l’adolescenza può essere breve. Nei paesi industrializzati, invece, è spesso più lunga per via della maggiore complessità nella transizione all’età adulta. Infatti, oggi i giovani trascorrono un maggior numero di anni nella scuola e nella formazione professionale, per cui il momento dell’ingresso nel mondo del lavoro o della costruzione di una propria famiglia sono stati post-posti rispetto a quanto avveniva nel passato.

Quali sono le problematiche moderne per gli adolescenti?

Tra le problematiche più attuali troviamo: l’uso dei social media, il cyberbullismo, l’identità digitale, la pressione scolastica, il cambiamento climatico, l’inclusività e le questioni di genere.

Che cos’è il disagio adolescenziale?

È un malessere che può manifestarsi con sintomi come aggressività, ritiro sociale, calo del rendimento scolastico, disturbi alimentari, dubbi sull’identità sessuale e ansia.

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Quali sono i comportamenti a rischio in adolescenza?

Uso di sostanze, vandalismo, guida pericolosa, sessualità non protetta, autolesionismo. Molti adolescenti sperimentano senza mettere a rischio la salute, ma alcuni necessitano supporto specifico.

Come cambia la salute in adolescenza?

Oltre ai cambiamenti ormonali e fisici, possono emergere patologie specifiche: disturbi alimentari, depressione, diabete di tipo 1, sindrome dell’ovaio policistico, problematiche autoimmuni.

Che ruolo hanno i genitori durante l’adolescenza?

I genitori devono imparare a stare accanto senza invadere, offrendo ascolto, comprensione e limiti adeguati. Una comunicazione empatica è fondamentale per sostenere il benessere dell’adolescente.

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Come riconoscere un adolescente in difficoltà?

Segnali comuni sono: isolamento, rabbia eccessiva, calo del rendimento scolastico, cambiamenti nel comportamento alimentare, forte conflittualità con i genitori, tristezza persistente, auto-svalutazione. In particolare:

  • disagio rispetto al proprio corpo (non mi piaccio, sono brutto/a, ecc.);
  • conflittualità con i genitori (non mi capiscono, mi trattano come se fossi un bambino, invadono i miei spazi, mi controllano, ecc.);
  • disfunzioni nel comportamento alimentare (abuso o rifiuto del cibo, vomito, scelta di alimenti poco salutari per seguire le mode, ecc.);
  • diminuzione del rendimento scolastico (non sono capace, non sono intelligente, la scuola non mi interessa, ecc.);
  • problemi con l’altro sesso (non mi vuole, mi ha lasciato, ecc.);
  • isolamento rispetto al gruppo dei pari (non desidero uscire di casa, mi sono tutti antipatici, non mi accettano, mi prendono in giro, ecc.):
  • dubbi su identità e orientamento sessuale (temo di essere gay, mi piacciono sia i maschi che le femmine, ecc.);
  • ansia, rabbia e aggressività (quando sono in difficoltà divento aggressivo, non so contenere le emozioni).

Quali sono i maggiori desideri di un adolescente?

Gli adolescenti desiderano un maggiore senso di indipendenza e responsabilità. Essi aspirano a sentirsi autonomi nelle loro decisioni, emozioni e azioni: per questa ragione desiderano disimpegnarsi presto dal controllo dei genitori. Il contesto sociale e culturale influisce in modo importante sugli adolescenti in questo loro desiderio di autonomia e per questo cambia da cultura a cultura.

Come supportare un adolescente?

Ascolto attivo, presenza non giudicante, consulto con uno/a psicologo/a se emergono segnali di disagio profondo. Le figure educative devono collaborare (famiglia, scuola, sanitari).


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Qual è la posizione dell’OMS sugli adolescenti?

L’OMS sottolinea l’importanza di riconoscere l’adolescenza come una fase unica, non omogenea, con vulnerabilità specifiche. Raccomanda interventi su misura, rispettosi dei tempi e dei contesti di sviluppo. Ne citiamo alcuni.

Gli adolescenti:

  • Hanno bisogno di un’esplicita attenzione. Essi non sono semplicemente bambini grandi o piccoli adulti. Occorre tenere conto che durante questo periodo si svolgono processi di sviluppo unici;
  • Hanno caratteristiche specifiche che devono essere prese in considerazione nelle politiche, nei programmi e nelle strategie per quanto riguarda la promozione della salute, la prevenzione, il trattamento e la cura;
  • Non sono tutti uguali. Durante l’adolescenza i componenti dello sviluppo fisico e psicosociale si svolgono a diverse velocità e durata, anche se la sequenza è universale. Occorre tener conto dell’eterogeneità degli adolescenti, ivi comprese le diverse fasi di sviluppo;
  • Alcuni sono particolarmente vulnerabili. Gli ambienti in cui alcuni adolescenti vivono, apprendono e crescono possono minare il loro sviluppo fisico, psicosociale e emotivo (ad esempio, quando gli adolescenti non hanno la guida e il sostegno dei genitori, affrontano la carenza di cibo, o sono circondati da violenza, sfruttamento e abuso. Le politiche sociali e i programmi hanno bisogno di affrontare in modo specifico ed esplicito questi particolari adolescenti per proteggerli, rispettarli e affermare i loro diritti, al massimo livello di salute raggiungibile;
  • Gli sforzi di prevenzione devono intervenire direttamente sui fattori che influenzano negativamente lo sviluppo e/o lo stato di salute;
  • Lo sviluppo sano ha implicazioni sulla salute dell’individuo, anche per i futuri periodi della vita. L’adolescenza offre dunque l’opportunità per recuperare, sia fisicamente che mentalmente, i ragazzi che hanno subito un deficit di sviluppo nel primo decennio della vita. Nei ragazzi che non hanno avuto problemi nell’infanzia, gli interventi sanitari devono rappresentare un impulso positivo per le transizioni all’età adulta e alla salute, per tutta la vita;
  • Capire che gli adolescenti sono più motivati ​​dalla ricompensa rispetto alla punizione dovrebbe essere utile per mettere in discussione gli approcci correttivi al comportamento deviante durante l’adolescenza;
  • I messaggi di educazione alla salute devono inoltre nascere dalla consapevolezza che gli adolescenti sono più concentrati sul presente che sul futuro;
  • I ragazzi devono essere aiutati a capire i processi che si svolgono durante l’adolescenza. Se gli adolescenti sono supportati durante questo periodo di rapido sviluppo, essi possono sfruttare le opportunità ed evitare le minacce tipiche di questo periodo di esperienze e di prime esperienze;
  • Per fornire il sostegno necessario, gli adulti della loro vita, inclusi genitori, insegnanti, educatori, ecc., hanno bisogno di comprendere i cambiamenti che avvengono durante gli anni dell’adolescenza.

