Adolescenti e autolesionismo
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Cosa è l’autolesionismo?
L’autolesionismo è un danno inflitto a se stessi in maniera intenzionale.
In cosa consiste l’autolesionismo?
L’atto più comune con cui si presenta l’autolesionismo è il taglio superficiale alla pelle, ma esso comprende anche il bruciarsi, infliggersi graffi, colpire una o più parti del corpo (es. sbattere la testa contro il muro), mordersi, tirarsi i capelli, oppure ingerire sostanze tossiche o oggetti.
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Cosa porta a tutto questo?
Si ritiene che questi atti siano un tentativo di regolare le emozioni negative. Quando una persona si sente travolta da ansia, stati depressivi, rabbia, trova il modo di placare queste emozioni attraverso questi atti, che hanno l’effetto di riportare un po’ di serenità. A volte l’intenzione può essere quella di riportare l’attenzione al momento presente o punirsi a causa del disprezzo e l’odio che si provano verso se stessi. Paradossalmente, il dolore fisico provato è un sollievo rispetto al dolore emotivo.
Come è classificata questa patologia nel DSM-5?
E’ classificata sotto la voce “autolesionismo non suicidario” o NSSI. Nel DSM viene chiarito che si tratta di un “nuovo” disturbo, che necessita ulteriori studi. E’ considerato un sintomo del disturbo borderline di personalità, caratterizzato da instabilità emotiva, relazioni instabili e sentimenti cronici di vuoto.
Sono state condotte ricerche per spiegare le motivazioni che portano all’autolesionismo?
Si. In uno studio del 2010 pubblicato sul Journal of Abnormal Psychology, Franklin e colleghi hanno usato un compito che misurava le risposte difensive prima e dopo aver immerso le proprie mani in acqua ghiacciata. I risultati hanno indicato che in effetti le persone con tendenze autolesionistiche si sentivano meglio dopo questa apparentemente spiacevole sensazione. In realtà vi furono molte risposte affermative anche da parte di persone che non avevano tendenze autolesionistiche, il che non chiariva le cose.
In un nuovo esperimento del 2013 pubblicato su Clinical Psychological Science, il team di Franklin ha replicato il risultato e ha dimostrato nuovamente che la maggior parte delle persone mostra cambiamenti in positivo dopo aver subito uno stimolo scioccante.
Franklin è dunque ricorso alla letteratura sul dolore, per vedere se poteva ottenere una maggiore comprensione del fenomeno. Ha così rispolverato un concetto elaborato nella metà del novecento, chiamato “sollievo dal dolore”. Secondo questo concetto, praticamente tutti sperimentano una spiacevole reazione fisica a uno stimolo doloroso: la rimozione dello stimolo non restituisce tuttavia l’individuo allo stato di pre-stimolo, ma lo conduce verso uno stato di euforia breve, ma intenso.
Si è dunque ipotizzato che le persone che si feriscono volontariamente. la prima volta che lo fanno provano dolore, ma continuando a farlo, iniziano ad associare i tagli o le altre forme di autolesionismo con il sollievo che provano in seguito, quando il dolore cessa.
Un altro ricercatore, Hooley e il suo team, si sono invece chiesti se le persone dedite all’autolesionismo si sentivano più “cattive”, “difettose” o “meritevoli di essere punite”. L’ipotesi era quella che farsi del male, o provare dolore, fosse una esperienza congruente con la propria immagine di sé, altamente negativa.
Per testare questa possibilità, il suo team ha sviluppato un test che valutava in modo specifico le proprie convinzioni sull’essere “cattivi” soggetti, meritevoli di critica. Risultato: maggiore era il punteggio di una persona su queste autodefinizioni negative, più a lungo questa persona era disposta, o era effettivamente in grado, di sopportare il dolore.
Uno studio del 2014 pubblicato su Clinical Psychological Sciences mostra che le persone che avevano praticato autolesionismo nell’ultimo anno erano molto meno propense a provare una naturale avversione verso lame, coltelli, sangue ecc., rispetto ad altri soggetti. In altre parole, le persone che praticavano autolesionismo non vedevano questi stimoli come qualcosa da cui fuggire, dal momento che erano loro in primis a sentirsi sbagliate.
