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Author: Dr. Lanfranco Bruzzesi

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Janis Joplin una star creata dal pubblico

Janis Joplin, una star creata dal pubblico

Janis Joplin, una star creata dal pubblico


Janis Joplin è morta di droga pochi mesi prima di Jim Morrison e pochi mesi dopo Jim Hendrix: come loro ha cantato l’alcool, il sesso, la solitudine; come loro è stata una star creata dal pubblico a dispetto del sistema e non viceversa.

C’è sicuramente da dire molto sulla breve vita torturata che appartenne a questa ragazza che credeva forse di non aver ricevuto nulla dalla vita, mentre invece possedeva la forza e la grandezza del mito: un mito autentico, vero, forse troppo umano ma che proprio dalle sue debolezze ha tratto il suo indiscusso fascino. Sono bastati quattro anni per farla entrare nella storia della musica rock-blues.

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Janis Lyin Joplin nacque il 19 gennaio 1943 al St. Mary’s Hospital di Port Arthur, bigotta ma importante cittadina petrolifera nel Texas. Suo padre Seth, originario di Amarillo, lavorava presso la locale “Texano Canning company”, mentre sua madre Dorothy proveniva dal Nebraska.

La giovane passò un’infanzia normale, poi, sebbene la famiglia appartenesse alla borghesia, da adolescente mostrò subito i segni di un anticonformismo che l’avrebbe poi contraddistinta da grande. Sovrappeso e con il viso rovinato dall’acne, cominciò a distaccarsi da tutto e da tutti.

Rifiutata e presa in giro dagli altri, Janis cercava e trovava conforto nei lavori degli emarginati come scrittori, musicisti e artisti in genere; del resto quando la società respinge una persona ci si comporta di conseguenza, rifiutandola.

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Lei si sentiva un brutto anatroccolo e si rifugiò nella musica country e soprattutto nel blues, l’unica musica che, nella sua viscerale e universale tristezza, potesse esprimere il suo drammatico bisogno di aiuto non corrisposto.

Paradossalmente Port Arthur rese Janis Joplin ciò che era: un’atmosfera più tollerante avrebbe potuto diluire il fuoco che le bruciava dentro, e il fuoco è ciò che ognuno ha riconosciuto in lei.

Dopo essersi diplomata nel maggio del 1960 al “Thomas Jefferson High”, fuggì di casa e si iscrisse all’università delle belle arti a Austin sempre nel Texas. Per mantenersi negli studi ed avere di che vivere, alternava il lavoro di cameriera a quello di cantante in qualche club. Si faceva accompagnare da un gruppo di bluegrass, i “Waller Creek Boys”; il suo repertorio era Leadbelly, Bessie Smith.

Ma intanto cominciò a fare uso di amfetamine e per curarsi da una intossicazione di metredina dovette tornarsene a casa. Poi nel 1963 se ne andò a San Francisco in autostop con un suo amico, Chet Helmes, che aveva conosciuto a Austin. In California conobbe qualche personaggio che di lì a poco sarebbe divenuto famoso, come David Crosby e Jorma Kaukonem (futuro chitarrista del gruppo dei Jefferson Airplane) dal quale si fece accompagnare per qualche esibizione.

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Nel Texas ci ritornò nell’estate del 1965 dopo essere stata a New York; aveva cominciato a bere pesantemente e fu una vera fortuna l’ingaggio al “The Eleventh Door” di Austin che le permise di rimanersene tranquilla fino al maggio del 1966.

Nel frattempo il suo amico Chet Helms, rimasto in California, era diventato il manager di una nuova band formatasi nel 1965, “The Big Brother & the Holding company”, e vedendo il successo ottenuto da altri gruppi con cantanti donne, come i Jefferson Airplane con Grace Slick, convinse la nostra texana a tornare a San Francisco per unirsi al gruppo.

Iniziò così nel giugno del 1966 l’avventura di Janis Joplin con i Big Brother. Fu subito chiaro che la scelta si rivelò esatta perché l’abilità che lei aveva nel trasmettere la sua energia al pubblico divenne chiara e determinante per il successo. Janis non solo cantava ma dava delle sofferte interpretazioni alle canzoni con la sua voce roca e abrasiva.

Nel 1967 uscì il primo album, a dire la verità mediocre, ma fu il famoso Festival di Montery tenutosi in giugno che imposero all’America e al mondo intero la sua personalità; la sua esibizione fu incredibile, sicuramente la più gradita dal pubblico insieme a quella di Jimi Hendrix.

Dopo Monterey per Janis il successo divenne più facile ma insieme alla celebrità aumentò l’insicurezza e il senso di solitudine che non l’aveva mai abbandonata. “Sul palco faccio l’amore con 25.000 persone ma poi torno a casa da sola”.

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Così si abbandonò completamente all’alcool, alla droga e ad una vita sessuale disordinata. Uscì un secondo album “Cheap thrills” che ebbe un immediato successo e questa volta i critici le tributarono i giusti meriti; ma lei fuggì ancora una volta abbandonando i Big Brothers, dai quali pretendeva forse una maggiore versatilità per l’improvvisazione e la sperimentazione.