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Perché parlare di adolescenza oggi è così importante?

Perché oggi gli adolescenti sono immersi in cambiamenti rapidi (digitale, sociale, climatico) ch

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Editore: Xenia, Collana: I tascabili
Anno edizione: 2004 Pagine: 128 p., Brossura
Autori: Giuliana Proietti - Walter La Gatta
e richiedono nuove forme di supporto psicologico, educativo e sociale per prevenire disagio e promuovere benessere.

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Famiglie monoparentali, ricomposte e arcobaleno: cosa significa "famiglia" oggi

Famiglie monoparentali, ricomposte e arcobaleno

Famiglie monoparentali, ricomposte e arcobaleno: cosa significa “famiglia” oggi

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Se guardiamo su qualsiasi dizionario per sapere cosa significhi la voce “famiglia”, troviamo definizioni come quella della Treccani:

“Istituzione fondamentale in ogni società umana, attraverso la quale la società stessa si riproduce e perpetua, sia sul piano biologico, sia su quello culturale. Le funzioni proprie della f. comprendono il soddisfacimento degli istinti sessuali e dell’affettività, la procreazione, l’allevamento, l’educazione e la socializzazione dei figli, la produzione e il consumo dei beni. “.

In realtà è sotto gli occhi di tutti che nella società moderna le famiglie non sono più queste, oppure lo sono in misura sempre minore, mentre sono in crescita famiglie che un tempo si sarebbero dette “anomale” ma che, con il cambiamento dei costumi, sono diventate sempre più diffuse e dunque “nella norma” o, se si preferisce, “normali”.

La definizione della Treccani aggiunge infatti:

Tuttavia, malgrado la sua universalità, la f. assume nei diversi contesti sociali e culturali una straordinaria varietà di forme, sì da rendere problematico individuare un tratto distintivo che la caratterizzi in ogni circostanza.

Nella società occidentale le famiglie si sono trasformate, nel secolo scorso, da patriarcali, tipiche della società contadina, a famiglie nucleari (cioè composte solo da genitori e figli) e, negli ultimi decenni, con il cambiamento dei costumi, si sono sviluppati nuovi tipi di famiglia, molto diversi fra loro, che comportano legami, abitudini e particolarità non facilmente generalizzabili al significato classico di famiglia. Facciamo tre esempi: le famiglie monoparentali, le famiglie ricomposte e le famiglie arcobaleno.

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Le famiglie con un solo genitore, o monoparentali, un tempo erano dovute all’alto tasso di mortalità (a causa di malattie, guerre, mortalità della madre durante il parto). Negli ultimi venti anni le famiglie monoparentali sono piuttosto dovute alla scelta di uno dei genitori di allevare il proprio figlio da solo/a, anche in assenza di uno stabile rapporto di coppia. Queste famiglie con un solo genitore sono diventate oggi più comuni non solo perché molte donne nubili scelgono di avere figli, pur senza avere un compagno fisso, ma anche in ragione della continua crescita delle separazioni e dei divorzi: in genere il padre cambia casa e i figli restano nella casa coniugale insieme alla mamma.

In Italia le famiglie monoparentali sono circa 5 milioni. Ve ne sono di vari tipi: guidate dalle madri, guidate dai padri, guidate da un nonno che cresce i suoi nipoti… Nel nostro Paese la famiglia monoparentale nettamente più diffusa (85%) è comunque quella composta da una mamma che ha con sé uno o più figli. [Dati Istat Maggio 2013]

La vita in una famiglia monoparentale può essere abbastanza stressante: il genitore infatti può sentirsi spesso stanco e sopraffatto dalla responsabilità di prendersi da solo cura dei figli, di avere un lavoro esterno con il quale mantenersi, di occuparsi della casa e di tutti i problemi della vita quotidiana, fra cui quello di reperire le risorse economiche, che in questo tipo di famiglie sono quasi sempre a livelli inferiori alla media.

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I genitori di famiglie monoparentali affrontano dunque, almeno in Italia, maggiori problematiche rispetto a quelli della famiglia nucleare, vista anche la costante carenza di servizi pubblici per l’infanzia, la difficoltà a seguire il percorso scolastico dei figli, la frequente interruzione dei rapporti con la famiglia dell’altro genitore, che dunque non presta né aiuto fisico, né sostegno emotivo o finanziario. Non ultimi, i problemi causati al genitore singolo da eventuali nuove relazioni sentimentali (mancata accettazione da parte dei figli, gelosia dell’ex per il rapporto che questa persona instaura con i suoi figli, ecc.)

I figli che vivono con un solo genitore hanno maggiori possibilità, rispetto a quelli che vivono con due genitori, di lasciare precocemente la scuola e di non laurearsi. Questo dato, grave e discriminante, può essere spiegato con il fatto di essere cresciuti in ambienti familiari e sociali scarsamente stimolanti. Le ricerche spiegano tuttavia che questi abbandoni sono dovuti principalmente ad un problema di tipo economico [Kathleen M. Ziol-Guest, Greg J. Duncan e Ariel Kalil, 2015]

Le politiche sociali dovrebbero dunque occuparsi delle condizioni di queste famiglie, specialmente nel caso, abbastanza frequente in Italia, in cui le mamme che vivono da sole con i figli hanno il problema di non essere spesso sostenute economicamente dall’ex partner (e padre dei propri figli): un fatto dovuto a volte a effettiva mancanza di risorse economiche o a stato di disoccupazione, ma più spesso all’occultamento fraudolento delle sue disponibilità economiche, per rivalità con la ex, o perché ha bisogno di denaro per sostenere la sua nuova famiglia.

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Anche in Italia, come in altri paesi occidentali, si sono poi diffuse le famiglie “ricomposte” o “ricostituite”. Si tratta di famiglie in cui i figli vivono con un genitore e con il suo nuovo partner, spesso con altri fratellastri, o figli e parenti del genitore non biologico.

Nel biennio 2008-2009 la maggior parte delle famiglie ricomposte italiane vivevano con figli di un solo membro della coppia (11,5%), con figli dell’attuale coppia (39,7%), con figli sia dall’attuale coppia, sia avuti dai due partners in rapporti precedenti (8,1%)[Dati Istat 2008-2009].

