La memoria secondo Sant’Agostino

La memoria secondo Sant’Agostino

Psicolinea

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Leggendo Le Confessioni di Sant’Agostino si rimane veramente colpiti dalla profondità di analisi psicologica del dottore della Chiesa sul tema della memoria, anche se il suo intento, ovviamente, non era quello di scrivere un trattato sulla psiche umana, ma fare riflessioni volte alla ricerca spirituale.

Riportiamo integralmente il capitolo dedicato alla memoria, sicuri che l’argomento possa interessare, al di là degli aspetti religiosi (che non sono oggetto d’indagine in questa sede), anche gli studiosi e gli appassionati di psicologia.

La memoria

Nei quartieri della memoria:

8. 12. Trascenderò dunque anche questa forza della mia natura per salire gradatamente al mio Creatore. Giungo allora ai campi e ai vasti quartieri della memoria, dove riposano i tesori delle innumerevoli immagini di ogni sorta di cose, introdotte dalle percezioni; dove sono pure depositati tutti i prodotti del nostro pensiero, ottenuti amplificando o riducendo o comunque alterando le percezioni dei sensi, e tutto ciò che vi fu messo al riparo e in disparte e che l’oblio non ha ancora inghiottito e sepolto. Quando sono là dentro, evoco tutte le immagini che voglio. Alcune si presentano all’istante, altre si fanno desiderare più a lungo, quasi vengano estratte da ripostigli più segreti. Alcune si precipitano a ondate e, mentre ne cerco e desidero altre, balzano in mezzo con l’aria di dire: “Non siamo noi per caso?”, e io le scaccio con la mano dello spirito dal volto del ricordo, finché quella che cerco si snebbia e avanza dalle segrete al mio sguardo; altre sopravvengono docili, in gruppi ordinati, via via che le cerco, le prime che si ritirano davanti alle seconde e ritirandosi vanno a riporsi ove staranno, pronte a uscire di nuovo quando vorrò. Tutto ciò avviene, quando faccio un racconto a memoria.

a) le sensazioni avute

8.13. Lì si conservano, distinte per specie, le cose che, ciascuna per il proprio accesso, vi furono introdotte: la luce e tutti i colori e le forme dei corpi attraverso gli occhi; attraverso gli orecchi invece tutte le varietà dei suoni, e tutti gli odori per l’accesso delle nari, tutti i sapori per l’accesso della bocca, mentre per la sensibilità diffusa in tutto il corpo la durezza e mollezza, il caldo o freddo, il liscio o aspro, il pesante o leggero sia all’esterno sia all’interno del corpo stesso. Tutte queste cose la memoria accoglie nella sua vasta caverna, nelle sue, come dire, pieghe segrete e ineffabili, per richiamarle e rivederle all’occorrenza. Tutte vi entrano, ciascuna per la sua porta, e vi vengono riposte. Non le cose in sé, naturalmente, vi entrano; ma lì stanno, pronte al richiamo del pensiero che le ricordi, le immagini delle cose percepite. Nessuno sa dire come si siano formate queste immagini, benché siano visibili i sensi che le captano e le ripongono nel nostro interno. Anche immerso nelle tenebre e nel silenzio io posso, se voglio, estrarre nella mia memoria i colori, distinguere il bianco dal nero e da qualsiasi altro colore voglio; la mia considerazione delle immagini attinte per il tramite degli occhi non è disturbata dalle incursioni dei suoni, essi pure presenti, ma inavvertiti, come se fossero depositati in disparte. Ma quando li desidero e chiamo essi pure, si presentano immediatamente, e allora canto finché voglio senza muovere la lingua e con la gola tacita; e ora sono le immagini dei colori che, sebbene là presenti, non s’intromettono a interrompere l’azione che compio, di maneggiare l’altro tesoro, quello confluito dalle orecchie. Così per tutte le altre cose immesse e ammassate attraverso gli altri sensi: le ricordo a mio piacimento, distinguo la fragranza dei gigli dalle viole senza odorare nulla, preferisco il miele al mosto cotto, il liscio all’aspro senza nulla gustare o palpare al momento, ma col ricordo.

b) le esperienze.

8. 14. Sono tutte azioni che compio interiormente nell’enorme palazzo della mia memoria. Là dispongo di cielo e terra e mare insieme a tutte le sensazioni che potei avere da essi, tranne quelle dimenticate. Là incontro anche me stesso e mi ricordo negli atti che ho compiuto, nel tempo e nel luogo in cui li ho compiuti, nei sentimenti che ebbi compiendoli. Là stanno tutte le cose di cui serbo il ricordo, sperimentate di persona o udite da altri. Dalla stessa, copiosa riserva traggo via via sempre nuovi raffronti tra le cose sperimentate, o udite e sulla scorta dell’esperienza credute; non solo collegandole al passato, ma intessendo sopra di esse anche azioni, eventi e speranze future, e sempre a tutte pensando come a cose presenti. “Farò questa cosa, farò quell’altra”, dico fra me appunto nell’immane grembo del mio spirito, popolato di tante immagini di tante cose; e l’una cosa e l’altra avviene. “Oh, se accadesse questa cosa, o quell’altra!”, “Dio ci scampi da questa cosa, o da quell’altra!”, dico fra me, e mentre lo dico ho innanzi le immagini di tutte le cose che dico, uscite dall’unico scrigno della memoria, e senza di cui non potrei nominarne una sola.