Erano le sue esibizioni live a far discutere con la loro carica emozionale enorme e struggente. La Joplin era diventata una superstar e più la gente la cercava, più lei si ritirava in se stessa. Nel 1969 si ripresentò con un nuovo gruppo, la “Kozmic Blues band” e durante un concerto tenutosi a Tampa in Florida, la nostra protagonista venne multata per aver usato un linguaggio blasfemo e il fatto ebbe una risonanza indubbiamente negativa soprattutto per ciò che poteva riguardare gli ingaggi. Ma lei aveva bisogno in ogni caso di riposo e fu convinta a interrompere i concerti per un po’.

Nel febbraio 1970 se ne andò in vacanza in Brasile e a Rio incontrò certo David Niehaus di cui si innamorò e con il quale trascorse momenti di grande felicità. Riprese i concerti a luglio aggregandosi ad una carovana di musicisti illustri che con il nome di “Festival Express” si muoveva con il treno. A settembre cominciarono le registrazioni dell’album “Pearl” (simpatico nomignolo con il quale veniva chiamata Janis).

Destò sorpresa l’annuncio che fu dato il 4 ottobre 1970 del rinvenimento del suo cadavere nella stanza di un albergo. A causare la morte fu un’overdose di eroina ma l’ipotesi del suicidio forse è da escludere proprio perché era quello uno dei momenti più felici e sereni dell’artista. L’album “Pearl”, uscito postumo un anno dopo raggiunse in pochi giorni il primo posto delle classifiche e vi rimase per qualche mese.

Di fronte alla morte, alla tragedia di una vita trascorsa in maniera per i più sbagliata ma sicuramente intensa, ciò che resta di lei sono gli albums, le canzoni, la sua voce. Quella roca, abbruttita dall’alcool, ma stupenda voce, che per lei rappresentava l’unico modo per elevarsi dalle catene di una vita crudele, per rivelare la sua anima.

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Dr. Lanfranco Bruzzesi
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Appassionato di musica, collabora con psicolinea per la stesura di biografie di personaggi famosi, in particolare nel mondo della musica. Lanfranco Bruzzesi è inoltre il principale ispiratore dell’Associazione Culturale Ankon Cultura, che ha sede ad Ancona e che organizza conferenze, viaggi ed altri eventi culturali.

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Jim Morrison, il Re Lucertola

Jim Morrison, il Re Lucertola

Jim Morrison, il Re Lucertola


IL RE LUCERTOLA CHE VOLLE CAVALCARE LA TEMPESTA
(1943-1971?)

Jim Morrison, icona del rock degli anni ’60 come frontman dei The Doors, è stato un visionario musicale e un poeta ribelle. La sua voce carismatica e le liriche suggestive hanno ispirato generazioni di appassionati di musica, mentre la sua personalità enigmatica e tormentata lo ha reso una figura leggendaria nella cultura popolare. Ecco una sua biografia.

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James Douglas “Jim” Morrison nacque da Steve e Clara Morrison a Melbourne, Florida. Suo padre era un ufficiale della Marina soggetto a numerosi spostamenti. Sin da ragazzino Jim mostrò interesse per la letteratura, eccelleva a scuola e aveva un quoziente d’intelligenza pari a 149.

Dopo il diploma, conseguito all’High School “George Washington” di Alessandria, Virginia, continuò gli studi presso altre scuole ma trovò la sua strada solo allorché arrivò in California e si iscrisse all’ U.C.L.A. cioè al corso di cinematografia, che era la sua vera passione; alla musica approdò per caso, accidentalmente, perché un suo compagno di corso, Ray Manzarek, sentendolo recitare una sua poesia, lo convinse a unirsi al suo gruppo “Rick and the Ravens”.

Con l’ingresso di Robbie Krieger, venuto a sostituire il fratello di Ray, nacque nel 1965 il gruppo “The Doors”, nome che lo stesso Morrison volle dare alla band basandosi su un libro di Aldous Huxley “The Doors of Perception”e su una citazione di William Blake: “There are things known, and there are things unknown and in between are the doors” (ci sono cose conosciute e cose non conosciute e in mezzo ci sono delle porte).

Quattro intellettuali: Ray Manzarek, Robbie Krieger, John Densmore, Jim Morrison. Un organista, un chitarrista, un batterista, un poeta. Si esibivano nei Club e Jim ben presto cominciò ad entusiasmare gli spettatori per il profondo contatto che riusciva ad instaurare e la sua indubbia comunicabilità.

Fu certo Billy James della Columbia Records che, ascoltando un demo, li mise sotto contratto per sei mesi ma non pensò di promuoverli più di tanto cosicché il gruppo tornò ad esibirsi nei piccoli locali di Los Angeles.

Suonando al “Sunset Strip Club” conosciuto meglio come “The London Fog”, Jim si fece conoscere in tutta L.A. come vero sex symbol. Verso la fine del 1966 le cose cominciarono a volgere al meglio per il gruppo; i quattro si spostarono a suonare al più famoso club “Whiskey a Go Go” e fu là che il musicista Arthur Lee convinse il manager dell’Elektra Jack Holzman a scritturare i Doors.

Nel 1967 uscì il primo album “The Doors” e pochi albums nella storia della musica rock ebbero un impatto così travolgente sui giovani.

