Perché la psichiatria contemporanea è in grave crisi

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A partire dagli anni Cinquanta le diagnosi e il trattamento delle malattie mentali si sono sempre basate su una fonte indiscussa, una sorta di Bibbia della psichiatria, cioè sul Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, (abbreviato in DSM, di cui siamo in attesa della quinta edizione, ormai prossima alla pubblicazione).

Il DSM è tutt’ora considerato la fonte più autorevole della psichiatria, sebbene sia un manuale esplicitamente “ateoretico”, cioè semplicemente descrittivo dei sintomi delle varie patologie, senza nessuna volontà di comprensione del funzionamento cerebrale e dei comportamenti umani.

Nel DSM vengono invece descritti e classificati i sintomi e questo è stato finora sufficiente per fare diagnosi e somministrare trattamenti farmacologici anche piuttosto “pesanti”. Da più parti però cominciano ad alzarsi voci di dissenso e, anche in ambiente psichiatrico, si reclama un rilancio della disciplina sia a livello medico sia a livello accademico, superando i vecchi schemi e sistemi, che in fondo poca strada hanno fatto dai tempi di Freud.

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Nick Craddock ad esempio, docente di psichiatria presso la Cardiff University spiega su New Scientist che la sua disciplina avrebbe bisogno di una ricerca appassionante, sul modello di quella svolta per il bosone di Higgs o del Large Hadron Collider, l’acceleratore di particelle situato presso il CERN di Ginevra. Craddock cita nuovi strumenti da utilizzare, per rilanciare la ricerca: la genetica molecolare, il campo del neuro-imaging e quello dell’intelligenza artificiale.

La voce in assoluto più sorprendente è tuttavia quella di Thomas Insel, direttore dei National Institutes of Mental Health (cioè gli Istituti Nazionali della Sanità americani, o NIH). Insel ha annunciato infatti che l’agenzia federale (importantissima nel settore, perché è quella che fornisce sovvenzioni per la ricerca sulle malattie mentali), ha deciso di “ri-orientare la sua ricerca in modo del tutto diverso dalle categorie utilizzate dal DSM per classificare le malattie mentali”. La notizia è abbastanza inattesa, specie in questo momento, quando siamo ormai ad un passo dalla pubblicazione del nuovo DSM5, evento che avrebbe dovuto rappresentare la novità più assoluta in campo psichiatrico. Scrive Insel:

“Sebbene il DSM sia stato descritto come una ‘bibbia’ per il settore, esso è, nella migliore delle ipotesi, un dizionario, che crea una serie di etichette fornendo per ciascuna di esse una definizione. Il punto di forza di ciascuna delle edizioni del DSM è stata la sua ‘affidabilità’: ogni edizione ha fatto sì che i medici potessero usare gli stessi termini negli stessi modi. La debolezza è la sua mancanza di validità. A differenza delle definizioni esistenti sulla cardiopatia ischemica, il linfoma, o l’AIDS, le diagnosi del DSM si basano su un consenso nei confronti dei vari cluster di sintomi clinici e non su una misurazione oggettiva di laboratorio. Nel resto della medicina, questo sarebbe equivalente alla creazione di sistemi diagnostici basati sulla natura del dolore toracico o la qualità della febbre. Infatti, la diagnosi basata sui sintomi, una volta comune in altri settori della medicina, è stata in gran parte sostituita negli ultimi cinquant’anni, dal momento che abbiamo ormai capito che solo raramente i sintomi indicano la migliore scelta di trattamento. I pazienti con disturbi mentali meritano di meglio”.

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Insel continua il suo articolo dicendo che se si desidera, anche in campo psichiatrico, un approccio diagnostico basato sulla biologia, sullo studio dei circuiti cerebrali e sui sistemi cognitivi, emotivi e comportamentali, non si può fare riferimento alle categorie del DSM: ciò che si deve fare è invece raccogliere dati che riguardino la genetica, l’imaging, la fisiologia e i sistemi cognitivi. Si devono insomma studiare questi dati e non solo i sintomi, per comprendere quali debbano essere i trattamenti curativi più efficaci.

