Il perdono come terapia
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“L’uomo che sceglie la vendetta scavi due tombe”.
(Proverbio cinese)
Tutte le principali religioni insegnano il perdono. Anche filosofi e moralisti hanno discusso di questo argomento e del perdono si è detto che può essere un valore come una debolezza.
Dal punto di vista evolutivo il perdono potrebbe dimostrare la necessità di adeguarsi, al fine di mantenere la stabilità sociale, e questo può avvenire solo se alla vendetta si sostituisce il perdono.
A26/A5
Anche molti politici hanno parlato del perdono, come Gandhi, Martin Luther King, Jr. e Nelson Mandela e tutti lo hanno praticato.
Le scienze sociali hanno cominciato ad interessarsi del perdono con un libro di Lewis Smede (Forgive and Forget: Healing the Hurts We Don’t Deserve), un teologo, che ha stimolato un nuovo interesse su questo argomento, citando studi empirici. Da allora, molti studi si sono interessati del perdono e sono state messe a punto delle applicazioni cliniche. Gli ultimi due decenni di ricerca sul perdono hanno sicuramente contribuito a creare una maggiore consapevolezza su questo argomento.
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Un ulteriore impulso è stato dato al perdono dai recenti sviluppi del movimento della psicologia positiva, dove il perdono viene riconosciuto come fattore psicologico positivo. E’ inoltre cresciuto l’interesse per la spiritualità, che tratta anch’essa molto spesso del perdono e inoltre c’è qualche riconoscimento sul fatto che il perdono possa essere una componente importante della psicoterapia. E’ stato anche studiato il ruolo della personalità sul funzionamento del perdono.
Il perdono è associato a un miglioramento della salute fisica e mentale. La psicofisiologia e gli studi di neuroimaging dimostrano le possibili basi biologiche del perdono. Il perdono è stato inoltre impiegato come strumento educativo con buoni risultati e ha anche dimostrato di essere benefico per le vittime di abusi e infedeltà. In questo senso, il perdono non va inteso come una virtù o un atto morale, ma come potenziale terapeutico.
L’applicazione del perdono in psicoterapia deve superare una naturale avversione degli psicologi e degli psichiatri verso ciò che appare un elemento più vicino alla spiritualità e alla fede che non alla psicologia. Ci sono tuttavia eccezioni degne di nota che prendono coscienza dell’importanza della rabbia e del perdono sulla salute psichica. Va d’altra parte considerato anche lo scetticismo dei pazienti nell’uso terapeutico del perdono, poiché essi probabilmente hanno aspettative di cura che riguardano farmaci o psicoterapie, piuttosto che pratiche religiose o spirituali.
Quando si subisce un torto si provano emozioni (ansia, dolore, tristezza, ostilità e rabbia), si coltivano pensieri (desiderio di vendetta, rancore, ecc.) e si mettono in atto dei comportamenti (evitamento del colpevole, richieste di riparazione del danno, ecc.).
A seconda del contesto e dei fattori di personalità, ci può essere aperta espressione dei sentimenti, oppure la rabbia può essere silenziosa e trasformarsi in risentimento. Il risentimento è spesso collegato alla psicopatologia e può essere alla base di varie patologie psichiatriche, anche se al momento non esiste una categoria diagnostica che lo preveda anche se Linden [2003] ha proposto di chiamare il dolore da risentimento come “Disturbo post-traumatico da amarezza” (Post traumatic embitterment disorder) e lo ha messo a confronto con altri disturbi mentali.
C’è da dire che non sarebbe semplice diagnosticare l’emozione del risentimento e del desiderio di vendetta. Vanno poi considerate anche le convinzioni personali e culturali del paziente circa il perdono e la natura dell’offesa subita. Inoltre, non c’è ancora consenso sulla definizione e la misurazione del perdono e anche gli studi non sono semplici da condurre perché occorre capire se e quanto un’offesa subita nella vita reale reale possa essere paragonata alle prove fatte in laboratorio con scenari ipotetici.
Ci sono inoltre altre barriere che limitano l’implementazione del perdono nella pratica clinica. Il perdono infatti può essere considerato anche come una debolezza del carattere e potrebbe condurre all’idea che ciò che si sta chiedendo al paziente è rinunciare al proprio diritto di chiedere giustizia. Il perdono ricevuto, d’altra parte, potrebbe incoraggiare l’autore del reato ad offendere nuovamente e a questo proposito molti ritengono che una vendetta misurata possa essere considerata il miglior modo per riprendere i rapporti.
In conclusione, i terapeuti dovrebbero prendere maggiormente in considerazione questo strumento e conoscerne i possibili effetti terapeutici, oltre che i suoi limiti, senza dimenticare le norme culturali e le credenze presenti nella realtà in cui operano.
Dr. Giuliana Proietti
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Fonte:
Gangdev, P. (2009). Forgiveness: A note for psychiatrists. Indian Journal of Psychiatry, 51(2), 153–156. doi:10.4103/0019-5545.49459
Immagine:
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Dr. Giuliana Proietti
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