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Nell’estate la canzone “Light my fire” raggiunse il primo posto nelle classifiche americane dei dischi più venduti: il pezzo, tutto giocato sull’organo vorticoso suonato da Ray Manzarek e sulla voce calda di Jim, affronta un tema caro a Morrison, quello sfacciatamente sessuale. “…Avanti bambina accendi il mio fuoco …provaci e dai fuoco alla notte. Il tempo per esitare è finito, non c’è tempo per rotolare nel fango. Provaci, ora noi possiamo soltanto perdere e il nostro amore può diventare una pira ardente…Avanti bambina accendi il mio fuoco, prova ad incendiare la notte.”

L’album presenta pezzi diventati ormai dei classici della musica rock. Vogliamo ricordare fra tutti “The End”, un brano di undici minuti che comincia con gli arpeggi della chitarra di sapore orientaleggiante (fu molto azzeccata la sua inclusione nella scena iniziale di “Apocalypse now”, il capolavoro di F.F.Coppola) con la voce di Morrison vera protagonista in un susseguirsi di immagini deliranti e oniriche che sfociano, culminano nelle parole che fecero un po’ scandalo “ Father…Yes, son…I want to kill you…Mother, I want to…”

Continua Morrison “Questa è la fine, piacevole amica – questa è la fine, mia unica amica, la fine dei nostri piani elaborati , la fine di tutto quello che esiste, la fine, nessuna sicurezza o sorpresa , la fine…senza limiti e libera con un bisogno disperato della mano di un estraneo in una terra disperata. – …fa male lasciarti libera ma tu non mi seguirai mai. La fine delle risate e delle dolci menzogne, – la fine di notti in cui abbiamo provato a morire. Questa è la fine.”

Morrison trovava nella musica un canale per esprimere la sua poesia aggiungendo ad essa un aspetto teatrale e scenico; quando era sul palco, disse una volta, sentiva la presenza degli spiriti degli indiani morti e ciò gli valse anche l’appellativo di sciamano elettrico ed esercitava un tale potere ipnotico sul pubblico che parte di esso giurava di vedere uno sciamano accanto a lui.

Nell’ottobre del 1967 uscì il secondo album “Strange days” che li consacrò definitivamente nel panorama musicale e non solo dell’epoca. Nel 1968 tutto il mondo assisteva all’escalation della guerra in Vietnam ed il terzo album che uscì a luglio “Waiting for the sun” rifletteva la posizione antimilitarista assunta dalla band.

L’album non è all’altezza dei due precedenti, è meno spontaneo, più commerciale pur presentando alcune perle come “Hello, I love you” e “The unknown soldier”. Se si vuole ricercare una importanza in questo album è il fatto che vi fa la sua comparsa il mitico re lucertola, l’alter ego di Morrison in un poema che incluse nella copertina interna dell’album.

Anche gli altri albums che seguirono a dire la verità non furono brillanti. Il successo e la popolarità continuavano però a crescere ma il Morrison che la gente conosceva e amava, il sex symbol con pantaloni di pelle e riccioli sexy non era il Morrison che egli voleva essere.

Fu così che nel tentativo di ricercare un senso alle sue sempre più crescenti esigenze personali l’uomo finì per perdersi. Si concentrò soprattutto sulla scrittura e cominciò ad abusare in modo significativo di alcool e droga.

“Ho sempre voluto scrivere ma ho sempre pensato che non sarebbe stata cosa buona fino a che la mia mano non avesse preso la penna e cominciato a muoversi per conto proprio, con me assolutamente non coinvolto …come la scrittura automatica.”

Decise di mettere ordine fra le sue carte facendosi aiutare dalla sua donna Pamela Courson ma temeva di essere sfruttato per la sua fama musicale, credeva che nessuno lo avrebbe letto per le sue doti poetiche e così stampò in proprio le poesie, cento copie che diede agli amici.

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Intanto nella band crescevano i contrasti legati alla figura di Morrison. Il suo atteggiamento spregiudicato causava dei seri guai a tutta la band.

In un concerto nel Connecticut le forze dell’ordine furono costrette all’uso di gas lacrimogeni prima che la situazione precipitasse a causa del comportamento lascivo di Jim con un gruppetto di ragazze.

Si arrivò all’epilogo con il concerto di Miami nel 1969 in cui successe di tutto. Il cantante non fu arrestato sul posto per timore che potesse scoppiare una rivolta ma si arrivò ad una condanna di otto mesi e ad una multa di $500 per “…oscenità, comportamento lascivo e per aver mostrato parti intime del corpo simulando altresì la masturbazione manuale e orale.”

Dopo questo incidente le date del tour cominciavano ad essere cancellate, la stampa era contro Jim Morrison, la sua reputazione di cantante ubriaco, dedito agli stupefacenti, che non riusciva più a terminare un concerto lo accompagnava dovunque.

Dopo Miami le cose cambiarono radicalmente e Morrison mise via i suoi pantaloni di pelle, si fece crescere una folta barba e cominciò a prendere le distanze dai suoi fans e dedicò più tempo ai progetti fuori della band.

Coltivava nel suo intimo il sogno di un disco di poesia-musica e l’8 dicembre 1970, giorno del suo 27° compleanno, affittò di tasca sua gli studi dell’Elektra per offrire a pochi amici una serata di letture che anni dopo avrebbe formato le basi di “An American Prayer”, l’album postumo e controverso uscito nel 1978.