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Meravigliosa potenza della memoria

8. 15. Grande è questa potenza della memoria, troppo grande, Dio mio, un santuario vasto, infinito. Chi giunse mai al suo fondo? E tuttavia è una facoltà del mio spirito, connessa alla mia natura. In realtà io non riesco a comprendere tutto ciò che sono. Dunque lo spirito sarebbe troppo angusto per comprendere se stesso? E dove sarebbe quanto di se stesso non comprende? Fuori di se stesso anziché in se stesso? No. Come mai allora non lo comprende? Ciò mi riempie di gran meraviglia, lo sbigottimento mi afferra. Eppure gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le correnti amplissime dei fiumi, la circonferenza dell’Oceano, le orbite degli astri, mentre trascurano se stessi. Non li meraviglia ch’io parlassi di tutte queste cose senza vederle con gli occhi; eppure non avrei potuto parlare senza vedere i monti e le onde e i fiumi e gli astri che vidi e l’Oceano di cui sentii parlare, dentro di me, nella memoria tanto estesi come se li vedessi fuori di me. Eppure non li inghiottii vedendoli, quando li vidi con gli occhi, né sono in me queste cose reali, ma le loro immagini, e so da quale senso del corpo ognuna fu impressa in me.

c) le nozioni apprese

9. 16. Ma non è questo l’unico contenuto dell’immensa capacità della mia memoria. Vi si trovano anche tutte le nozioni apprese dall’insegnamento delle discipline liberali, che non ho ancora dimenticato. Esse stanno relegate, per così dire, in un luogo più interno, che non è un luogo, come non sono le loro immagini, ma le nozioni stesse, che porto. Cosa è la letteratura? e la dialettica? e quanti sono i tipi di problemi esistenti? Tutte le mie conoscenze in materia stanno nella mia memoria non quali immagini là trattenute, mentre ho lasciato fuori l’oggetto: non come un suono echeggiato e trascorso, come una voce, che imprime nell’orecchio un’orma che la fa ricordare quasi ancora echeggiasse, mentre ormai si tace; o come un odore, che nel passare e disperdersi al vento colpisce l’olfatto e trasmette così alla memoria una rappresentazione di sé, che la reminiscenza rievoca; o come un cibo, che certo nel ventre non si assapora più, eppure quasi lo si assapora nella memoria; o un oggetto, che percepiamo col tatto corporeo e che la nostra memoria immagina anche quando è separato da noi. In tutti questi casi non s’introducono nella memoria le cose, ma soltanto le loro immagini sono colte con una rapidità portentosa, riposte in una sorta di portentose cellette, ed estratte in modo portentoso dal ricordo.

A17

L’acquisizione del sapere

10. 17. Quando però mi si dice: “Tre tipi di problemi vi sono: dell’esistenza, dell’essenza e della qualità di una cosa”, io afferro, sì, l’immagine dei suoni che queste parole compongono, so che passarono per l’aria risuonando e ora non esistono più; ma le cose in sé, che quei suoni indicano, non le toccai con nessuno dei sensi corporei, né le vidi fuori dallo spirito. Nella memoria riposi non già le loro immagini, bensì le cose stesse. Ma da dove entrarono in me? Lo dicano esse, se possono. Io, per quanto passi in rassegna tutte le porte della mia carne, non ne trovo una, per cui siano entrate. Gli occhi dichiarano: “Se hanno colore, le abbiamo trasmesse noi”; le orecchie dichiarano: “Se produssero suono, furono segnalate da noi”; le nari dichiarano: “Se avevano odore, sono passate da noi”; dichiara anche il senso del gusto: “Se non c’è sapore, non chiedere nulla a me”; il tatto dichiara: “Se non c’è corpo, non ho palpato, e se non ho palpato, non ho segnalato”. Da dove, dunque, e per dove entrarono queste cose nella mia memoria? Non lo so. Le appresi non già affidandomi a un’intelligenza altrui, ma nella mia riconoscendole e apprezzandone la verità, per poi affidarle ad essa come a un deposito, da cui estrarle a mio piacere. Dunque là erano anche prima che le apprendessi; ma non erano nella memoria. Dove dunque, o perché al sentirne parlare le riconobbi e dissi: “È così, è vero”? Erano forse già nella memoria, però tanto remote e relegate, per così dire, in cavità più segrete, di modo che forse non avrei potuto pensarle senza l’insegnamento di qualcuno, che le estraesse?