Una famiglia ricomposta implica, come implicito nel termine, un successo, cioè che al suo interno si sia riusciti a ricomporre i ruoli e gli affetti primari. Spesso le cose non stanno esattamente così e comunque mantenere l’armonia in questi nuclei familiari comporta un lavoro davvero enorme, sia sul piano organizzativo, sia sul piano emotivo. La famiglia ricomposta richiede infatti la creazione di nuovi spazi e nuovi stili di comunicazione, vista la presenza di figli di genitori diversi. Inoltre, non sempre è facile costruire rapporti di amicizia e complicità con i figli del proprio partner, affrontando e superando le barriere generazionali e stando bene attenti a non usurpare l’autorità e il ruolo del genitore biologico.

La famiglia ricomposta si basa dunque su una nuova cultura familiare, con nuovi codici e nuovi rituali. Non può essere una famiglia chiusa: per sua natura deve sviluppare confini semi-permeabili nei confronti degli ex coniugi (che rimangono comunque i genitori dei propri figli) e stabilire i nuovi ruoli delle tante figure adulte che gravitano intorno ad essa (parenti biologici e adottivi).

Tutto questo comporta spesso tensioni, conflitti, stress, sia nei bambini, sia negli adulti. La coppia in queste famiglie si trova spesso a dover mediare fra bisogni individuali, coniugali o familiari che possono essere fra loro in competizione, all’interno dello stesso sistema familiare.

Il desiderio sessuale nella donna infertile
Relazione presentata al Congresso Nazionale Aige/Fiss del 7-8 Marzo 2025 a Firenze. 

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Un altro problema della famiglia ricomposta è che i partner hanno in realtà poco tempo per loro e in genere la loro “luna di miele” dura pochissimo: la presenza di uno o più figli obbliga infatti i due partners a cercare una mediazione fra il bisogno di curare la propria intimità di coppia, la relazione con i figli (propri e del partner), i rapporti con gli altri parenti o ex parenti, che talvolta fanno di tutto per mettere i bastoni fra le ruote alla felicità della nuova coppia.

I figli inoltre possono non sentirsi affini al nuovo partner del genitore con cui convivono, e per questo è possibile che siano usati come “spie” dall’altro genitore. Questo porta i bambini di una famiglia ricomposta a maturare velocemente e a cercare di trarre il meglio dall’uno e dall’altro genitore, spesso mettendoli in competizione fra loro. In altri casi invece i figli possono scegliere il silenzio, per liberarsi da questo difficile ruolo cuscinetto fra i loro genitori, sentendosi però in colpa per non poter essere con loro del tutto sinceri e leali, specialmente quando la situazione generale è altamente conflittuale. Vivere in una famiglia ricomposta dunque è un impegno notevole, per tutti, anche se può dare la soddisfazione di vivere in una famiglia particolarmente stimolante e non convenzionale, con ruoli e relazioni spesso inattesi e sorprendentemente appaganti.

Vi sono poi le famiglie “arcobaleno”, cioè quelle in cui le figure adulte che le guidano sono persone lesbiche, gay, bisessuali o transessuali (LGBT) e delle quali ultimamente in Italia si è parlato spesso.

Si chiamano “arcobaleno” perché possono essere di tanti tipi. Ad esempio, possono riguardare persone che hanno avuto dei figli in una precedente relazione eterosessuale e che in seguito hanno deciso di dare vita ad una famiglia ricomposta, con un partner del proprio sesso. Può trattarsi inoltre di coppie di lesbiche che si servono della procreazione assistita o dell’autoinseminazione, oppure di coppie di gay che hanno dei figli grazie ad una madre surrogata (pratica altrimenti detta dell'”utero in affitto”).


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Altro tipo di famiglia arcobaleno è quella fondata da persone omosessuali di sesso differente che decidono di avere un figlio biologico ed organizzano la loro vita familiare come le altre coppie eterosessuali separate, con affido congiunto dei figli.

Dopo la votazione di ieri al Senato per le unioni civili, anche in Italia si sta introducendo una legge che regola queste coppie (ma non queste famiglie): si spera dunque, con questa legge, di aver superato il solo richiamo al senso di responsabilità personale nel costituire un nuovo nucleo familiare anche se, come si sa, per il momento non è possibile adottare i figli del partner e dunque le famiglie arcobaleno restano in Italia delle famiglie di fatto e non di diritto.

Le domande che le persone si pongono in questi casi e che hanno animato il dibattito pubblico sulle unioni civili sono soprattutto queste: è lecito o consigliabile che dei minori possano crescere in queste famiglie? I genitori omosessuali possono essere genitori come tutti gli altri?

Al di là delle opinioni personali, la maggior parte degli studi condotti in materia ritiene che ciò che conta non sono gli orientamenti sessuali dei due genitori, ma come essi effettivamente si comportano nella coppia e verso i figli e come si sostengano a vicenda nella vita genitoriale.

I ricercatori hanno scoperto che le coppie gay e lesbiche sono più propense a condividere equamente i compiti di custodia dei bambini, a differenza delle coppie eterosessuali, che tendono a specializzarsi, con le donne che si accollano più lavoro degli uomini per curare il benessere dei figli.

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I figli allevati da genitori LGBT non sembrano grandemente influenzati da come i genitori si dividano i compiti in famiglia, ma dall’armonia presente nella loro relazione. Forse non sarà una sorpresa il fatto che i figli di genitori omosessuali abbiano una minore adesione ai ruoli tradizionali maschili e femminili, ma questa distanza dai modelli tradizionali di comportamento non sembra necessariamente spingerli verso l’omosessualità. [Farr R.H., Forssell L., Patterson C.J., 2010].

Concludendo, forse i nostri dizionari dovrebbero essere aggiornati: la famiglia oggi è composta da un nucleo di persone che stanno insieme perché si sono scelte (anche i figli dei separati possono scegliere, quando è possibile, con quale genitore andare a convivere). Spiace citare la politica, ma è proprio così; queste famiglie esistono solo perché c’è qualcosa che le lega profondamente: l’amore.

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Dopo l'adozione, la depressione

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Adottare un bambino è spesso visto come un atto di amore e altruismo, capace di trasformare la vita di una famiglia. Tuttavia, per alcune coppie, l’adozione può portare a sentimenti di depressione. Questo fenomeno può sembrare una contraddizione, ma è una realtà per molti genitori adottivi. Cerchiamo di comprendere le cause della depressione post-adozione e le modalità con cui affrontarla.

