Le donne e la cleptocrazia

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In senso letterario, il termine “corruzione” indica la perdita della forma originaria, pura di qualcosa. Nel diritto invece, ormai dal XIII secolo, con tale termine si intende un reato connesso alla pubblica amministrazione, consistente nel derogare e nell’indurre a derogare ai doveri d’ufficio, in cambio di denaro, o di altri vantaggi personali.

Sebbene si tratti di un fenomeno molto diffuso e praticamente universale, va detto che la corruzione non è nata con le moderne democrazie: di essa troviamo infatti traccia anche nei primi testi scritti della storia, a partire dai codici legislativi sumeri.

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Se un livello minimo di corruzione è qualcosa di inevitabile in tutti gli Stati del mondo, quando un Paese si regge su sistema politico totalmente corrotto, si parla di “cleptocrazia” (o “governo di ladri”). Il termine ha un significato nettamente dispregiativo e indica quelle forme di governo in cui la gestione del potere è soltanto uno strumento di rendita personale. Un governo cleptocratico è infatti un governo corrotto, che non si cura della cosa pubblica e che sfrutta i cittadini per arricchire i suoi governanti. In genere si tratta di Stati retti da un governo oligarchico o dittatoriale, ma anche di Stati che hanno un sistema di governo democratico, pur se radicalmente corrotto, con delle lobbies che difendono esclusivamente i propri interessi. Inutile dire che, in questi Paesi, il progresso non conviene alla classe dirigente e per questo viene accuratamente impedito o, nella migliore delle ipotesi, fortemente rallentato. (Se qualcuno, a questo punto, nutrisse qualche legittimo dubbio rispetto alla situazione italiana, potrebbe andarsi a leggere la classifica dei Paesi più corrotti del mondo e rendersi conto del nostro “ottimo” piazzamento).

Parlando in generale, uno Stato la cui classe dirigente è corrotta, pone un problema non solo economico, ma anche, e soprattutto, etico. Anche la Chiesa cattolica, a partire da Papa Francesco, si mostra molto sensibile al problema e sempre più spesso escono dalla Santa Sede parole severe e pesanti contro la politica che serve solo gli interessi della classe dirigente. Ad un incontro organizzato dalla Cisl, il Card. Bagnasco ha recentemente sostenuto che: ”Solo a partire da una profonda riforma morale si potrà dare una prospettiva di crescita equa e solidale dell’economia, che eviti il perseguimento di interessi di parte, semmai con il discolpante auspicio che la ricchezza di pochi porti a breve o lungo termine un vantaggio per tutti”.

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Già, ma come si fa una profonda riforma morale? Come si realizza? Una delle vie maggiormente perseguite è quella che vede una concreta possibilità di cambiamento attraverso un rinnovamento delle classi dirigenti, mandando al potere persone più giovani e, soprattutto, donne. Questa è la ragione delle “quote rosa” in favore della rappresentanza femminile, che anche in Italia è molto più numerosa, negli ultimi anni, rispetto al passato, sia a livello locale che nazionale. L’opinione pubblica pensa davvero che le donne potrebbero portare dei grandi cambiamenti: vedi ad esempio il recente sondaggio Eurobarometro secondo il quale il 78% degli europei ritiene che se le donne dei Paesi in via di sviluppo ricoprissero cariche politiche le cose migliorerebbero. Ma è proprio così? Le donne potrebbero davvero salvare il mondo dalla corruzione?

Una certa evidenza sperimentale sembrerebbe in qualche modo avvalorare queste aspettative: molti studi hanno infatti mostrato chiaramente che le donne sono più avverse all’assunzione di rischi rispetto agli uomini (vedi studi di Jianakoplos e Bernasek 1998 e Watson, McNaughton 2007) e sono anche più vulnerabili alle sanzioni per aver violato le norme. Questo a causa della esplicita o tacita discriminazione sessuale di cui sono oggetto (Stolberg 2011). Ma questa maggiore affidabilità femminile è vera anche per le donne impegnate in politica?

Una settimana fa è stato pubblicato un nuovo studio (Fairer Sex or Purity Myth? Corruption, Gender, and Institutional Context, di Justin Esarey e Gina Chirillo, della Rice University) sull’argomento, che si occupa specificamente di donne in politica e corruzione. Gli autori si sono dunque chiesti se effettivamente le donne in politica siano meno corruttibili dei loro colleghi uomini, o se la loro presunta onestà non sia altro che l’ennesima riproposizione del mito della purezza femminile. Le conclusioni, ahimé, non sono affatto positive per la moralità pubblica del genere femminile: vediamo perché.