La riflessione

11. 18. Da ciò risulta che l’apprendimento delle nozioni di cui non otteniamo le immagini attraverso i sensi, ma che senza immagini vediamo direttamente dentro di noi quali sono, altro non è, se non una sorta di raccolta, da parte del pensiero, di elementi sparsi, contenuti disordinatamente dalla memoria, e di lavorio da parte della riflessione, affinché nella stessa memoria, ove prima si nascondevano qua e là negletti, si tengano, diciamo così, a portata di mano per presentarsi d’ora in avanti facilmente alla considerazione familiare dello spirito. Quante nozioni di questo genere contiene la mia memoria, nozioni ormai ritrovate e, secondo l’espressione usata sopra, quasi a portata di mano! In tal caso si dice che le abbiamo imparate e le conosciamo. Se però tralascio di evocarle anche per brevi intervalli di tempo, esse vengono sommerse di nuovo e dileguano, si direbbe, in più remoti recessi, tanto che poi il pensiero le deve estrarre da capo, quasi nuove e appunto di là, perché non hanno altra sede, e di nuovo raccoglierle, per poterle sapere, come adunandole dopo una sorta di dispersione. Da questa operazione deriva il verbo cogitare, essendo cogo per cogito ciò che ago è per agito, facio per factito. Senonché lo spirito si appropriò di questo verbo, in modo che ormai si dice propriamente cogitare l’azione di raccogliere, ossia di cogere, nell’animo e non altrove.

d) i numeri;

12. 19. La memoria contiene anche i rapporti e le innumerevoli leggi dell’aritmetica e della geometria, senza che nessun senso corporeo ve ne abbia impressa alcuna, poiché non sono dotate di colore né di voce né di odore, né si gustano o si palpano. Udii i suoni delle parole che le designano quando se ne discute, ma altro sono le parole, altro le cose: le prime suonano diversamente in greco e in latino, le seconde non appartengono né al greco né al latino né ad altra lingua. Vidi le linee sottilissime tracciate dagli artigiani, simili a fili di ragnatela; ma altro sono le linee geometriche, altro le loro rappresentazioni riferitemi dall’occhio della carne: ognuno le conosce riconoscendole dentro di sé, senza pensare a un corpo qualsiasi. Percepii, anche, con tutti i sensi del corpo i numeri che calcoliamo; ma quelli usati per calcolare sono tutt’altra cosa. Non sono nemmeno le immagini dei primi, e proprio per questo essi sono veramente. Rida delle mie parole chi non li vede, e io mi dorrò che rida di me.

e) le circostanze della conoscenza;

13. 20. Tutte queste nozioni conservo per mezzo della memoria; e conservo per mezzo della memoria anche il modo come le ho apprese. Così molti, falsissimi argomenti opposti a queste verità e da me uditi, li conservo per mezzo della memoria. Sono ben falsi, ma non è falso il fatto che li ricordo. Ricordo persino la distinzione che stabilii tra quelle verità e queste falsità ad esse opposte; e in modo diverso ora mi vedo stabilire questa distinzione dall’altro, con cui ricordo di averla stabilita sovente, ogni volta che vi pensavo. Dunque e ricordo di aver capito assai sovente queste cose, e ciò che ora distinguo e capisco ripongo nella memoria per ricordarmi poi di aver ora capito. Dunque ricordo anche di aver ricordato, come poi, se mi sovverrò di aver potuto ricordare adesso, me ne sovverrò certamente con la facoltà della memoria.

f) i sentimenti dello spirito.

Una Conferenza sulla Paura

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14. 21. Anche i sentimenti del mio spirito contiene la stessa memoria, non nella forma in cui li possiede lo spirito all’atto di provarli, ma molto diversa, adeguata alla facoltà della memoria. Ricordo di essere stato lieto, senza essere lieto; rievoco le mie passate tristezze, senza essere triste; mi sovvengo senza provare paura di aver provato talvolta paura, e sono memore di antichi desideri senza avere desideri. Talvolta ricordo all’opposto con letizia la mia passata tristezza, e con tristezza la letizia. Ciò non deve sorprendere, trattandosi del corpo, poiché spirito e corpo sono entità diverse. Quindi il felice ricordo di un dolore passato del corpo non è sorprendente. Ma quest’altro caso? La memoria è anch’essa spirito; raccomandando ad uno di tenere a mente qualcosa, noi diciamo: “Bada di tenerla presente nel tuo spirito”; quando dimentichiamo, diciamo: “Non l’ho tenuto presente nel mio spirito”, o: “Mi è sfuggito dallo spirito”, ove chiamiamo appunto spirito la memoria. Se è così, che è ciò >: che nel lieto ricordo di una tristezza passata il mio spirito ha letizia, la memoria tristezza, e lo spirito è lieto per il fatto che in lui c’è letizia, la memoria è triste per il fatto che in lei c’è tristezza? Forse che la memoria non è parte dello spirito? Chi oserebbe affermarlo? In realtà la memoria è, direi, il ventre dello spirito, mentre letizia e tristezza sono il cibo, ora dolce ora amaro. Quando i due sentimenti vengono affidati alla memoria, passano in questa specie di ventre e vi si possono depositare, ma non possono avere sapore. È ridicolo attribuire una somiglianza a due atti tanto diversi; eppure non c’è una dissomiglianza assoluta.