Si tratta di una sindrome riconosciuta?

Non ancora. Il termine Post-Adoption Depression Syndrome (PADS) fu coniato da June Bond nel 1995 per descrivere lo stato di ansia, stress e depressione che molti genitori sperimentano dopo l’adozione. Non si tratta, tuttavia, di un termine clinico riconosciuto.

Quanto è diffuso questo tipo di depressione?

Non si tratta di un fenomeno raro, visto che si stima che questo accade al 65% dei genitori adottivi.

IPNOSI CLINICA: una intervista al Dr. Walter La Gatta

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Quali sono le cause della depressione Post-Adozione?

1. Molte coppie hanno aspettative elevate riguardo all’adozione, immaginando un’esperienza perfetta. I genitori adottivi sono pieni di aspettative e credono, dopo i tanti sacrifici cui si sono sottoposti per ottenere un figlio in adozione, che il bambino magicamente riporterà l’armonia e la soluzione di tutti i problemi, le ansie e le infelicità. Quando la realtà non corrisponde a queste aspettative, possono sentirsi delusi e sopraffatti.

2. L’adozione introduce nuove responsabilità e sfide. Adattarsi alla vita con un nuovo membro della famiglia, soprattutto se il bambino ha bisogni speciali o un passato traumatico, può essere estremamente stressante. Si tratta di cambiare repentinamente stile di vita, affrontando situazioni genitoriali cui non si è preparati, specialmente se si adotta un bambino abbastanza grande.

3. I genitori adottivi possono sentirsi isolati, specialmente se non hanno una rete di supporto solida. La mancanza di comprensione e supporto da parte di amici e familiari può aggravare i sentimenti di solitudine e depressione.

4. Sviluppare un legame emotivo con un bambino adottato può richiedere tempo e pazienza. Se i genitori faticano a creare questo legame, possono sentirsi frustrati e inadeguati.

5. Le esperienze di vita e le vulnerabilità emotive dei genitori possono influenzare la loro capacità di affrontare le sfide dell’adozione. Genitori con una storia di depressione o ansia sono più a rischio di sviluppare sintomi simili dopo l’adozione.

6. A volte i bambini adottati sono traumatizzati dalle esperienze di vita fino a quel momento vissute e non è facile stabilire con loro un legame affettivo, specialmente se i piccoli mostrano di non sentirsi particolarmente legati ai nuovi genitori. La reazione dei genitori emotivi a questa difficoltà nello stabilire un legame di attaccamento può essere di semplice malinconia o tristezza, ma nei casi più gravi questa esperienza può innescare una sindrome depressiva abbastanza seria, per il fatto di non sentirsi completamente soddisfatti della scelta fatta, per la paura di aver sbagliato, oppure per aver concentrato tutte le proprie energie su questo progetto genitoriale che poi non sembra portare la felicità sperata.

7. Difficoltà a parlarne con gli altri. I genitori adottivi non sempre hanno la forza di parlare dei loro problemi con gli altri: si vergognano, temono di non essere compresi, si tengono tutto dentro: per questo rischiano la depressione. Ottenere la comprensione degli altri, del resto,  è difficile: come spiegare che, dopo aver tanto lottato per avere questo figlio, ora non se ne è più così contenti e si provano, nei suoi confronti, dei sentimenti ambivalenti, con grande senso di colpa, sia verso se stessi, sia verso il/la partner, sia verso il bambino stesso?

8. Dubbi.  Se l’adozione segue un’infertilità o un aborto ad esempio, i genitori possono continuare a chiedersi se hanno fatto bene a fare questa scelta, o se avessero fatto meglio a riprovare, ad attendere, a pazientare, pur di avere un figlio ‘biologico’…

Una intervista sulla Timidezza

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Quali sono i segnali di malessere di cui tenere conto?

Sono i seguenti:

  • Perdita di interesse e di entusiasmo per tutto ciò che era stato al centro della propria vita;
  • Difficoltà a concentrarsi e a prendere decisioni;
  • Perdita di energia;
  • Difficoltà di addormentamento o insonnia;
  • Disturbi alimentari;
  • Sensi di colpa;
  • Sentimenti di impotenza;
  • Irritabilità.

Dr. Walter La Gatta

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Come affrontare la Depressione Post-Adozione?

1. Parlarne con un terapeuta può fornire un aiuto prezioso. La terapia può offrire strategie per gestire lo stress, migliorare la comunicazione familiare e sviluppare un attaccamento sano.

2. Partecipare a gruppi di supporto per genitori adottivi può ridurre il senso di isolamento. Condividere esperienze e consigli con altre famiglie che stanno affrontando situazioni simili può essere estremamente rassicurante.

3. Informarsi per tempo sui potenziali problemi dell’adozione può preparare meglio i genitori. Libri, workshop e risorse online possono offrire conoscenze utili e realistiche.

4. È fondamentale che i genitori adottivi si prendano del tempo per se stessi. Attività come esercizio fisico, meditazione e hobby possono aiutare a ridurre lo stress e migliorare il benessere mentale.

5. Creare una routine stabile e prevedibile può aiutare il bambino a sentirsi sicuro e ridurre lo stress per tutta la famiglia. Stabilire confini chiari può anche facilitare la gestione delle nuove responsabilità.

6. Parlare apertamente con il/la partner dei sentimenti e delle preoccupazioni può rafforzare il rapporto e fornire un supporto reciproco. È importante affrontare i problemi insieme piuttosto che ignorarli o affrontarli da soli.

7. E’ importante prendersi del tempo per il bambino adottato: non viene tutto in automatico, c’è bisogno di tempo per giocare col bambino o portarlo al parco, oltre che creargli un ambiente sociale caldo e confortevole.

8. Avere comprensione per se stessi: si tratta di sentimenti ed insicurezze molto umane, che possono essere risolte attraverso l’aiuto ed il sostegno psicologico, che non conviene farsi mancare, non solo per se stessi, ma anche per la serenità della nuova vita familiare.

