Psicoterapie e traumi

 

La presenza massiccia di traumi nella psicopatologia diventa oltremodo importante nel momento in cui si prende atto che di fronte ad una parte di essi le psicoterapie essenzialmente verbali, basate sull’analisi, la comprensione, e la modificazione superficiale dei processi di pensiero, producono risultati deludenti o discutibili (Levin, Lazrove, van der Kolk, 1999).

Ciò si spiega con la natura specifica dei traumi, specialmente di quelli che si pongono sul più elevato livello di gravità, caratterizzati da importanti meccanismi di dissociazione e talora da dimostrabili alterazioni neurologiche e biochimiche (vedi oltre), dalla presenza di memorie procedurali – somatiche, viscerali, emotive, interpersonali – intraducibili per definizione in termini verbali, specialmente se si riferiscono ad esperienze vissute nella prima infanzia, quando – neurologicamente – la memorizzazione verbale non è adeguatamente funzionante (Banyard, Williams, 1999; Reviere, 1996).
Ne deriva che si può avere a che fare con persone condizionate da ricordi la cui componente procedurale è enormemente predominante, e la cui componente episodica è alterata, dissociata, repressa o rimossa, in alcuni casi forse neurologicamente perduta (vedi oltre).

Di fronte a questi pattern sintomatologici abbiamo allora bisogno di strumenti che non siano essenzialmente verbali, ma che incidano direttamente nel corpo del paziente, nel suo livello di coscienza, seguendo nella carne l’assoluta autorevolezza, nella vita del paziente, del suo ricordare procedurale e sovente muto. La psicoterapia verbale, infatti, non può non incappare in ostacoli enormi, e segnatamente

1) la fenomenologia specifica delle memorie traumatiche e

2) perlomeno in alcuni casi, una specifica neurologia e biochimica delle alterazioni mnesiche.

Fenomenologia. La fenomenologia dei ricordi traumatici è la più varia. Prenderò in considerazione solo alcune delle sue modalità espressive più caratteristiche e che rendono ardua l’efficacia delle psicoterapie verbali.
1) Innanzitutto le emozioni: alcuni ricordi sono così carichi emotivamente che è impossibile parlarne anche dopo anni di psicoterapia oppure risultano essenzialmente impermeabili ad ogni tentativo di elaborazione verbale. In tali condizioni è possibile ipotizzare la presenza di meccanismi di immagazzinamento mnestico relativi a ricordi di paura codificati in strutture sottocorticali, come l’amigdala, che in certe condizioni sono ingestibili dalle aree corticali con funzione inibitoria; tali ricordi, inoltre, sembrano immagazzinati in vie neurali diverse da quelle abitualmente stimolate dalle psicoterapie verbali (LeDoux, 1996).
2) Possono esserci ricordi estremamente intrusivi, ripetitivi, sempre uguali a sé stessi da anni, che non sembrano risentire di un approccio verbale, specialmente se ciò che si ripresentifica è sovraccarico di emozioni e non è esprimibile in parole, come sensazioni viscerali o frammenti sensoriali dei ricordi, la materia prima di cui paiono essere costituiti i ricordi altamente traumatici (Levin, Lazrove, van der Kolk, 1999);
3) Meccanismi dissociativi e di esclusione delle informazioni possono condurre alle seguenti situazioni:

a) rendere vuoti emotivamente i ricordi, come tali esprimibili verbalmente, ma difficilmente modificabili attraverso le parole in quanto le emozioni ed il corpo non partecipano alla psicoterapia; se si riesce a mobilitarle, le parole non sembrano essere il miglior strumento per la loro gestione e rielaborazione;

b) creare veri e propri stati dell’Io in vari gradi dissociati dall’ordinario flusso di consapevolezza e dalla personalità dominante (Phillips, Frederick, 1995);

c) produrre amnesie più o meno ampie, fino alla completa dimenticanza della memoria episodica relativa ad un evento; la memoria procedurale, invece, fatta di schemi comportamentali e sensomotori, emozioni, sensazioni, tende a persistere e a condizionare la persona, e si presenta come intrinsecamente incommensurabile con la parola.

d) La presenza di codifiche mnestiche stato-dipendenti, che necessitano una manipolazione diretta o indiretta dello stato di coscienza per il recupero e la rielaborazione dei ricordi.

4) La presenza di ricordi traumatici di origine interpersonale si può anche manifestare attraverso particolari dinamiche interattive all’interno del setting terapeutico.
Le esperienze di incuria e di abuso nelle loro molteplici sfaccettature posso produrre patterns di attaccamento altamente disfunzionali che, in modo procedurale, possono, ad esempio, portare il paziente alla manipolazione del rapporto terapeutico così da riprodurre rivittimizzazione, abbandono, rifiuto, eccessiva intimità o fusione, violenza psicologica, abuso sessuale e, in generale, ad effettuare test di traslazione particolarmente impegnativi per il terapeuta (Briere, 1997).
La gestione di queste dinamiche attraverso dispositivi interpersonali si impone (Safran, Segal, 1990 ), ma ciò sortirà effetti terapeutici limitati se non verrà integrata attraverso il lavoro diretto sulle memorie strutturanti i patterns di attaccamento (Giannantonio, 2000).