14. 22. Ma dirò di più: se asserisco che quattro sono i turbamenti dello spirito: desiderio, gioia, timore, tristezza, attingo alla memoria, come tutte le discussioni che potrò impostare su di essi, suddividendoli ognuno in specie proprie del loro genere e dandone le definizioni. Tutto ciò che ne dico, lo trovo e lo traggo dalla memoria. Eppure all’atto di rievocarli col ricordo, non mi sento turbare da nessuno di quei turbamenti; ed anche prima che li richiamassi e discutessi si trovavano nella mia memoria, altrimenti non potevano essere attinti dal ricordo. Forse avviene come del cibo, che riesce dal ventre mediante la ruminazione: così le impressioni riescono dalla memoria mediante il ricordo. Ma perché non si percepiscono nella bocca del pensiero, mentre se ne discute e quindi si ricordano, la dolcezza della letizia o l’amarezza della tristezza? Sarebbe qui la differenza, visto che la somiglianza delle due operazioni non è totale? Nessuno infatti parlerebbe volentieri di queste cose, se, ogni qual volta nominiamo la tristezza o il timore, inevitabilmente li provassimo. Eppure non potremmo parlarne, se non ritrovassimo nella nostra memoria, oltre ai suoni delle parole, secondo le immagini che vi furono impresse dai sensi del corpo, anche le notizie delle cose che esprimono e che non ricevemmo per nessuna porta della carne. Lo spirito medesimo le sentì attraverso l’esperienza delle sue affezioni e le affidò alla memoria, oppure la memoria le trattenne di sua iniziativa senza che le fossero affidate da altri.

Ricordo e immagine

15. 23. L’operazione avviene per immagini o no? Difficile dirlo. Pronuncio ad esempio il nome della pietra o del sole, mentre gli oggetti non sono presenti in sé ai miei sensi: nella memoria però sono certamente disponibili le loro immagini. Pronuncio il nome del dolore fisico, quando neppure esso mi è presente, poiché non provo alcun dolore: ma se non avessi presente nella memoria la sua immagine, non saprei cosa mi dico, e nel discutere non saprei distinguerlo dal piacere. Pronuncio ora il nome della salute fisica, mentre sono fisicamente sano. La cosa in sé mi è presente, tuttavia non potrei affatto ricordare il significato del suono di questo nome, se non si trovasse anche la sua rappresentazione nella mia memoria; e gli ammalati, sentendo nominare la salute, non la riconoscerebbero, se la facoltà della loro memoria non conservasse la medesima rappresentazione anche quando la cosa in sé è assente dal corpo. Pronuncio il nome dei numeri usati per calcolare, ed ecco che stanno nella mia memoria non già in immagine, ma in sé. Pronuncio il nome di immagine del sole, ed essa è presente nella mia memoria: rievoco infatti non già un’immagine d’immagine del sole, ma l’immagine in sé, ed essa è disponibile in sé al mio ricordo. Pronuncio il nome della memoria, e riconosco ciò che nomino. Dove lo riconosco, se non nella memoria stessa? E proprio la memoria sarebbe presente a sé con la sua immagine, invece che in se stessa?

g) l’oblio.

16. 24. Ma allora, quando nomino l’oblio, riconoscendo contemporaneamente ciò che nomino, lo riconoscerei, se non lo ricordassi? Non parlo del semplice suono di questa parola, ma della cosa che indica, dimenticata la quale, non varrei certamente a riconoscere cosa vale quel suono. Dunque, quando ricordo la memoria, proprio la memoria è in sé presente a se stessa; allorché invece ricordo l’oblio, sono presenti e la memoria e l’oblio: la memoria, con cui ricordo; l’oblio, che ricordo. Ma cos’è l’oblio, se non privazione di memoria? Come dunque può essere presente, affinché lo ricordi, se la sua presenza mi rende impossibile ricordare? Eppure, se è vero che conserviamo nella memoria quanto ricordiamo e che, privi del ricordo dell’oblio, non potremmo assolutamente riconoscere la cosa udendo pronunciare il nome, la memoria conserva l’oblio. Così abbiamo presente, per non dimenticare, ciò che con la sua presenza ci fa dimenticare. Dovremo quindi intendere che non si trova nella memoria proprio l’oblio in sé, quando lo ricordiamo, bensì la sua immagine, poiché la presenza diretta dell’oblio ci farebbe non già ricordare, ma obliare? Chi potrà mai indagare questo fatto? chi comprendere come stanno le cose?