Nello studio vengono anzitutto citati casi di donne al potere che sono stati analizzati scientificamente: ad esempio, nell’agosto 1999, il capo della polizia di Mexico City creò un corpo di polizia stradale tutto femminile per combattere la dilagante corruzione. Cinque mesi dopo si vide che, effettivamente, nessuna delle nuove agenti di polizia stradale era stata accusata di aver accettato, o sollecitato, delle mazzette per non compiere il suo dovere (Quinones 1999). Una similare diminuzione della corruzione fu inoltre osservata quando fra le forze di polizia di Lima, in Perù, cominciarono a reclutare personale femminile (sebbene in seguito sia stato dimostrato che il livello di corruzione era effettivamente diminuito fra il personale dei livelli più bassi, ma non fra i dirigenti. Vedi studio di Karim, 2011)

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Un altro esempio citato da Esarey e Chirillo è lo studio condotto nel 2009 da Alatas, Cameron e Chaudhuri: si trattava di vedere il comportamento di soggetti appartenenti a quattro differenti nazionalità, mentre erano alle prese con problemi di corruzione. I soggetti dovevano scegliere se punire o meno chi, in un gioco di ruolo, accettava o offriva tangenti (anche se questo provocava loro un danno economico personale). I risultati mostrano che la volontà degli uomini di punire la corruzione in questa situazione è simile tra i soggetti delle quattro nazionalità, mentre la volontà delle donne di punire i corrotti è risultata diversa soprattutto in base alla nazionalità: le donne australiane sono risultate infatti meno tolleranti nei confronti della corruzione rispetto agli uomini della medesima nazionalità, ma la stessa cosa non è avvenuta per le donne residenti in India, Indonesia e Singapore (Alatas, Cameron e Chaudhuri 2009).

Lo studio di Esarey e Chirillo, che verrà pubblicato a breve sulla rivista Politics and Gender, è diviso in due parti. La prima parte ha considerato la corruzione a livello nazionale, usando dati di tre organizzazioni che monitorano la corruzione: Transparency International, the World Bank Governance Indicators e l’internazionale Crisis Risk Group. I dati riguardano 157 Paesi e sono stati raccolti fra il 1998 e il 2007. La seconda parte dello studio si è invece occupata della corruzione a livello individuale in 68 Paesi, usando dati del World Values Survey (WVS), che misura quanto le persone, a livello individuale, tollerino la corruzione. Questi dati sono stati raccolti fra il 1999 e il 2002.

Conclusioni dello studio: le donne in politica sono effettivamente più oneste ed hanno minori probabilità di partecipare alla corruzione politica, che vedono con minore tolleranza rispetto agli uomini, ma questo è – purtroppo – vero solo nei Paesi realmente democratici, dove cioè “la corruzione viene stigmatizzata e il guadagno privato dei politici viene punito dal voto degli elettori e dalle sentenze dei tribunali”. La stessa cosa non avviene tuttavia nelle società “autocratiche”, dove il potere viene controllato da rappresentanti solo di una piccola parte dell’intera società e dove la corruzione viene spesso considerata semplicemente un modo normale di fare affari, addirittura prevedibile.

Le donne, scrivono gli autori, sono più fortemente soggette alle norme sociali, dal momento che la discriminazione sistematica contro di loro rende la loro posizione più debole. Dal momento che la discriminazione di genere richiede alle donne un livello maggiore di capacità, rispetto agli uomini, per svolgere il medesimo compito, per loro è più rischioso derogare dalle regole formali e informali della cultura politica, poiché le loro trasgressioni hanno maggiori probabilità di provocare ritorsioni. Questo significa in pratica che se una cultura politica scoraggia la corruzione, le donne eviteranno in tutti i modi di coinvolgersi in tali attività e si professeranno molto più avverse ad essa rispetto agli uomini (poiché temono nei loro confronti conseguenze assai più gravi rispetto a quanto potrebbe accadere ai loro colleghi maschi), ma… Se la situazione socio-politica è diversa da quella stigmatizzante, ovvero corruzione, nepotismo e infedeltà sono socialmente e politicamente la norma, val bene sapere che le donne, in queste situazioni risultano comportarsi esattamente come gli uomini.

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Forse la auspicata “profonda riforma morale” dovrebbe cercare altre vie di espressione, rispetto a quella rappresentata dalle quote rosa: una persona si sceglie per il suo valore e non per il genere sessuale cui appartiene.

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Pubblicato anche su Huffington Post


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