Perché il potere corrompe?

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Nella storia dell’essere umano la scelta di vivere in gruppo è stata molto importante, in quanto ha permesso ai nostri progenitori di difendersi meglio dai predatori, di unire le forze per catturare grosse prede (e così sfamare anche i membri del gruppo meno abili alla caccia), di differenziare i ruoli a seconda delle capacità e delle abilità personali. Una scelta vincente insomma, che ancora oggi utilizziamo e che peraltro condividiamo con altre specie animali, come ad esempio i lupi o gli scimpanzé.

Un’altra caratteristica del gruppo è che esso crea al suo interno delle gerarchie, per cui vi sono membri che vengono considerati più affidabili e credibili di altri e per questo motivo godono di maggiore consenso e considerazione, oltre che di maggiore potere. In cima a questa gerarchia si trova il leader, cioè il personaggio più carismatico ed influente fra i membri del gruppo: è a lui/lei che vengono delegate le decisioni più importanti che riguardano la vita ed il benessere di tutto il gruppo.

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Se un gruppo è senza leader non è destinato a lunga vita: prima o poi in esso scoppieranno conflitti interni che porteranno a frammentazioni, fino a che il gruppo perderà la sua identità. Un altro elemento di instabilità è dovuto ad una cattiva leadership: un leader potrebbe essere amato e rispettato, ma comunque dimostrarsi un cattivo leader in quanto incapace di prendere decisioni, di assumersi delle responsabilità, di mediare nei conflitti, di comunicare assertivamente con gli altri membri.

La psicologia ha molto studiato la figura del leader, in particolare quella del leader “autoritario” contrapposto al leader “democratico”, così come il leader “introverso” rispetto al leader “estroverso”, il leader uomo piuttosto del leader donna. Non poteva mancare, in questa carrellata, il leader “onesto” contrapposto al leader “disonesto” o, più precisamente, “corrotto”.

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Un leader corrotto è un individuo che mostra di aver superato anzitutto una dissonanza cognitiva: è meglio fare ciò che è giusto per il gruppo, magari sacrificando il proprio ruolo di potere, oppure è meglio cercare di tutelare anzitutto la propria posizione, magari a scapito del benessere del gruppo che si rappresenta? E la seconda risposta deve aver evidentemente avuto la meglio sulla prima.

Sul sito dell’APA è stata pubblicata da poco una rassegna di ricerche psicologiche sul leader che si lascia corrompere dal potere: i ricercatori si propongono di capire le motivazioni che portano il leader a fare delle scelte sbagliate, almeno dal punto di vista etico, in quanto volte a soddisfare i propri bisogni e non quelli del gruppo. Un’altra domanda a cui i ricercatori cercano di dare una risposta è la seguente: c’è un modo per prevenire che il leader si lasci corrompere dall’esercizio del potere?

Le ricerche scientifiche condotte sull’argomento hanno intanto dimostrato che il potere induce a diventare più disinibiti ed aumenta la probabilità di comportarsi in modo da soddisfare i propri impulsi egoistici, anziché pensare a ciò che sarebbe meglio per il gruppo ( Galinsky, Gruenfeld, & Magee, 2003; Keltner, Gruenfeld, & Anderson, 2003) .


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La ricerca ci dice inoltre che il potere può indurre i leaders ad approfittarsi degli altri, oggettivando le persone allo scopo di raggiungere i propri fini ( Gruenfeld et al., 2008), che i potenti non si curano di assumere la prospettiva degli altri ( Galinsky et al., 2006) e che sono in genere persone particolarmente abili nel soddisfare i propri impulsi ( Slabu & Guinote, 2010), tra cui figurano anche quelli sessuali, che si esprimono attraverso comportamenti inappropriati, in particolare verso i propri subordinati ( Kunstman & Maner, 2011).

Parlando del potere, la prima domanda che ci si potrebbe porre è perché la maggior parte delle persone lo desidera. Secondo alcuni ricercatori la risposta è semplice: si tratta di una motivazione umana “fondamentale”, alla quale è difficile resistere e che peraltro condividiamo con molte altre specie di primati (Boehm, 1999; de Waal, 1982; Sapolsky, 2005).

Malgrado questa urgenza quasi biologica di raggiungere il potere, non c’è equazione fra potere e felicità: i potenti sono invero persone molto infelici e questo perché, nonostante le facilitazioni e gli agi di cui possono godere, essi vivono costantemente sotto minaccia. Il potente teme infatti che una persona di maggiore talento e capacità sociali possa sottrargli il ruolo, coagulando intorno a sé il rispetto e il sostegno degli altri membri del gruppo.

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E’ questo disagio profondo, questa inconfessabile paura, che porta alla trasformazione del leader: i comportamenti scorretti verso il gruppo infatti servono inizialmente per neutralizzare la “minaccia” di perdere il ruolo.

In una ricerca in laboratorio condotta nel 2010 da Maner & Mead, alcuni partecipanti sono stati invitati ad assumere un ruolo di leadership nei confronti degli altri partecipanti alla ricerca. Per permettere a queste persone di sentirsi dei veri leader sono state assegnate loro tutte le prerogative del potere: i “leader” potevano infatti dirigere il lavoro degli altri membri del gruppo, valutare le loro prestazioni, dare o negare ricompense economiche.