16. 25. Io, Signore, certamente mi arrovello su questo fatto, ossia mi arrovello su me stesso. Sono diventato per me un terreno aspro, che mi fa sudare abbondantemente 52. Non stiamo scrutando le regioni celesti 53, né misurando le distanze degli astri o cercando la ragione dell’equilibrio terrestre. Chi ricorda sono io, io lo spirito. Non è così strano che sia lungi da me tutto ciò che non sono io; ma c’è nulla più vicino a me di me stesso? Ed ecco che invece non posso comprendere la natura della mia memoria mentre senza di quella non potrei nominare neppure me stesso. Cosa dovrei dire, infatti, quando sono certo di ricordare l’oblio? Dovrei dire che ciò che rammento non sta nella mia memoria, oppure che l’oblio sta nella mia memoria allo scopo di farmi obliare? Ipotesi entrambe assurdissime. E questa terza: potrei dire che la mia memoria afferra l’immagine dell’oblio, non l’oblio in sé, quando me ne rammento? Potrei dirlo, mentre per imprimere l’immagine di qualsiasi cosa nella memoria occorre prima la presenza reale della cosa, da cui parte l’immagine per imprimersi nella memoria? Così ricordo Cartagine, tutti i luoghi ove vissi, la fisionomia delle persone che incontrai; così le cose che mi hanno riferito anche gli altri sensi, così la stessa salute o la sofferenza fisica. Quando erano presenti tutte queste cose, la memoria ne colse le immagini, rendendomi possibile di contemplarle come ancora presenti e riconsiderarle con lo spirito, ricordandole anche assenti. Se dunque la memoria conserva non proprio l’oblio in sé, ma la sua immagine, l’oblio fu pure presente, affinché si potesse coglierne l’immagine. Ma se era presente, come iscriveva la sua immagine nella memoria, quando con la sua presenza cancella tutto ciò che vi trova già impresso, l’oblio? Eppure in qualche modo, in modo sia pure incomprensibile e inesplicabile, sono certo di ricordare anche l’oblio stesso, affossatore di ogni nostro ricordo.


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Ricerca di Dio oltre la memoria

17. 26. La facoltà della memoria è grandiosa. Ispira quasi un senso di terrore, Dio mio, la sua infinita e profonda complessità. E ciò è lo spirito, e ciò sono io stesso. Cosa sono dunque, Dio mio? Qual è la mia natura? Una vita varia, multiforme, di un’immensità poderosa. Ecco, nei campi e negli antri, nelle caverne incalcolabili della memoria, incalcolabilmente popolate da specie incalcolabili di cose, talune presenti per immagini, come è il caso di tutti i corpi, talune proprio in sé, come è il caso delle scienze, talune attraverso indefinibili nozioni e notazioni, come è il caso dei sentimenti spirituali, che la memoria conserva anche quando lo spirito più non li prova, sebbene essere nella memoria sia essere nello spirito; per tutti questi luoghi io trascorro, ora a volo qua e là, ora penetrandovi anche quanto più posso, senza trovare limiti da nessuna parte, tanto grande è la facoltà della memoria, e tanto grande la facoltà di vivere in un uomo, che pure vive per morire. Che devo fare dunque, o tu, vera vita mia, Dio mio? Supererò anche questa mia facoltà, cui si dà il nome di memoria, la supererò, per protendermi verso di te, dolce lume 54. Che mi dici? Ecco, io, elevandomi per mezzo del mio spirito sino a te fisso sopra di me, supererò anche questa mia facoltà, cui si dà il nome di memoria, nell’anelito di coglierti da dove si può coglierti, e di aderire a te da dove si può aderire a te. Hanno infatti la memoria anche le bestie e gli uccelli, altrimenti non ritroverebbero i loro covi e i loro nidi e le molte altre cose ad essi abituali, poiché senza memoria non potrebbero neppure acquistare un’abitudine. Supererò, dunque, anche la memoria per cogliere Colui, che mi distinse dai quadrupedi e mi fece più sapiente dei volatili del cielo. Supererò anche la memoria, ma per trovarti dove, o vero bene, o sicura dolcezza, per trovarti dove? Trovarti fuori della mia memoria, significa averti scordato. Ma neppure potrei trovarti, se non avessi ricordo di te.