Il NIMH ha deciso dunque di sostituire il DSM con i “Research Domain Criteria (RDoC)”, che definiscono i disturbi mentali non sulla base di una vaga sintomatologia, ma su dati oggettivi: genetici, neurali e cognitivi. La decisione sembrerebbe ottima, dal momento che, con questa decisione, la psichiatria ricomincerebbe ad utilizzare, a tutti gli effetti, i criteri medici utilizzati in tutte le altre specialità. Come però mette in rilievo John Horgan nel suo Blog su Scientific American, il rischio che si corre con questa decisione è quello di rimpiazzare la “Bibbia della psichiatria” con il nulla, dal momento che, come ammette anche il direttore del NIMH, al momento: “non siamo in grado di progettare un sistema basato sui biomarcatori o sulle prestazioni cognitive, perché ci mancano i dati”.

La scarsa credibilità scientifica della psichiatria è stata così ufficializzata ai massimi livelli e questo stride pesantemente con l’importanza che ancora viene attribuita, nella maggior parte del mondo, al DSM o con la diffusione degli psicofarmaci, i quali curano malattie che forse non esistono.

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Ancora più inaspettatamente, anche l’industria farmaceutica sembra aver deciso di prendere le distanze dalla ricerca psichiatrica. Come scrive Steven Hyman, neuroscienziato di Harvard ed ex direttore del NIMH (1996-2001), è da tempo che non si fa più ricerca su depressione, disturbo bipolare, schizofrenia, ecc. ed in più alcune grandi compagnie, come la GlaxoSmithKline, la Pfizer o la AstraZeneca hanno chiuso i laboratori di ricerca o diminuito sensibilmente le risorse investite nel settore. Questo ritiro, spiega testualmente Hyman, “riflette una visione largamente condivisa che la scienza soggiacente rimane immatura e che lo sviluppo terapeutico in psichiatria appare troppo difficile e troppo rischioso”.

Dunque, quanto detto basta per comprendere come la psichiatria come l’abbiamo fin qui conosciuta sia in netta crisi e sia arrivata ad un capolinea. Urgono dei cambiamenti, che non necessariamente la debbono portare al pieno ricongiungimento con le altre branche mediche: c’è anche chi suggerisce, ad esempio, che la psichiatria per rinnovarsi debba avvicinarsi di più alle scienze sociali. Come suggerisce uno studio pubblicato di recente, il quale non manca di esprimere la consueta critica relativa alla mancanza di scoperte, negli ultimi 30 anni, capaci di portare a grandi cambiamenti, la psichiatria dovrebbe adoperarsi per “abbracciare un paradigma sociale, per generare progressi reali e, allo stesso tempo, rendere più attraente la professione”.

Insomma, le ricette possono essere diverse, ma tutti sembrano ormai convinti che la psichiatria, così com’è, non vada più bene. Questa situazione doveva prima o poi accadere, ma è davvero strano che queste voci di dissenso si alzino così all’improvviso, proprio mentre l’American Psychiatric Association si sta per riunire questo mese a San Francisco, quando verrà ufficialmente lanciato il DSM-5.

Per completezza va però detto che in questo ultimo periodo c’è stata un’altra grossa ed inattesa novità: Barack Obama infatti ha annunciato un investimento di 100 milioni di dollari, l’anno prossimo, nel progetto”Brain”: una ricerca che, si dice, punta decisamente a rivoluzionare la nostra comprensione del cervello umano, i cui risultati potrebbero mettere definitivamente ko la psichiatria convenzionale.

In quanto esseri umani – dice Obama – siamo in grado di identificare galassie distanti anni luce. Siamo in grado di studiare particelle piccole quanto un atomo, ma ancora non abbiamo svelato il mistero di quel 1.3 Kg (3 pounds) che si trova tra le nostre orecchie”. Come dire che la fisica moderna e la psichiatria, nate nello stesso secolo, hanno conosciuto evoluzioni ben diverse e se la fisica moderna è decisamente proiettata verso il futuro, la psichiatria è rimasta ancora una scienza primitiva.

Dr. Giuliana Proietti

 

Dr. Giuliana Proietti

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Pubblicato anche su Huffington Post

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