I Doors suonarono per l’ultima volta a New Orleans e fu un disastro. Dopo aver concluso le sessioni per un nuovo album “L.A.Woman”, che conterrà la famosa “Riders on the storm”, Morrison scappò con la sua Pamela a Parigi dove sperava di seguire una carriera letteraria.

…Ma non ritornò più da Parigi; il 3 luglio 1971 fu trovato morto dalla sua Pam nella vasca da bagno e in fretta e furia, senza autopsia, il corpo venne sigillato nella bara e sepolto nel cimitero monumentale di Parigi di Pére Lachaise che ospita le spoglie di altri celebri artisti come Edith Piaf, Yves Montand, Oscar Wilde etc.

La sua tomba è meta ogni anno di un vero e proprio pellegrinaggio di migliaia di giovani da tutto il mondo.

Fu un destino crudele quello che accomunò grandi personaggi della musica rock-blues, tutti morti fra il 1969 e il 1971 per un abuso di alcool e droga anche se in circostanze non sempre chiare; Brian Jones dei Rolling Stones, Al Wilson dei Canned Heat, Jimi Hendrix, Janis Joplin e per ultimo il nostro Jim Morrison.

Il successo travolse questi ragazzi che si trovarono paradossalmente nella posizione di poter influenzare masse giovanili di tutto il mondo, ma si sentivano nella realtà soli con il bisogno disperato di ritrovare se stessi.

La moglie Pamela Courson morì a Hollywood per un’overdose di eroina il 25 aprile 1974.

Oliver Stone nel 1991 girò un film sulla vita di Jim Morrison “The Doors” con Val Kilmer nella parte del nostro protagonista.

Ha detto Jim:

“La felicità è fatta di un niente che al momento in cui lo viviamo ci sembra tutto”;
“La vita è come uno specchio: ti sorride se lo guardi sorridendo”;
“Il mio migliore amico è lo specchio, perché quando piango non ride mai”;
“Se dovessi scegliere tra il tuo amore e la mia vita, sceglierei il tuo amore, perché è la mia vita;
“Un giorno piangevo perché non avevo le scarpe, poi vidi un uomo senza piedi e smisi di piangere”;
“Quando morirò andrò in paradiso, perché l’inferno l’ho già vissuto quaggiù”;
“Alcuni dicono che la pioggia è brutta, ma non sanno che permette di girare a testa alta con il viso coperto dalle lacrime”.

Lanfranco Bruzzesi

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Appassionato di musica, collabora con psicolinea per la stesura di biografie di personaggi famosi, in particolare nel mondo della musica. Lanfranco Bruzzesi è inoltre il principale ispiratore dell’Associazione Culturale Ankon Cultura, che ha sede ad Ancona e che organizza conferenze, viaggi ed altri eventi culturali.

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  • 17 Lug 2018
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Van Gogh: arte e follia

Vincent Van Gogh: arte e follia

Vincent Van Gogh: arte e follia



Vincent Willem van Gogh
nacque a Zundert il 30 marzo 1853, primogenito di Theodorus, pastore protestante, e di Anna Cornelia Carbentus. Suo fratello Theo nacque quattro anni dopo. La famiglia divenne presto numerosa, cosicché Vincent, compiuti gli studi fondamentali, dovette mettersi a lavorare.

Nel 1869 fu assunto come apprendista dalla ditta Groupil, in cui era socio un suo zio che operava sul mercato artistico internazionale. I primi tre anni, fino al 1872, lavorò all’Aia, poi fu trasferito a Londra dove rimase fino al maggio 1875 per essere trasferito di nuovo, e questa volta contro la sua volontà, a Parigi.

In questi anni ebbe modo di mostrare un interesse per la pittura, non altrettanto per il suo commercio. Fu questa sua avversione per il mercato dell’arte che lo portò ad abbandonare tutto e a ritornare a casa dai genitori nel 1876.

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A 23 anni Vincent non sa ancora quello che vuole, si dedica completamente allo studio della Bibbia per cercare forse delle risposte alle sue latenti inquietudini e alla sua ansia di rendersi utile.

Lavorò dapprima a Ramsgate come insegnante in un collegio, poi si trasferì a Isleworth, nella periferia di Londra, dove gli fu permesso anche di predicare. Poi nello stesso anno, 1876, ritornò in Olanda dove trovò un breve impiego come libraio a Dordrecht, quindi si recò all’Aia per continuare gli studi teologici, che interruppe allorché venne chiamato come predicatore evangelista nella regione belga del Borinage. Qui vive gli stenti e le privazioni dei minatori, fino a dividere con loro ogni suo avere. Fu questa esperienza a segnare il destino di quello che diventerà uno dei più grandi artisti al mondo.

Infatti qui ebbe il suo primo esaurimento, che forse non lo abbandonò più, ma nel contempo gli nacque l’idea di dedicarsi all’arte del disegno e della pittura prendendo spunto proprio dai minatori e dal loro ambiente di vita, come se in qualche modo, attraverso la sua opera, potesse testimoniare una condizione di vita infame.

Cominciò la carriera artistica come disegnatore e non come pittore per una scelta precisa e voluta perché sapeva che doveva procedere per gradi esercitandosi prima con la matita, il gessetto nero, il carboncino, l’inchiostro con l’intenzione di scoprirne le segrete azioni specifiche e tutte le loro caratteristiche.