Memoria e oblio

18. 27. La donna che perse la dracma e la cercò con la lucerna, non l’avrebbe trovata, se non ne avesse avuto il ricordo. Trovandola, come avrebbe saputo che era la sua dracma, se non ne avesse avuto il ricordo? Molti oggetti ricordo di aver perso anch’io, cercato e trovato; e so pure che, mentre ne cercavo qualcuno, se mi si chiedeva: “È forse questo?”, “È forse quello?”, continuavo a rispondere di no, finché mi veniva presentato quello che cercavo. Se non avessi avuto il ricordo di quale era, quand’anche mi fosse stato presentato, non l’avrei ritrovato, poiché non l’avrei riconosciuto. Avviene sempre così, ogni volta che perdiamo e cerchiamo e troviamo qualcosa. Se mai qualcosa, ad esempio un qualsiasi oggetto visibile, scompare dai nostri occhi, ma non dalla nostra memoria, la sua immagine si conserva dentro di noi, e noi cerchiamo finché sia restituito alla nostra vista. Trovatolo, lo riconosciamo in base all’immagine interiore, né diremmo di aver trovato l’oggetto scomparso, se non lo riconoscessimo, né potremmo riconoscerlo, se non lo ricordassimo. L’oggetto era perduto, sì, per gli occhi, ma conservato dalla memoria.

Ricordi perduti nella memoria

19. 28. Ma quando è la memoria a perdere qualcosa, come avviene allorché dimentichiamo e cerchiamo di ricordare, dove mai cerchiamo, se non nella stessa memoria? Ed è lì che, se per caso ci si presenta una cosa diversa, la respingiamo, finché capita quella che cerchiamo. E quando capita, diciamo: “È questa”, né diremmo così senza riconoscerla, né la riconosceremmo senza ricordarla. Dunque ce n’eravamo davvero dimenticati. O forse non ci era caduta per intero dalla mente e noi, con la parte che serbavamo, andavamo in cerca dell’altra parte, quasi che la memoria, sentendo di non sviluppare tutt’insieme ciò che soleva ricordare insieme, e zoppicando, per così dire, con un moncone d’abitudine, sollecitasse la restituzione della parte mancante? Così, quando rivediamo con gli occhi o ripensiamo con la mente una persona nota, ma ne cerchiamo il nome dimenticato, qualunque altro se ne presenti, non lo colleghiamo con quella persona, perché non avevamo l’abitudine di pensarlo con lei. Quindi lo respingiamo, finché ci si presenta quello, che soddisfa pienamente la nozione della persona ormai ad esso congiunta. Ma donde si presenta un tal nome, se non dalla stessa memoria? Anche nel caso che altri ce lo suggeriscano, e così lo riconosciamo, si presenta pure di là. Non è una cosa nuova, alla quale prestiamo fede, ma un ricordo che torna, per il quale confermiamo che è proprio il nome che ci fu detto. Se invece si fosse cancellato del tutto dal nostro spirito, nessun suggerimento ce lo farebbe ricordare. Infatti una cosa, di cui ricordiamo almeno di averla dimenticata, non è ancora dimenticata del tutto. Dimenticata del tutto, non potremmo dunque neppure cercare una cosa perduta.

Ricerca di Dio, ricerca di felicità

20. 29. Come ti cerco dunque, Signore? Cercando te, Dio mio, io cerco la felicità della vita. Ti cercherò perché l’anima mia viva. Il mio corpo vive della mia anima e la mia anima vive di te. Come cerco dunque la felicità? Non la posseggo infatti, finché non dico: “Basta, è lì”. E qui bisogna che dica come la cerco: se mediante il ricordo, quasi l’abbia dimenticata ma ancora conservi il ricordo di averla dimenticata, oppure mediante l’anelito di conoscere una felicità ignota perché mai conosciuta o perché dimenticata al punto di non ricordare neppure d’averla dimenticata. La felicità della vita non è proprio ciò che tutti vogliono e nessuno senza eccezioni non vuole? Dove la conobbero per volerla così? dove la videro per amarla? Certo noi la possediamo in qualche modo. C’è il modo di chi la possiede, e allora è felice, e c’è chi è felice per la speranza di possederla. I secondi la posseggono in modo inferiore ai primi, felici già per la padronanza della felicità; tuttavia stanno meglio di altri, non felici né per padronanza né per speranza. Però nemmeno questi ultimi desidererebbero tanto la felicità, se non la possedessero in qualche modo; che la desiderino, è certissimo. Non so come, la conobbero, e perciò, perché la conoscono, la posseggono, in una forma a me sconosciuta, che mi travaglio di conoscere. È forse nella memoria? Se lì, ci fu già un tempo, in cui fummo felici; se ciascuno individualmente, o nella persona del primo peccatore in cui tutti siamo morti e da cui tutti siamo nati infelici , non cerco ora di sapere. Ora cerco di sapere se la felicità si trova nella memoria. Certo, se non la conoscessimo, non l’ameremmo. All’udirne il nome tutti confessiamo di desiderarla in se stessa, e non è il suono della parola che ci rallegra. Non si rallegra un greco quando l’ode pronunciare in latino, poiché non comprende ciò che viene detto, mentre noi ci rallegriamo, come si rallegra lo stesso greco all’udirlo in greco, poiché la cosa in se stessa non è greca né latina, ed è la cosa, che greci e latini e popoli di ogni altra lingua cercano avidamente. L’umanità intera la conosce. Se si potesse chiederle con una sola parola se vuol essere felice, non v’è dubbio che risponderebbe di sì. Il che non accadrebbe, se appunto la cosa che la parola designa non si conservasse nella memoria.

