La psicologia del male

La concezione predominante nella nostra cultura è che le azioni crudeli siano l’esito della personalità o del patrimonio genetico di chi le compie; ne consegue che per comprendere le ragioni di simili condotte bisogna scavare all’interno di questi individui. La popolarità di tale idea è legata ai benefici che ne derivano sia per il sistema, che così viene alleggerito dalla responsabilità di aver creato i presupposti all’attuazione del male, sia per chi non ha ancora agito in maniera cattiva, che in questo modo può continuare a credere di essere diverso da “quel genere di persone”.

Buoni da una parte e cattivi dall’altra, insomma. In mezzo una rete divisoria pressoché invalicabile. Ma stanno davvero così le cose? Sono sempre malvagi o, peggio, mostri gli individui che compiono il male? La risposta della psicologia sociale è no: chiunque, in determinate circostanze, può infierire contro un altro uomo. Sembra che quando noi esseri umani ci ritroviamo in contesti insoliti ed estremi, di gruppo soprattutto, diventiamo particolarmente vulnerabili al potere delle forze presenti nella situazione, al punto che queste prendono il sopravvento orientandoci verso condotte di segno negativo. Si può arrivare in questi casi a umiliare, torturare e persino uccidere un altro essere umano.

È difficile da accettare, ma questa prospettiva, certo meno rassicurante della visione dicotomica Bene/Male, è sostenuta dai dati di numerose ricerche condotte in laboratorio e sul campo (il riferimento è in particolare a classici della psicologia come gli studi di Milgram sull’obbedienza all’autorità, quelli di Zimbardo sulla deindividuazione e sul potere dei ruoli, quelli di Darley e Latané sull’apatia dello spettatore). Per mezzo di una lente rigorosa, questi studi ci aiutano a comprendere meglio i vari fatti di cronaca e le tragedie del passato nonché le scene di indifferenza o i pestaggi di gruppo che si registrano quotidianamente nelle nostre città.

Forze in grado di orientare individui comuni verso il male, dicevamo. Specialmente in situazioni gruppali che legittimano condotte antisociali. In maniera sintetica, ne presentiamo qui alcune:

— La deindividuazione, la sensazione cioè di anonimato che deriva dall’essere parte di un gruppo. La persona in questo assetto mentale non si sente più pienamente responsabile di ciò che fa e la sua condotta, irrazionale, si adatta alle norme della situazione specifica anziché a quelle interne.

— La deumanizzazione, ossia il relegare in una sfera sub-umana un individuo appartenente a un gruppo esterno, considerandolo al pari di un oggetto o di un essere inferiore. Il venir meno di empatia e senso di colpa facilitano in questi casi l’esecuzione della violenza.

— Il conformismo, ossia la tendenza (per un bisogno di approvazione) ad allineare il proprio comportamento a quello della maggioranza, anche quando questa si caratterizza per una condotta riprovevole.

— L’obbedienza all’autorità, ossia la propensione a sottomettersi agli ordini anche immorali di figure dotate di uno status elevato in un determinato contesto.

— La diffusione della responsabilità, il sentirsi cioè meno in dovere di intervenire dinanzi a una emergenza laddove siano presenti altri potenziali soccorritori, con i quali, per l’appunto, si divide la responsabilità.

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L’attivazione combinata dei suddetti processi sopprime i normali vincoli morali e crea i presupposti per l’attuazione di condotte disumane anche in persone solitamente tranquille. Lontano dal giustificare l’azione riprovevole, una simile tesi situazionista rende più vigili nei confronti delle varie forze psicosociali che nostro malgrado ci investono, accrescendo come conseguenza la probabilità di contrastarle. Inoltre, tale approccio invita a praticare la “carità attribuzionale”: in altre parole, anziché partire attribuendo la colpa all’agente, sarebbe opportuno indagare innanzitutto la scena, alla ricerca delle determinanti situazionali dell’atto. Da adesso sappiamo in che direzione guardare.

Bibliografia
Bocchiaro Piero, Psicologia del Male (Laterza, 2009)
Zimbardo Philip, L’effetto Lucifero (Cortina, 2008)

Dr. Piero Bocchiaro

Immagine:
Pixabay

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