Quanti adolescenti sono dediti a questa pratica?
Secondo una meta-analisi internazionale, circa il 17% dei ragazzi ha provato questa esperienza almeno una volta (Child and Adolescent Psychiatry and Mental Health). Queste pratiche sono assai meno frequenti fra gli adulti (si stima il 5%). Per quanto riguarda i bambini si stima una percentuale di 1,3% nella fascia di età che va da 5 a 10 anni.
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Sono più maschi o femmine coloro che si impegnano in questi comportamenti?
In genere si pensa che siano soprattutto le ragazze ad essere autolesioniste ed in effetti sono loro che si producono più facilmente dei tagli, ma vi sono anche molti soggetti di sesso maschile che possono farsi del male in altri modi, ad esempio impegnandosi in comportamenti violenti (o assunzione di sostanze), come forme di autolesionismo. Non vi sono differenze nello stato socio-economico delle persone autolesioniste, ma vi sono differenze nell’orientamento sessuale: gay e bisessuali, sia maschi che femmine, hanno un’alta probabilità di essere autolesionisti, così come i ragazzi che subiscono bullismo (Journal of Child and Family Studies Laurence Claes o Journal of Consulting and Clinical Psychology Matteo Giletta). A questi vanno aggiunti i depressi e i pessimisti cronici.
L’autolesionismo può portare al suicidio?
Si, questo comportamento ne è un forte predittore. Nel 2013 sul Journal of Adolescent Health, Whitlock, Muehlenkamp e colleghi seguirono 1.466 studenti di 5 college americani per 3 anni. Studenti autolesionisti che all’inizio non mostravano desiderio di morte avevano maggiori probabilità di tentare il suicidio negli anni successivi.
E’ più facile ricorrere all’autolesionismo quando non si ama la propria immagine?
Si. Uno studio del 2013 di Muehlenkamp e colleghi (Suicide and Life-Threatening Behavior) supporta esattamente questa ipotesi.
Può esserci contagio, fra adolescenti, per i comportamenti autolesionistici?
Si. Varie ricerche hanno messo in luce che Internet è un mezzo attraverso il quale i ragazzi possono scambiarsi informazioni e confessioni, con discrezione. Entrare in contatto con questa sub-cultura che incoraggia a farsi del male può essere pericoloso soprattutto per le personalità più fragili.
Quale è il trattamento migliore per l’autolesionismo?
Il trattamento migliore è senz’altro la psicoterapia, che si è mostrata capace di ridurre o eliminare del tutto gli atti di autolesionismo. La terapia cognitivo-comportamentale o la terapia familiare sono sembrate le più indicate per la cura degli adolescenti.
Cosa possono fare gli adulti che si rendono conto di comportamenti autolesionistici da parte dei ragazzi?
In primo luogo, è essenziale che genitori e insegnanti non rispondano con shock, orrore, rabbia o giudizi negativi quando si accorgono di questi comportamenti. I ragazzi spesso riferiscono di provare vergogna dopo essersi fatti del male intenzionalmente, il che li porta a nascondere le ferite sotto vestiti e gioielli. Molti potrebbero non partecipare ad attività che potrebbero rivelare le loro ferite, come il nuoto o altri sport.
Che consigli si possono dare?
Una tecnica efficace è quella di creare un ritardo tra l’impulso all’autolesionismo e l’atto di autolesionismo. Anche rimuovere gli oggetti usati per l’autolesionismo può aiutare in questa direzione.
Le attività per distrarre i giovani dall’autolesionismo, come cucinare e fare esercizio fisico, sono un’altra strategia altamente raccomandata per prevenire ulteriori lesioni.
Alcuni raccomandano le cosiddette ” attività sostitutive ” per l’autolesionismo, come tenere in mano del ghiaccio o tirare un elastico stretto al polso. Si è però osservato che questi rimedi provengono in fondo dalla stessa mentalità autodistruttiva e dunque non rappresentano un passo in avanti.
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