Lasciato il Borinage, dove aveva riempito i suoi taccuini di disegni, Vincent andò a Bruxelles per studiare l’anatomia e la prospettiva, poi, assillato sempre più dalle difficoltà economiche, ritornò a casa dei suoi. Dopo l’ennesima violenta lite con i genitori, nel 1881 li lasciò e se ne andò a l’Aia dal cugino Mauve che si offerse anche per delle lezioni di disegno. Qui divise la sua esistenza con la prostituta Christine, che accolse per curarla e aiutarla e che poi divenne la sua modella e compagna per un po’ di tempo.

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La mancanza di soldi costituiva un vero “tormento” per il giovane che se ne ritornò dai suoi con i quali aveva migliorato i rapporti. Nel 1885 morì improvvisamente il padre e allora Vincent se ne andò prima ad Anversa dove si dedicò all’approfondimento dell’arte giapponese e poi nel 1886 a Parigi chiamato dal fratello Theo, con il quale era rimasto sempre in contatto, che dirigeva una galleria d’arte a Montmartre e che gli parlò di nuovi artisti, gli “Impressionisti”, che lo avevano colpito favorevolmente.

Aveva nel frattempo terminato “I mangiatori di patate”, uno dei suoi capolavori in cui esprime pienamente la sua volontà di denuncia sociale e la sua visione morale dell’arte con delle pennellate aggressive e vibranti che rivelano crudelmente le mani deformate dal lavoro, i volti ossuti e rugosi della povera gente:

“lavorando ho voluto fare in modo che si capisse che quei popolani che, alla luce della lampada, mangiano le loro patate prendendole dal piatto con le mani, hanno personalmente zappato la terra in cui le patate sono cresciute…”

Nel marzo 1886 era, come abbiamo già detto, a Parigi, ospite dell’amato fratello Theo e forse passò i due anni più felici della sua vita. Poté confrontarsi con i pittori emergenti, avere scambi di idee; alcuni li conobbe personalmente nella bottega di colori di Père Tanguy come Pissarro, Monet, Renoir, Cezanne. Dedicò poi un ritratto a questo negoziante che aveva già intravisto nel pittore olandese un grande artista e che ne condivideva anche le idee utopico-socialiste.

Nel quadro dietro al soggetto lo sfondo è tutto tappezzato di stampe giapponesi oggetto degli studi da parte dell’artista ad Anversa e che lo influenzarono soprattutto per l’uso del colore. Nel 1887 passò molto tempo a dipingere in compagnia di Paul Signac; dipinse ritratti, vedute di città e paesaggi nello stile Impressionista e Neo-Impressionista. In Novembre organizzò una mostra di artisti che chiamava gli “Impressionistes du petit boulevard” e conobbe Seurat, Gauguin e Guillaumin.

Relazione La sessualità femminile fra sapere e potere

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18 Marzo 2023, Castelferretti Ancona
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La vita frenetica che aveva condotto a Parigi lo aveva indebolito sia fisicamente che mentalmente e il suo lavoro cominciò a risentirne. Nel febbraio 1888 partì per Arles nel sud, alla ricerca di pace e di un clima più caldo e si sistemò in una casa dalla facciata dipinta di giallo che decorò al suo interno con una serie di tele che rappresentano i girasoli.

È il giallo il colore fondamentale dell’opera arlesiana di Van Gogh che abbandona il tratto divisionista per esprimersi con l’uso di colori molti accesi. In Provenza non trovò, a dire la verità, il clima migliore che sperava: la temperatura era sotto zero come a Parigi e c’era la neve. In marzo ed aprile dipinse molte versioni de “il ponte di Langlois”, in cui cercò di rappresentare il paesaggio provenzale al modo delle incisioni su legno giapponesi.

“Il paese mi sembra altrettanto bello del Giappone, per la limpidezza dell’atmosfera e gli effetti di vivacità del colore”.

Su insistenza del fratello Theo si decise a mandare tre tele al Salon des Indépendants.

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Cominciò un’attività frenetica che lo portò a dipingere quadri ormai celebri oggigiorno come “Il caffè di notte-interno” e “Il caffè di notte-esterno” in cui, come disse in una lettera a suo fratello Theo, cercava di far capire che il caffè notturno non era solo il paradiso degli ubriachi e dei vagabondi ma anche un rifugio necessario, anche se pericoloso, per gli artisti di scarso successo come lui , era un posto dove ci si poteva rovinare, diventare pazzi e commettere crimini. Il compito di comunicare sensazioni ed emozioni è affidato esclusivamente al colore e più che ai contrasti di colori puri, agli accostamenti di colori complementari (rosso-verde, blu-arancio).

Ad Arles lo raggiunse nell’ottobre 1888 Paul Gauguin e per Vincent fu come rinascere, tanto era l’entusiasmo di poter dividere delle idee e delle esperienze pittoriche con un’artista che aveva sempre stimato: la sua salute migliorò subito ed in due mesi dipinse altri capolavori come “Les Alyscamps”,”Camera da letto”, “L’Arlésienne”. Poi, le incompatibilità di carattere tra van Gogh e Gauguin divennero insostenibili durante il mese di dicembre e culminarono in una violentissima lite durante la quale Vincent si tagliò un orecchio inducendo il pittore francese a tornarsene a Parigi.