Dr. Walter La Gatta

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Le famiglie italiane: come sono, come si comportano

LE FAMIGLIE ITALIANE: COME SONO, COME SI COMPORTANO

PSICOLOGIA - SESSUOLOGIA
Come vivere bene anche se in coppiaCome vivere bene, anche se in coppia
Autori: Dr. Giuliana Proietti - Dr. Walter La Gatta
Terapie Individuali e di Coppia



  • Introduzione

L’aspetto della famiglia italiana si è radicalmente trasformato a partire dalla seconda metà del secolo scorso: i legami, sia verticali, sia orizzontali, si sono allentati, a causa di importanti cambiamenti nell’istituzione del matrimonio e nella fertilità.

I segni della modernità (aumento della convivenza, nascite al di fuori del matrimonio, separazioni,
divorzi) si sono scontrati con la persistenza del modello tradizionale della famiglia “forte” (ad esempio, attraverso la lunga permanenza nella famiglia di origine), causando un corto circuito nei comportamenti e nei valori più tradizionali.

L’aspetto più dinamico è tuttavia rappresentato dall’immigrazione di famiglie straniere, un fenomeno relativamente nuovo per la società italiana, che è cresciuto insieme allo sviluppo del processo di integrazione.

  • La famiglia italiana tradizionale

All’estero le famiglie italiane vengono tradizionalmente descritte come nuclei di grandi dimensioni, caratterizzate da un elevato numero di figli, guidate da un padre patriarcale e da una madre casalinga.

Questa immagine stereotipata, risalente alle famiglie di immigrati italiani in America del secolo scorso, riflette sempre meno le reali caratteristiche della famiglia italiana, date le trasformazioni demografiche avvenute negli ultimi decenni, peraltro molto più velocemente che in altre parti d’Europa (King e Zontini 2000), le quali hanno cambiato profondamente la famiglia italiana, portando sia vantaggi che problemi.

  • Quante sono le famiglie e come si compongono

In 150 anni il numero di famiglie italiane si è più che quintuplicato (passando dai 4.674.000 del primo censimento ai 25.981.996 del 2017, Dati Istat), ma il numero dei componenti la famiglia si è progressivamente ridotto.

Nel volgere di vent’anni il numero medio di componenti in famiglia è sceso da 2,7 (media 1995-1996) a 2,4 (media 2015-2016). Aumentano le famiglie composte da una sola persona (dal 20,5 al 31,6 per cento) e si riducono quelle di cinque o più componenti (dall’8,1 al 5,4 per cento). (Dati Istat) Per fare un confronto con il passato, si pensi che la famiglia media italiana era ancora composta mediamente di di 4,7 persone (dati Istat, 2011).

Quando si parla di famiglia italiana dunque, sempre meno si fa riferimento alla coppia genitoriale con numerosi figli e sempre più ci si riferisce a coppie senza figli, famiglie monogenitoriali e, sopratutto, persone che vivono da sole, o singles.

  • I cambiamenti sociali degli anni Settanta

Questi cambiamenti sono iniziati a partire dagli anni Settanta, in seguito all’introduzione della legge sul divorzio, nel 1970, alla riforma del diritto di famiglia del 1975, alla legge sull’aborto del 1978. Tutto questo ha seguito il periodo della contestazione giovanile del 1968 e le rivendicazioni del movimento femminista, negli anni settanta.

Fu in quel periodo che il modello familiare italiano, fortemente ispirato ai dogmi della Chiesa Cattolica, entrò in crisi, contro le aspettative della stessa Chiesa, che aveva molto sottovalutato il desiderio di cambiamento degli italiani.

Il primo grande scollamento fra valori religiosi e società italiana fu infatti rappresentato dalla vittoria dei favorevoli al divorzio sancita in uno storico referendum dal 59,3% della popolazione, contro il 40,7 dei contrari. In un successivo referendum per l’abolizione del divorzio, nel 1981, la maggioranza fu ancor più travolgente: il 70% della popolazione si mostrò favorevole al divorzio.

Le “tentazioni dell’erotismo devastatore”, l’importanza della fecondità e il valore della santità del matrimonio, citati dal Papa Paolo VI come ragioni per non introdurre il divorzio in Italia, apparvero concetti ormai del tutto anacronistici.

  • Ciò che rimane delle tradizioni familiari italiane

Nonostante i rapidi cambiamenti avvenuti tuttavia, molte tradizioni e molti valori della famiglia tradizionale italiana restano, ancora oggi, immutati. La maggior parte degli italiani, siano essi sposati, single o divorziati, tendono, ad esempio, a mantenere legami molto forti con i loro genitori, con i figli adulti e con gli altri parenti.

Continuano ad esservi giovani adulti che scelgono di abitare nella casa dei genitori (specie se questa permette una certa autonomia), o comunque non lontano dall’abitazione dei genitori.

La famiglia italiana si riunisce almeno una volta al giorno per la cena, mentre la famiglia allargata ai nonni, ai cugini e agli altri parenti si riunisce per alcune festività (in genere Natale e Pasqua) oltre che in occasione di matrimoni, comunioni, cresime, ecc.

Se i genitori sono anziani e vedovi, vengono spesso accolti in casa dai figli, per facilitare le cure da dedicare loro, perché i genitori rimangono delle figure molto importanti e il legame fra genitori e figli dura ancora per tutta la vita.

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  • La famiglia: il welfare all’italiana

Se andiamo ad analizzare le ragioni del mantenimento di queste tradizioni tuttavia, scopriamo che esse non si basano unicamente su valori e tradizioni, ma anche su specifiche scelte di carattere pratico ed economico. Mentre infatti in molti Paesi del mondo occidentale i governi mettono a disposizione dei cittadini programmi di welfare, per l’assistenza ai bambini, alle persone anziane, malate o disabili, in Italia per svolgere questi compiti si conta ancora moltissimo sull’aiuto che viene dalla famiglia.

Questo ruolo, storico, di protezione sociale della famiglia italiana si è intensificato durante gli anni recenti di crisi economica.

  • La crisi economica e la famiglia italiana

In Italia, nel 2009, il tasso di occupazione è diminuito di 1,2 punti percentuali rispetto all’anno precedente; nel 2010  è diminuito di ulteriori 0,6 punti. Il calo è particolarmente accentuato tra i lavoratori autonomi e tra quelli temporanei, in prevalenza giovani. In assenza di un sistema di ammortizzatori sociali estesi anche a chi svolge lavori discontinui, il ruolo della famiglia è divenuto essenziale. Basti pensare che il reddito dei genitori è stato in molti casi l’unico sostegno per i componenti più giovani.