Neurologia e biochimica. Esiste ormai una vasta e sufficientemente consolidata letteratura che conferma che in presenza di alcune situazioni traumatiche, specie se estreme e ripetute nel tempo (come lo stato di guerra e l’abuso sessuale intrafamiliare), si possano rilevare alterazioni neurologiche e biochimiche, la cui reale implicazione non è ancora pienamente compresa. Molte ricerche testimoniano alterazioni nel volume dell’ippocampo destro in reduci di guerre, in donne soggette ad abusi sessuali prolungati nel tempo, in persone sottoposte ad abuso fisico e psicologico protratto (van der Kolk, et al., 1997; Bremner, 1998; Krystal, et al., 1998; Bremner et al., 1998).

Queste modificazioni neurologiche sono state anche confermate in animali sottoposti a prolungato stress sociale, lesioni a loro volta correlate con il livello di cortisolo. La ricerca, inoltre, indica chiaramente come in condizioni di stress eccessivo e/o prolungato (quindi in presenza di livelli abnormi di adrenalina o cortisolo) l’amigdala, importante nella memorizzazione della paura, non incomba in deficit di memorizzazione, al contrario dell’ipotalamo, implicato nell’integrazione delle memorie e nella collocazione spazio-temporale delle memorie medesime (LeDoux, 1996). In alcuni casi è stato possibile riscontrare una correlazione fra queste alterazioni e le performance di recupero verbale alla WAIS, in presenza di QI normali (Bremner, et al., 1995; Yehuda et al., 1995). Allo stesso modo, alcuni dati indicano che la corteccia prefrontale, con funzione di supervisione nell’integrazione delle esperienze, controllo e di estinzione nei confronti dei ricordi di paura memorizzati dall’amigdala, possa andare incontro ad alterazioni in condizioni particolarmente stressanti (LeDoux, 1996; Levin, Lazrove, van der Kolk, 1999).

Il corpo calloso è risultato di volume ridotto in alcuni reduci del Vietnam, in vittime di abuso sessuale protratto e in vittime di incuria (Teicher et al., 1997). Da un punto di vista biochimico è stato osservato che, mentre un trauma singolo può produrre un incremento della memorizzazione correlato con l’incremento noradrenergico, un trauma protratto può produrre un depotenziamento mnestico a causa dell’aumento abnorme di cortisolo e noradrenalina, congiuntamente all’incremento di oppioidi (Schacter, 1999). Nonostante ci sia molto ancora da comprendere, un messaggio sta diventando molto chiaro: alcune esperienze traumatiche, in particolari condizioni pre e post-traumatiche, possono esitare in processi di memorizzazione anomali che tendono a non risolversi spontaneamente. Tali ricordi possono essere frammentati, non accessibili o parzialmente accessibili, connotati da emozioni magmatiche e da memorie procedurali invalidanti, dolorose e difficilmente gestibili, intrinsecamente non verbali, probabilmente anche a causa di un relativo decremento funzionale dell’emisfero cerebrale sinistro durante il ricordo di gravi traumi (Levin, Lazrove, van der Kolk, 1999; van der Kolk et al., 1997).

A questo assetto mnestico e psicopatologico bisogna rispondere con dispositivi terapeutici adeguati, il cui scopo deve essere intrinsecamente integrazionale (Pennati, 1995 a,b; Phillips, Frederick, 1995), sovraordinato a qualunque tradizione di ricerca psicologica, ed orientato all’implementazione ecologica di ogni risorsa presente nel paziente, interpersonale ed intrapersonale. Di conseguenza, la validità di un tale modello d’intervento clinico non potrà essere misurata dal suo adeguamento a paradigmi teoretici – spesso autoreferenziali – quanto, piuttosto, dalla capacità di produrre risultati validi, adattando le procedure e la filosofia di intervento alle caratteristiche del paziente, utilizzando qualunque strumento possa rivelarsi adeguato.

Nella terapia dei traumi l’integrazione diventa quindi qualcosa di molto diverso dalla interpretazione, dalla intellettualizzazione, dalla ricostruzione storico-narrativa di una esistenza, dalla correzione di convinzioni disfunzionali. Tutto ciò può essere presente, ma come mezzo e non come fine. In quest’ottica Phillips e Frederick (1995) propongono una metodologia di intervento nei confronti dei disturbi post-traumatici e dissociativi che io credo possa essere considerato valida indipendentemente dall’approccio terapeutico prediletto da un clinico.

Tale modello ha il dono della semplicità e della chiarezza, ma in ogni caso non dell’originalità in quanto, sotto altre forme, è già stato proposto, quantomeno parzialmente e con terminologie differenti, da diversi autori (i.e. Marmar, Weiss, Melzer, 1998; van der Hart, van der kolk, Boon, 1998).

Il “SARI model” di questi autori si compone di quattro stadi: 1) S: sicurezza ed stabilizzazione; 2) A: accesso al trauma; 3) R: rielaborazione dell’esperienza traumatica; 4) I: integrazione e formazione di una nuova identità. Il modello SARI non deve essere considerato come una rigida sequenza logica di progresso clinico, quanto piuttosto come una spirale, dove i diversi problemi vengono riaffrontati a progressivi livelli di integrazione, dovendo ogni volta ritornare alla stabilizzazione quando il processo diventa eccessivamente destabilizzante.

Michele Giannantonio

Il pezzo presentato è tratto dall’articolo pubblicato sulla rivista “Attualita in Psicologia”, Volume 15, n. 3, Luglio-Settembre 2000: 336-345 denominato: Trauma, psicopatologia e psicoterapia L’efficacia della psicoterapia ipnotica e dell’Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR).

Dr. Michele Giannantonio

Leggi anche EMDR, del Dr. Giannantonio

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