Rimasto solo, il nostro decise spontaneamente di farsi ricoverare nell’ospedale psichiatrico di Saint-Rémy dove si sottomise alle cure del dott. Peyron. Gli fu permesso di lavorare all’interno dell’ospedale e Vincent trovò molti soggetti nel giardino dell’ospedale stesso e li dipinse come gli “Iris”e i “Lillà”.

A proposito della “natura morta con iris” si può dire che, mentre “i girasoli” erano stati dipinti con sfumature di colore apparentate strettamente fra loro, qui lo schema è quello dei colori complementari: il blu violaceo degli iris contrasta con l’arancio ocra del vaso e della superficie di appoggio e con il giallo dello sfondo.

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Quando gli fu permesso di lavorare fuori dell’ospedale, con un accompagnatore, si dedicò a dipingere soggetti tipici della Provenza, ulivi e soprattutto cipressi. Malgrado però l’ottimismo del dott.Peyron, le condizioni di salute di Vincent van Gogh peggiorarono a metà luglio e lo costrinsero al riposo assoluto fino a settembre.

Riprese quindi a lavorare dedicandosi a dipingere parecchie copie in grande formato da lavori di Millet e di Delacroix ma l’instabilità mentale aveva ormai il sopravvento sull’artista portandolo ad una debilitazione fisica notevole.

Nell’aprile 1890 fu preso dall’irresistibile voglia di andarsene da Saint Rémy e, dopo una breve tappa a Parigi per conoscere la donna con la quale il fratello Theo si era da poco sposato, si rifugiò ad Auvers-sur-Oise, dove il dott.Gachet aveva accettato di accoglierlo e di curarlo.

Oltre a dipingere paesaggi si dedicò con una certa regolarità ai ritratti che considerava un genere particolarmente commerciabile, che gli poteva permettere una certa indipendenza economica dal fratello che adesso aveva una famiglia. Il suo primo modello ad Auvers fu proprio il dottor Gachet, appassionato collezionista di pittura, che rimase entusiasta della tela.

Il dottore è ritratto con un berretto da marinaio bianco; era un medico omeopatico un po’ eccentrico e van Gogh alluse alla sua professione introducendo nel dipinto i fiori medicinali di digitale. In questi ritratti, che riecheggiano il sintetismo di Gauguin, l’artista olandese non voleva ottenere una somiglianza fotografica ma piuttosto trasferire un’espressione e nel ritratto di Gachet in particolare cercò di cogliere l’espressione triste della nostra epoca.

Vicino ad Auvers van Gogh scoprì le grandi distese ondulate della pianura che al tempo della mietitura attiravano grandi stormi di corvi e ne fu attirato per una loro rappresentazione. Il suo stato d’animo, che in quel momento era profondamente alterato, lo portò ad usare non il pennello ma una spatola per stendere il colore a grandi colpi, come animato da una furia distruttrice: il cielo è tempestoso, il campo di grano agitato dal vento e su tutto dominano i tratti neri e drammatici delle ali dei corvi quasi a costituire una funerea premonizione di sventura e di morte.

E per questi campi, il 27 luglio, si avvierà senza i suoi colori ed il cavalletto, per sparare ai corvi ma rivolgerà l’arma contro se stesso arrivando all’atto estremo. Il proiettile non colpì il cuore, così Van Gogh ebbe la forza di ripercorrere il tragitto fino alla sua camera. Soltanto la sera i coniugi Ravoux , insospettiti dalla sua assenza, salirono in camera e scoprirono tutto. Chiamarono il dottor Gachet il quale dopo aver ritenuto impossibile estrarre la pallottola contattò il fratello Théo.

L’indomani Théo trovò Vincent disteso sul letto, come se nulla fosse, che fumava la pipa. I due parlarono per tutto il giorno. Théo si stese sul letto accanto a Vincent, che morì alcune ore dopo.

Il pittore Emile Bernard, da lungo tempo amico di Vincent, raccontò nei dettagli il funerale a Gustave-Albert Aurier:

La bara era già chiusa.Sulle pareti della stanza dove il suo corpo giaceva, quasi a fargli da alone, erano appesi tutti i suoi dipinti, e la brillantezza del genio che si irradiava da loro rendeva la sua morte ancor più dolorosa per noi artisti che eravamo là. La bara era rivestita di un semplice drappo bianco e circondata da mazzi di fiori, i girasoli che amava tanto, dalie gialle, fiori gialli ovunque. Era questo, se ben ricordo, il suo colore preferito, il simbolo della luce che egli sognava albergasse nel cuore delle persone così come nelle opere d’arte. Accanto a lui sul pavimento di fronte alla sua bara c’erano anche il suo cavalletto, il suo seggiolino pieghevole e i suoi pennelli.

Molta gente arrivò, soprattutto artisti, tra i quali riconobbi Lucien Pissarro e Lauzet. Non conoscevo gli altri, anche gente del luogo che lo aveva conosciuto un poco, lo aveva visto una volta o due e ai quali era piaciuto perché era così di buon cuore, così umano . . . .
Eravamo là, completamente silenziosi, tutti assieme attorno a questa bara che conteneva il nostro amico. Alle tre in punto la salma venne rimossa e caricata dagli amici sul carro funebre, numerose persone erano in lacrime. Theodore van Gogh che si era dedicato a suo fratello, che lo aveva sempre sostenuto nel suo sforzo di mantenersi per mezzo della sua arte, singhiozzò in modo pietoso per tutto il tempo . . . .