Si stima, ad esempio, che nella tarda primavera del 2009, circa 480 mila famiglie abbiano sostenuto almeno un figlio convivente che aveva perso il lavoro nei dodici mesi precedenti. Le risorse impiegate in questa forma di sostegno familiare sono venute non solo dai redditi da lavoro dei genitori, ma spesso anche da quelli da pensione. (dati Bankitalia, 2012)

La metà della ricchezza delle famiglie italiane è ancora rappresentata dalla casa. Le cosiddette “attività non finanziarie” cioè abitazioni, immobili non residenziali, apparecchiature, terreni, impianti, rappresentano i due terzi della ricchezza netta delle famiglie (6.200 miliardi di euro, di cui 5.246 miliardi di euro dalle abitazioni). 

Le attività finanziarie, cioè biglietti, depositi, titoli, prestiti, azioni, derivati, quote di fondi comuni, riserve assicurative e altri conti attivi, impattano sulle famiglie per 4.300 miliardi di euro.

Più specificamente: il 48% della ricchezza del totale delle famiglie è rappresentato dalla casa, il 12% dai depositi, il 9% dalle rendite delle azioni possedute, un altro 9% dalle riserve assicurative, il 6% da immobili residenziali, mentre tutte le altre voci incidono per meno del 5%. I terreni coltivati per esempio rappresentano mediamente il 3% della ricchezza delle famiglie italiane.

L’Italia è il paese europeo con il gap maggiore fra patrimonio e reddito delle famiglie: questo dato è un indicatore di disuguaglianza sociale (Piketty, Stieglitz).

A fine 2017 la ricchezza netta delle famiglie italiane è stata 8,4 volte il loro reddito disponibile. In Germania appena 6 volte superiore, in Francia e Regno Unito meno di 8 volte superiore.  “Il livello elevato di quest’indicatore nel confronto internazionale è amplificato dal ristagno ventennale dei redditi delle famiglie italiane” spiegano i ricercatori. L’Italia è l’unica nazione che non ha visto crescere la ricchezza pro capite dalla crisi del 2008 e oggi, con 150 mila euro a persona, è in penultima posizione fra i paesi europei di dimensioni simili.

La ricchezza netta familiare italiana misurata in rapporto alla popolazione è risultata superiore agli altri paesi nel 2008 e nel 2009, ma negli anni successivi essa si è mantenuta su valori stabili, mentre in altri paesi è aumentata.

Una intervista sui rapporti familiari

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L’Italia, assieme a Slovenia, è in fondo alla classifica europea dei matrimoni (3,2 dati Eurostat). 

Non ci si sposa più giovanissimi, si rinvia, si aspetta la conquista della stabilità economica, in genere dopo i 30 anni. Gli uomini arrivano al primo matrimonio con una età media di 33,7 anni (nel 2017 era 32,1), e le donne di 31,5 (ed era 29,4). Per l’Istat il motivo è l’«invecchiamento del Paese»: il numero di figli è drasticamente diminuito e in dieci anni la fascia della popolazione tra i 16 e i 34 anni è scesa di 12 milioni. Ci sono sempre meno giovani, quindi meno matrimoni e unioni civili tra giovani.

Il 2018 è stato inoltre l’anno di uno storico «sorpasso»: i riti civili hanno superato quelli religiosi, sono stati il 50,1 per cento, pari a 92 mila 182 sul totale di 195 mila 778.

Nel 1931 appena il 2,6% dei matrimoni veniva celebrato con rito civile, nel 1981, dopo le riforme sul diritto di famiglia, tale quota è salita al 12,7% per superare il 30% nel 2004, il 37,5%  nel 2009, fino al dato attuale del 50,1 dieci anni dopo. 

Le convivenze sono in costante crescita: si sono più che quadruplicate dal 1998, passando in 20 anni da 329 mila a 1 milione e 368 mila. Aumentano anche i figli nati fuori dal matrimonio: nel 2017 sono stati uno su tre 3.

Le unioni civili tra persone dello stesso sesso costituite nel corso del 2018 sono state 2 mila 808, con una prevalenza di uomini, 64,2% del totale. Il 37,2% nel Nord ovest e il 27,2% al Centro, ma è soprattutto nelle grandi città che si registrano queste unioni. A Roma e a Milano una su tre, rispettivamente 10,1 e 18,7 ogni centomila abitanti. A Napoli e a Palermo invece, il dato si attesta su una unione civile ogni 100 mila abitanti.

I dati Istat rilevano dunque un’Italia spaccata a metà: al Sud ci si continua a sposare con rito religioso; è il Nord che alza la media dei matrimoni civili. Nelle regioni settentrionali le nozze con rito civile sono il 63,9% mentre nelle regioni meridionali, dove due coppie su tre preferiscono varcare la soglia della chiesa, sono meno della metà (30,4%).

Il balzo dei matrimoni civili è in buona parte dovuto alle seconde nozze e alle successive, che sono aumentate in dieci anni dal 13,8% al 19,9%.

Il boom negli ultimissimi anni di secondi e terzi matrimoni è dovuto al divorzio breve (le seconde nozze e successive sono quasi sempre civili, 94,6%). Scelgono di sposarsi in comune anche la stragrande maggioranza delle coppie in cui almeno uno degli sposi è straniero (89,5%).

La durata media del matrimonio al momento della separazione è di circa 17 anni. In media i mariti hanno 48 anni, le mogli 45 anni.

La propensione a separarsi è più bassa e stabile nel tempo nei matrimoni celebrati con il rito religioso. A distanza di 10 anni dalle nozze, i matrimoni sopravviventi sono, rispettivamente, 911 e 914 su 1.000  per le coorti di matrimonio del 1995 e del 2005. I matrimoni civili sopravviventi scendono a 861 per la coorte del 1995 e a 841 per quella del 2005.

Nel 2015 le separazioni con figli in affido condiviso sono circa l’89% di tutte le separazioni con affido. Soltanto l’8,9% dei figli è affidato esclusivamente alla madre (si tratta dell’unico risultato evidente dell’applicazione della Legge 54/2006 sull’affido condiviso).

La quota di separazioni in cui la casa coniugale è assegnata alla moglie sale al 60% e arriva al 69% per le madri con almeno un figlio minorenne. Si mantiene stabile la quota di separazioni con assegno di mantenimento corrisposto dal padre (94% del totale delle separazioni con assegno nel 2015).

Il desiderio sessuale nella donna infertile
Relazione presentata al Congresso Nazionale Aige/Fiss del 7-8 Marzo 2025 a Firenze. 