Questi leader, costruiti a tavolino dai ricercatori per condurre gli esperimenti, erano di tre tipi: alcuni leader sapevano che il proprio potere, durante tutto l’esperimento, sarebbe stato irrevocabile e mai avrebbero perso il loro ruolo nel gruppo; altri sapevano che i ruoli all’interno del gruppo avrebbero potuto modificarsi in base ai risultati delle proprie prestazioni, mentre altri ancora erano stati portati a pensare che tutti i membri del gruppo avessero uguale potere e percepissero una identica ricompensa.

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Questi tre tipi di leader, durante l’esperimento, sono stati avvicinati privatamente ed è stato confidato loro un segreto che avrebbe potuto garantire il successo del proprio gruppo. Si voleva in effetti vedere quale dei tre tipi di leader avrebbe condiviso i suggerimenti ricevuti per favorire il gruppo (rischiando tuttavia di perdere le proprie prerogative, a causa della condivisione delle informazioni). Questa ricerca ha dimostrato che chi aveva la sicurezza di mantenere il proprio potere non si curava di proteggere le informazioni ricevute e le metteva a disposizione del gruppo, mentre chi non aveva questa sicurezza tendeva a trattenere le informazioni, anche a costo di non permettere il successo del gruppo, mantenendo però la propria posizione di potere.

In particolare si è osservato che questo comportamento egoistico era maggiormente presente tra i leader con un forte desiderio di dominanza sociale, mentre chi non aveva tale aspirazione faceva il bene del gruppo, anche rischiando di perdere i propri privilegi personali. Sempre Maner & Mead nel 2010 hanno svolto l’esperimento con un’altra variante: dire al leader che una persona all’interno del gruppo era considerata di particolare valore e per questo doveva essere sempre tenuta al corrente di tutto e incoraggiata ad operare liberamente in favore del gruppo. Come risultato di questa variante dell’esperimento si è visto che i “leader”, specialmente quelli più interessati a mantenere il ruolo di potere all’interno del gruppo, hanno fatto in verità di tutto per isolare la persona di talento, dandole compiti poco importanti e facendo si che ad avere i ruoli più consistenti fossero le persone meno capaci (in questo modo il leader poteva mantenere la sua posizione di potere grazie ad un confronto al ribasso con gli altri membri).

In un’altra variante, Maner & Mead (2012) hanno chiesto ai leader di lavorare in stanze separate, cosicché il soggetto di talento avrebbe potuto esprimersi al meglio. Risultato: i soggetti dominanti che erano preoccupati di perdere il proprio potere hanno scelto di lavorare nella stessa stanza con il subordinato di talento, in modo da poterlo tenere d’occhio: un po’ per guardare, ma soprattutto per imparare…

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L’unico modo per far rinsavire il leader ossessionato dalla paura di perdere il potere è quello di metterlo in competizione contro un altro gruppo ( Maner & Mead , 2010; Maner & Mead, 2012): in questo caso i subalterni di talento non vengono più sentiti come delle minacce, ma come dei preziosi alleati con cui fare fronte comune contro i nemici.

Le conclusioni di questi studi porterebbero dunque a pensare che se il potente si sente sicuro, perché inserito in un sistema stabile, dove il suo potere non viene messo in discussione, il suo comportamento diventa più favorevole nei confronti del benessere del gruppo. La tesi potrebbe avere una sua validità, se guardata in questa prospettiva, ma essa contiene in sé una minaccia ben più grande per il gruppo, cioè quella dell’abuso di potere, dal momento che il leader potrebbe giungere ad attribuire, anche inconsapevolmente, al gruppo i propri stessi bisogni, illudendosi di fare il bene comune nel soddisfare ogni suo desiderio.

La storia ci dimostra inoltre che i dittatori ed i monarchi assoluti, che certo non temono di perdere il potere, non si preoccupano più degli altri dei bisogni della popolazione che rappresentano, anzi semmai è vero il contrario… Come disse Lord Acton in un famoso discorso del 1887: “Il potere tende a corrompere e il potere assoluto corrompe in modo assoluto”.

Secondo i ricercatori Jon K. Maner and Charleen R. Case c’è in realtà un modo per evitare che il leader si lasci corrompere dal potere e dalla gloria: selezionare la persona giusta per fare il leader, cioè quella più interessata al prestigio (desiderio di essere rispettati e ben voluti) che al potere.

A pensarci bene ci potrebbe essere anche un’altra via: garantire al leader il suo potere, una volta che se l’è conquistato, evitando però che questo potere duri troppo a lungo. Infatti, l’esperienza insegna che con il tempo anche la persona che inizialmente sognava unicamente il prestigio, in poco tempo si trasforma inesorabilmente in una persona affamata di potere, disposta a tutto pur di poterlo mantenere.

Dr. Giuliana Proietti

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Pubblicato anche su Huffington Post

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