Il sole fuori era terribilmente caldo. Salimmo la collina fuori Auvers parlando di lui, dell’impulso audace che aveva dato all’arte, dei grandiosi progetti ai quali pensava in continuazione, e di tutto il bene che aveva fatto a tutti noi. Raggiungemmo il cimitero, un piccolo cimitero nuovo disseminato di nuove tombe. Si trova sulla collinetta sopra i campi maturi per il raccolto sotto l’ampio cielo blu che egli avrebbe ancora amato . . . forse.

Quindi fu adagiato nella fossa . . . . Chiunque avrebbe cominciato a piangere in quel momento . . . il giorno sembrava così fatto apposta per lui perché uno potesse fare a meno di immaginare che egli era ancora vivo e ne stava godendo . . . .

Il dottor Gachet (che è un grande amante delle arti e possiede una delle migliori collezioni di dipinti impressionisti al giorno d’oggi) volle pronunciare poche parole di omaggio per Vincent e la sua vita, ma egli pure piangeva così forte che potè solo balbettare un addio molto confuso . . . (forse fu questo il modo migliore di farlo).

Egli diede una breve descrizione delle lotte e dei successi di Vincent, affermando quanto sublime fosse il suo intendimento e quale grande ammirazione provasse per lui (sebbene lo avesse conosciuto solo molto poco). Egli era, disse Gachet, un uomo onesto e un grande artista, aveva solo due obiettivi, l’umanità e l’arte. Era l’arte ciò che egli stimava sopra qualsiasi altra cosa e che avrebbe mantenuto vivo il suo nome.

Poi ce ne tornammo via. Theodore van Gogh era affranto dal dolore; tutti eravamo molto commossi, alcuni se ne andarono verso l’aperta campagna mentre altri tornavano verso la stazione.”

Vincent van Gogh non aveva venduto un quadro in vita, se non al fratello Theo e al dottor Gachet che lo aveva ospitato gli ultimi giorni di vita. Theo morì sei mesi dopo lasciando alla moglie tutta l’opera del fratello.

Lanfranco Bruzzesi

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Antoine de Saint-Exupery: una biografia
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Riconosci i tuoi desideri sessuali? Test
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Dr. Lanfranco Bruzzesi
Dr. Lanfranco Bruzzesi

Appassionato di musica, collabora con psicolinea per la stesura di biografie di personaggi famosi, in particolare nel mondo della musica. Lanfranco Bruzzesi è inoltre il principale ispiratore dell’Associazione Culturale Ankon Cultura, che ha sede ad Ancona e che organizza conferenze, viaggi ed altri eventi culturali.

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  • 21 Apr 2018
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Fabrizio de André: una biografia

Fabrizio de André: una biografia

Fabrizio de André: una biografia


Fabrizio De André, celebre cantautore italiano, ha lasciato un’impronta indelebile nella storia della musica italiana. Le sue canzoni, spesso cariche di temi sociali e politici, sono ammirate per la loro profondità poetica e la loro capacità di toccare il cuore degli ascoltatori. De André è considerato una delle figure più influenti della canzone d’autore italiana. Ecco una sua biografia:

Fabrizio De André può essere considerato, senza ombra di dubbio, come il massimo rappresentante della musica d’autore in Italia e, volendo fare un paragone per niente ardito con Bob Dylan, possiamo constatare che l’arte e la vita del nostro è stata contraddistinta da una medesima, se non addirittura maggiore, coerenza, che lo ha portato lontano dallo show business, dalla spettacolarità, per cantare le solitudini e le inquietudini della piccola gente e per questo entrambi sono stati sottoposti spesso a feroci critiche da parte della stampa ufficiale.

Il cantautore nasce il 18 febbraio 1940 a Genova e precisamente a Pegli, la zona occidentale della città. Scoppiata la guerra, la sua famiglia, madre e fratello maggiore di tre anni e otto mesi, si rifugia nella campagna di Revignano d’Asti, mentre il padre, antifascista, si dà alla macchia.

Il ritorno a Genova avviene solo nel 1945 e qui Fabrizio comincia a frequentare le elementari poi le medie e quindi, per sua precisa scelta, il liceo comunale Cristoforo Colombo, per non incorrere a confronti con il fratello iscritto invece all’Andrea Doria che “prendeva 10 anche in educazione fisica oltre che in filosofia e in italiano”.

Poi frequenta per un po’ Medicina, quindi Lettere per poi iscriversi alla facoltà di Giurisprudenza, dove dà 18 esami ma, la passione e l’interesse per la musica lo portano a impegnarsi poco allo studio e quindi ad abbandonare tutto. Intanto nel 1962 si sposa con Enrica, “Puny”, dalla quale ha il suo primo figlio, Cristiano, e per campare accetta di lavorare negli istituti privati di indirizzo professionale per ragionieri e geometri del padre.