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  • Livello di istruzione della popolazione

Nel 1861 su tutto il territorio italiano dominava l’analfabetismo, specialmente nelle regioni del Sud. Dopo il secondo conflitto mondiale gli analfabeti erano ancora il 12,9% della popolazione.

Negli anni Venti del secolo scorso frequentare l’università era un privilegio riservato a poche donne: ogni 100 laureati solo 15 erano donne. Nei primi anni Novanta si è verificato il sorpasso delle femmine sui maschi: le laureate hanno infatti superato il 50% (Nell’anno accademico 2008-2009 le donne laureate sono state il 56,7%. (Dati Istat).

In Italia i livelli di istruzione sono in aumento, ma restano ancora sotto la media europea: siamo indietro sia per numero di diplomati che per quello di laureati. Le donne sono ancora in vantaggio, rispetto agli uomini, nei livelli di istruzione, anche se i loro tassi di occupazione restano inferiori.

La quota di Neet (i giovani che non studiano e non lavorano) è ancora la più elevata tra i Paesi dell’Unione, mentre cresce il numero di ragazzi che abbandonano gli studi. (Dati Istat indicati nel report ‘Livelli di istruzione e ritorni occupazionali)’.

La quota di diplomati tra i 25 e i 64 anni si stima sia pari al 61,7% nel 2018 (+0,8 punti percentuali sul 2017), un valore molto inferiore a quello medio europeo, pari a 78,1% (+0,6 punti sul 2017). Su questa differenza incide la bassa quota di 25-64enni con la laurea: meno di due su dieci in Italia (19,3%, +0,6 punti rispetto all’anno precedente) contro oltre tre su dieci in Europa (32,3%, +0,8 punti rispetto all’anno precedente). Il trend degli ultimi anni è positivo. Tuttavia, tra il 2014 e il 2018 la quota di popolazione con laurea ha avuto una crescita più contenuta di quella Ue (2,4 punti contro 3 punti).

Sicuramente i più giovani sono anche i più istruiti: il 75,9% dei 25-34enni ha almeno il diploma di scuola secondaria superiore contro il 47,9% dei 60-64enni.

  • Donne, lavoro e Famiglia

La partecipazione femminile al mercato del lavoro è in Italia storicamente bassa rispetto ad altre realtà nazionali, anche se è cresciuta costantemente negli ultimi anni.

La maggior parte delle donne italiane è costretta a fare il doppio lavoro (occupandosi cioè a tempo pieno anche della casa). Infatti, al contrario di quanto avviene in altri Paesi, dalle donne italiane che lavorano ci si attende ancora che esse svolgano comunque alcuni ruoli tradizionali, come la cottura dei cibi, alcune faccende domestiche, la cura dei figli e dei genitori anziani (King e Zontini 2000).

Burda ed al. (2006) hanno scoperto, studiando i dati di 4 Paesi fra cui l’Italia, che ovunque il lavoro totale (definito come la somma del lavoro fuori casa e del lavoro domestico) è approssimativamente uguale tra uomini e donne. In Italia invece il lavoro totale delle donne supera quello degli uomini di 72 minuti (in un giorno rappresentativo del 1988) e di 75 minuti nel 2002.

Le donne rappresentano circa il 40% della popolazione aziendale e il 52,2% della popolazione femminile italiana tra i 20 e i 64 anni lavora, seppur in Italia il tasso di occupazione femminile risulti inferiore anche per le donne laureate rispetto alla controparte maschile (75% contro l’83,7% dei laureati).

A fine 2017 in Italia si contano 1 milione e 330 mila attività economiche a conduzione femminile (21,86% del totale) e solo il 27% delle posizioni manageriali è occupato da donne.

Qualsiasi sia il livello impiegatizio, le donne continuano a percepire guadagni inferiori rispetto agli uomini, con stipendi più bassi del 18,8% contro il 16% previsto in tutta l’Unione Europea. Inoltre le donne che hanno figli con età massima cinque anni sono meno inserite nel mondo del lavoro rispetto a quelle che non sono madri (45,8% contro un 53,2%).


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  • Famiglie e Lavoro

La madre italiana mantiene un ruolo essenziale per il buon andamento della vita familiare: è lei che appiana le difficoltà, i conflitti, che si sacrifica, economicamente e lavorativamente, per il benessere della famiglia, compiendo sforzi che, agli occhi di un europeo del Nord o di un Americano, potrebbero sembrare addirittura eccessivi.

Il lavoro extra-domestico femminile in Italia non è stato del resto accompagnato da un adeguato sviluppo di infrastrutture o supporti sociali, né da cambiamenti significativi nella sfera domestica, per cui la situazione italiana, come quella di altri Paesi di area mediterranea, rappresenta una  ‘imperfetta transizione alla parità di genere‘.

Mencarini et al. (2004) ad esempio, studiando i dati provenienti da cinque città italiane, hanno scoperto che gli uomini che vivono in famiglie in cui anche la moglie lavora non aumentano in modo significativo la loro partecipazione ai lavori domestici dopo la nascita dei figli: semmai aumentano il loro tempo di lavoro fuori casa.

Dal medesimo studio emerge che ben  il 10% dei padri italiani non è mai di aiuto, nella cura dei figli. Tuttavia, va detto che nelle famiglie in cui il livello di istruzione fra moglie e marito è paritario la divisione egualitaria del lavoro domestico aumenta, anche se vi sono ancora forti differenze regionali fra nord e sud.

In tutti gli Stati europei  c’è una percentuale maggiore di donne, rispetto agli uomini, che si occupa della cura dei figli, dei lavori domestici e della cucina.

Nel 2016 nell’Ue, il 92 % delle donne tra i 25 e i 49 anni (con figli sotto i 18) si prendono cura dei propri figli quotidianamente, rispetto al 68 % degli uomini. Tra gli Stati membri, le differenze più ampie tra le donne e gli uomini si osservano in Grecia (95 % delle donne e 53 % degli uomini) e a Malta (93 % e 56 %), mentre quelle minori sono in Svezia (96 % delle donne e 90 % degli uomini) e in Slovenia (88 % e 82 %).

Riguardo alle attività domestiche e alla cucina, le differenze sono ancora maggiori. Nel 2016 nell’Ue, il 79 % delle donne cucina e/o svolge attività domestiche quotidianamente, rispetto al 34 % degli uomini. Le differenze più ampie tra le donne e gli uomini si registrano in Grecia (85 % delle donne e 16 % degli uomini) e in Italia (81 % e 20 %), mentre quelle più ridotte in Svezia (74 % delle donne e 56 % degli uomini) e in Lettonia (82 % e 57 %).