Il ricordo della felicità

21. 30. È un ricordo simile a quello che ha di Cartagine chi vide questa città? No, perché la felicità, non essendo corporea, non si vede con gli occhi. È simile al ricordo che abbiamo dei numeri? Nemmeno, perché chi ha la nozione dei numeri non cerca ancora di possederli, mentre la nozione che abbiamo della felicità ce la fa anche amare, e tuttavia cerchiamo ancora di possederla per essere felici. È simile al ricordo che abbiamo dell’eloquenza? Nemmeno, perché se, a udirne il nome, anche le persone non ancora eloquenti ricordano cosa designa, e se molti desiderano essere eloquenti, così dimostrando di avere nozione dell’eloquenza, tuttavia costoro percepirono l’eloquenza in altri mediante i sensi del corpo, ne provarono godimento, e quindi desiderano essere eloquenti; però senza una nozione interiore non potrebbero provare godimento, e senza godimento non potrebbero desiderare di essere eloquenti. Ma la felicità non la conosciamo negli altri mediante i sensi del corpo. È simile allora al ricordo che abbiamo della gioia? Forse sì. Delle mie gioie ho il ricordo anche nella tristezza, e così della felicità nell’afflizione. Eppure non ho mai visto o udito o fiutato o gustato o toccato questa gioia con i sensi del corpo, bensì l’ho sperimentata nel mio animo quando mi sono rallegrato. La sua nozione penetrò nella mia memoria affinché potessi ricordarla, ora con disdegno, ora con desiderio, secondo i diversi motivi per cui ricordo di aver gioito. Se mi pervase la gioia per motivi abietti, ora il suo ricordo mi è detestabile ed esecrabile; se per motivi buoni e onesti, la rievoco con rimpianto, anche se per caso essi mancano. Di qui la triste rievocazione della gioia antica.

Desiderio universale della felicità

21. 31. Dove dunque e quando ho sperimentato la mia felicità, per poterla ricordare e amare e desiderare? Né soltanto io, o pochi uomini con me vogliono essere felici, bensì tutti lo vogliono. Ora, senza conoscere ciò di una conoscenza precisa non lo vorremmo di una volontà così decisa. Ma, che è ciò?  Chiedi a due persone se vogliono fare il soldato, e può accadere che l’una risponda di sì, l’altra di no; ma chiedi loro se vogliono essere felici, ed ambedue ti risponderanno all’istante, senza ombra di dubbio, che sì; anzi, lo scopo per cui l’una vuole fare il soldato, l’altra no, è soltanto la felicità. Poiché l’una trae godimento da una condizione, l’altra dall’altra. Così tutti concordano nel desiderare la felicità, come concorderebbero nel rispondere a chi chiedesse loro se desiderano godere. Il godimento è appunto ciò che chiamiamo felicità della vita: l’uno lo ricerca bensì da una parte, l’altro dall’altra, ma tutti tendono a un’unica meta, di godere. E siccome il gaudio è un sentimento che nessuno può dire di non avere mai sperimentato, perciò lo si ritrova nella memoria e perciò lo si riconosce all’udire il nome della felicità.

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Dio godimento dei suoi servi

22. 32. Lontano, Signore, lontano dal cuore del tuo servo che si confessa a te, lontano il pensiero che qualsiasi godimento possa rendermi felice. C’è un godimento che non è concesso agli empi, ma a coloro che ti servono per puro amore, e il loro godimento sei tu stesso. E questa è la felicità, godere per te, di te, a causa di te; fuori di questa non ve n’è altra. Chi crede ve ne sia un’altra, persegue un altro godimento, non il vero. Tuttavia da una certa immagine di godimento la loro volontà non si distoglie.

Amore universale per la verità

23. 33. Dunque non è certo che tutti vogliono essere felici: quanti non cercano il godimento di chi, come te, è l’unica felicità della vita, in realtà non vogliono la felicità. O forse tutti la vogliono, ma, poiché le brame della carne sono opposte allo spirito, e quelle dello spirito alla carne, sì che non fanno ciò che vogliono, cadono là dove possono, e ne sono paghi, perché ciò che non possono, non lo vogliono quanto occorrerebbe per volerlo? Chiedo a tutti: “Preferite godere della verità o della menzogna?”. Rispondono di preferire la verità, con la stessa risolutezza con cui affermano di voler essere felici. Già, la felicità della vita è il godimento della verità, cioè il godimento di te, che sei la verità o Dio, mia luce , salvezza del mio volto, Dio mio . Questa felicità della vita vogliono tutti, questa vita che è l’unica felicità vogliono tutti, il godimento della verità vogliono tutti. Ho conosciuto molte persone desiderose di ingannare; nessuna di essere ingannata. Dove avevano avuto nozione della felicità, se non dove l’avevano anche avuta della verità? Amano la verità, poiché non vogliono essere ingannate; e amando la felicità, che non è se non il godimento della verità, amano certamente ancora la verità, né l’amerebbero senza averne una certa nozione nella memoria. Perché dunque non ne traggono godimento? Perché non sono felici? Perché sono più intensamente occupati in altre cose, che li rendono più infelici di quanto non li renda felici questa, di cui hanno un così tenue ricordo. C’è ancora un po’ di luce fra gli uomini. Camminino, camminino dunque, per non essere sorpresi dalle tenebre .