Per il futuro, visto che fra i trentenni di oggi le donne superano gli uomini, sia nel possesso di titoli universitari, sia a livello di performance accademica, è impensabile che le giovani generazioni femminili continuino a pensare di svolgere il doppio lavoro, come le loro madri.

La prospettiva del familismo (quando lo Stato assume che il nucleo familiare debba essere il primo responsabile del benessere dei suoi membri e dunque il primo generatore del lavoro di cura),appare sempre meno proponibile. D’altra parte è sotto gli occhi di tutti che  il benessere familiare, da quando le donne compiono meno sacrifici in favore della famiglia, ha portato una riduzione dei livelli di benessere e di qualità della vita, che non sono stati compensati da opportuni interventi di protezione sociale.

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  • Riduzione del tasso di natalità

Dall’Unità di Italia ad oggi la natalità si è ridotta di un quarto: nel periodo post unitario le coppie avevano in media 5 figli ed erano frequenti quelle con più di 6 figli (circa 2 su 5). Complessivamente in pochi decenni, l’Italia è passata da un tasso di fertilità molto alto ad uno dei più bassi tassi di fertilità nel mondo.

Non che gli italiani non desiderino avere dei figli: il problema riguarda soprattutto l’incertezza del futuro e l’accresciuto interesse nei confronti del sano sviluppo del figlio. Insomma, ci si è resi conto che i figli non solo non rappresentano più una risorsa economica per la famiglia (come accadeva nell’Italia contadina quando, sin da piccoli, venivano avviati al lavoro nei campi), ma rappresentano un costo.

Inoltre, i desideri e le aspettative di fecondità spesso non riescono ad essere realizzati, anche a causa dell’età dei genitori.

L’Italia, nel 2018, è stato il Paese Ue con il tasso di natalità più basso (il 7,3 per mille). E’ quanto evidenzia Eurostat nella nota di commento ai dati sulla popolazione nei 28 Stati membri dove complessivamente lo scorso anno, per la seconda volta consecutiva, il numero dei morti ha superato quello delle nascite (5,3 milioni contro 5 milioni). Se tra il primo gennaio 2018 e il primo gennaio 2019 la popolazione totale Ue è salita da 512,4 a 513,5 milioni, osserva Eurostat, è stato solo grazie all’immigrazione.

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  • La transizione all’età adulta

Fino a non moltissimi anni fa, la transizione verso l’età adulta era chiaramente delineata da marcatori che si verificavano secondo passaggi ben definiti: la fine della scuola, l’entrata nel mondo del lavoro, il matrimonio. Oggi questi marcatori sono diventati più flessibili: si può scegliere infatti di studiare e lavorare allo stesso tempo, si può entrare nel mercato del lavoro ma poi lasciarlo per la breve durata dei contratti o per frequentare corsi di specializzazione, si può convivere a lungo prima di sposarsi o decidere di non sposarsi affatto, pur convivendo.

La crisi economica ha ulteriormente accentuato un fenomeno, quello dei “bamboccioni“, come definito dall’ex ministro Padoa-Schioppa.

Secondo l’Istat più della metà dei giovani fra i 20 e i 34 anni (5,5 milioni), celibi e nubili, che vive con almeno un genitore.  In Croazia sono il 93,1 % e in Slovacchia l’89,2 %, l’Italia entra nel podio (88,3 %). Sono soprattutto i maschi (73,3%) ad essere più inclini a recitare il ruolo di ‘Tanguy’, rispetto alle coetanee dell’altro sesso (62,9%). In ogni Stato membro, infatti, la proporzione di giovani donne all’interno del nido familiare risulta inferiore a quella degli uomini.

La famiglia di origine infatti ha sempre rappresentato per i giovani italiani il nido caldo ove poter costruire la fiducia in se stessi, prima di entrare nel mondo adulto. Dopo gli anni settanta questo tempo vissuto dal giovane adulto nel contesto familiare è stato reso più facile dal cambiamento della famiglia italiana, più disponibile a sostenere le giovani generazioni, sia affettivamente che economicamente, con vantaggi reciproci per figli e genitori in questo prolungamento della convivenza.

All’interno della casa dei genitori infatti, la giovane generazione può costruirsi uno spazio di autonomia, pur potendo contare sul sostegno familiare, sul calore affettivo e sull’aiuto dei genitori, in caso di necessità. La tendenza “Forever young” è piacevole anche per i genitori, che apprezzano la possibilità di dare ai figli ciò che essi in gioventù non hanno ricevuto, fra cui anche un buon rapporto genitori-figli, costruendo il rapporto ideale che avrebbero voluto avere da giovani con i loro genitori, con uno stile di comunicazione partecipativo, basato sul dialogo, sull’affetto e sulla comprensione.

Contrariamente a quanto accadeva nei decenni passati, ai giovani adulti viene data una grande libertà nel processo decisionale all’interno della casa, grazie alla possibilità di negoziare le decisioni, senza gravi conflitti. I giovani si dichiarano in genere soddisfatti del rapporto con i genitori, che ritengono aperto e privo di problemi.

Questo genere di rapporti tuttavia non sempre sono fruttuosi per i figli, perché possono contribuire a bloccare lo sviluppo personale,  scoraggiando i giovani a lasciare il nido.

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In Italia, 9 su 10 soggetti si dicono contenti dei rapporti con i propri parenti e «le relazioni familiari confermano i più alti livelli di apprezzamento: nel 2017 il 90,1% delle persone si ritiene soddisfatto». Al di fuori della famiglia, i dati ribadiscono come in Italia «prevalga un atteggiamento di cautela verso il prossimo». La fiducia negli altri, infatti, non cambia sostanzialmente rispetto al 2016: il 78,7% delle persone ritiene che «bisogna stare molto attenti».

Secondo l’ufficio di statistica l’atteggiamento di cautela nei confronti del prossimo è presente in tutto il Paese ma è soprattutto il Mezzogiorno a risultare “guardingo”. Al Sud, infatti, solo il 15,8% della popolazione di 14 anni e più ritiene che gran parte della gente sia degna di fiducia, mentre al Nord tocca il 22,1% e al Centro il 21,2% (con la media nazionale che, appunto, si attesta al 19,8%).

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