23. 34. Ma perché la verità genera odio, e l’uomo che predica il vero in tuo nome diventa per loro un nemico, mentre amano pure la felicità, che non è se non il godimento della verità? In realtà l’amore della verità è tale, che quanti amano un oggetto diverso pretendono che l’oggetto del loro amore sia la verità; e poiché detestano di essere ingannati, detestano di essere convinti che s’ingannano. Perciò odiano la verità: per amore di ciò che credono verità. L’amano quando splende, l’odiano quando riprende. Non vogliono essere ingannati e vogliono ingannare, quindi l’amano allorché si rivela, e l’odiano allorché li rivela. Questo il castigo con cui li ripagherà: come non vogliono essere scoperti da lei, lei contro il loro volere scoprirà loro, rimanendo a loro coperta. Così, così, persino così cieco e debole, volgare e deforme è l’animo umano: vuole rimanere occulto, ma a sé non vuole che rimanga occulto nulla. E viene ripagato con la condizione opposta: non rimane lui occulto alla verità, ma la verità rimane occulta a lui. Eppure anche in questa condizione infelice preferisce il godimento della verità a quello della menzogna. Dunque sarà felice allorché senza ostacoli né turbamento godrà dell’unica Verità, grazie alla quale sono vere tutte le cose.

Presenza di Dio nella memoria

24. 35. Ecco quanto ho spaziato nella mia memoria alla tua ricerca, Signore; e fuori di questa non ti ho trovato. Nulla, di ciò che di te ho trovato dal giorno in cui ti conobbi, non fu un ricordo; perché dal giorno in cui ti conobbi, non ti dimenticai. Dove ho trovato la verità, là ho trovato il mio Dio, la Verità persona; e non ho dimenticato la Verità dal giorno in cui la conobbi. Perciò dal giorno in cui ti conobbi, dimori nella mia memoria, e là ti trovo ogni volta che ti ricordo e mi delizio di te. È questa la mia santa delizia, dono della tua misericordia, che ebbe riguardo per la mia povertà.

Sede di Dio nella memoria

25. 36. Ma dove dimori nella mia memoria, Signore, dove vi dimori? Quale stanza ti sei fabbricato, quale santuario ti sei edificato? Hai concesso alla mia memoria l’onore di dimorarvi, ma in quale parte vi dimori? A ciò sto pensando. Cercandoti col ricordo, ho superato le zone della mia memoria che possiedono anche le bestie, poiché non ti trovavo là, fra immagini di cose corporee. Passai alle zone ove ho depositato i sentimenti del mio spirito, ma neppure lì ti trovai. Entrai nella sede che il mio spirito stesso possiede nella mia memoria, perché lo spirito ricorda anche se medesimo, ma neppure là tu non eri, poiché, come non sei immagine corporea né sentimento di spirito vivo, quale gioia, tristezza, desiderio, timore, ricordo, oblio e ogni altro, così non sei neppure lo spirito stesso, essendo il Signore e Dio dello spirito, e mutandosi tutte queste cose, mentre tu rimani immutabile al di sopra di tutte le cose. E ti sei degnato di abitare nella mia memoria dal giorno in cui ti conobbi! Perché cercare in quale luogo vi abiti? come se colà vi fossero luoghi. Vi abiti certamente, poiché io ti ricordo dal giorno in cui ti conobbi, e ti trovo nella memoria ogni volta che mi ricordo di te.

Relazione La sessualità femminile fra sapere e potere

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Convegno Diventare Donne
18 Marzo 2023, Castelferretti Ancona

La conoscenza di Dio

26. 37. Dove dunque ti trovai, per conoscerti? Certo non eri già nella mia memoria prima che ti conoscessi. Dove dunque ti trovai, per conoscerti, se non in te, sopra di me? Lì non v’è spazio dovunque: ci allontaniamo, ci avviciniamo, e non v’è spazio dovunque. Tu, la Verità, siedi alto sopra tutti coloro che ti consultano e rispondi contemporaneamente a tutti coloro che ti consultano anche su cose diverse. Le tue risposte sono chiare, ma non tutti le odono chiaramente. Ognuno ti consulta su ciò che vuole, ma non sempre ode la risposta che vuole. Servo tuo più fedele è quello che non mira a udire da te ciò che vuole, ma a volere piuttosto ciò che da te ode.

L’incontro con Dio

27. 38. Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai. Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace.

Redazione Psicolinea

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