Fabrizio de Andre'

Suona la chitarra e il violino e scrive le prime ballate ispirandosi a George Brassens, “La guerra di Piero”, “Carlo Martello”, “La ballata del Michè”, “Il testamento” tutte canzoni che vengono più o meno censurate dalla burocrazia radiotelevisiva. Poi…

…poi nel 1965 gli capita di scrivere “La canzone di Marinella”:

Questa di Marinella è la storia vera/ che scivolò nel fiume a primavera/ ma il vento che la vide così bella/ dal fiume la portò sopra una stella – Sola senza il ricordo di un dolore/ vivevi senza il sogno di un amore/ ma un re senza corona e senza scorta/ bussò tre volte un giorno alla tua porta…

Grazie all’interpretazione di Mina arrivano “un sacco di soldi”, seicentomila lire in un semestre, e allora si licenzia dal lavoro e con la moglie si trasferisce in Corso Italia, quartiere chic di Genova e si dedica a quella che ha capito essere forse la sua arte: la poesia in musica.

Nello stesso anno viene pubblicato in un album la prima raccolta di ballate. Nel 1967 è la volta di “Volume 1” dove il brano “Preghiera in gennaio” si ispira alla tragica vicenda di Luigi Tenco: …signori benpensanti/ spero non vi dispiaccia/ se in cielo, in mezzo ai Santi/ Dio, fra le sue braccia/ soffocherà il singhiozzo/ di quelle labbra smorte/ che all’odio e all’ignoranza/ preferiscono la morte…

Comincia a ricevere già qualche critica dai “benpensanti” che non vedono di buon occhio la presenza nei suoi testi di riferimenti biblici, di Gesù e della Madonna trattati in maniera “pasoliniana”. Nel brano “Si chiamava Gesù” canta: E morì come tutti si muore/ come tutti cambiando colore/ non si può dire che sia servito a molto/ perché il male dalla terra non fu tolto/ Ebbe forse un po’ troppe virtù/ ebbe un volto ed un nome: Gesù./ Di Maria dicono fosse il figlio/ sulla croce sbiancò come un giglio.

Nel 1967 è la volta di “Tutti morimmo a stento” dove i brani si susseguono senza pause di silenzio. Cambia la struttura ma non il contenuto sempre riguardante gli eroi al contrario: drogati, prostitute, criminali e possiamo dire che fino alla morte saranno questi i temi che prevarranno nelle canzoni di De André, gli emarginati dalla società, cioè quelli appartenenti a minoranze etniche, sessuali etc.

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Dopo il “Volume III”, che è una sorta di antologia con alcuni brani nuovi, veniamo all’album che il cantautore considera forse il migliore della sua produzione, “La Buona Novella” basato sui testi dei vangeli apocrifi, cioè quegli scritti non riconosciuti dalla Chiesa come veritieri e in cui sono privilegiati più gli aspetti umani che quelli divini di Gesù e della Madonna. Ci mette sei mesi per finirlo e musicalmente contiene in nuce l’interesse verso sonorità orientaleggianti che poi saranno il punto di forza dell’ album “Creuza de Ma”. Ne “Il testamento di Tito” il cantautore, per bocca di uno dei due ladroni crocifissi con Gesù, per l’appunto Tito, dice: “ Non avrai altro Dio all’infuori di me – spesso mi ha fatto pensare:/ genti diverse venute dall’est/ dicevan che in fondo era uguale./ Credevano a un altro diverso da Te/ e non mi hanno fatto del male/ …Il quinto (comandamento) dice: – Non devi rubare – / e forse io l’ho rispettato/ vuotando, in silenzio, le tasche già gonfie/ di quelli che avevan rubato:/ ma io, senza legge, rubai in nome mio,/ quegli altri, nel nome di Dio…

A questo album ne segue un altro per certi versi simile, nel senso che si tratta di un concept album tratto liberamente dallo “Spoon river Anthology” di Edgar Lee Masters i cui pezzi hanno tutti un comune filo conduttore: sono alcuni personaggi di questo paese che, morti, si esprimono con estrema sincerità perché non hanno più da aspettarsi niente e quindi parlano come da vivi non sono stati mai capaci di fare. Due i sentimenti sottesi ai racconti che fanno questi personaggi: l’invidia e la scienza. Bellissimo è il pezzo “Un malato di cuore”, vera poesia in musica. Del 1973 è l’album “Storia di un impiegato” in cui forse non viene raggiunto un equilibrio armonioso fra parole e musica per il fatto che è troppo evidente la smania di prendere un posizione assai critica nei confronti di certa contestazione dell’epoca, ma gli avvenimenti degli anni successivi gli daranno ragione su tante considerazioni.

L’anno successivo De André pubblica “Canzoni” in cui rende omaggio ai suoi guru musicali di sempre: Brassens, Dylan, Cohen interpretando in maniera del tutto personale i loro pezzi. Nel 1975, dalla collaborazione con Francesco De Gregori, nasce l’album “Volume VIII” i cui pezzi sono eseguiti con poca strumentazione e rivelano un ermetismo  che caratterizza più la poesia del cantautore romano che non quella del nostro.

In un pezzo da lui molto amato che è “Amico fragile”, sembra usare la tecnica del flusso di coscienza (stream of consciousness) di certa letteratura anglosassone, come Virgina Woolf o James Joyce.

Intanto per quanto riguarda la vita privata, per la quale il cantautore ha sempre preteso una certa privacy, decide di trasferirsi, con la nuova compagna Dori Ghezzi, in Sardegna e precisamente nella tenuta dell’Agnata vicino a Tempio Pausania dove vuole dedicarsi al lavoro della terra.

Nel 1977 nasce Luisa Vittoria detta “Luvi” e nel 1978 esce l’album “Rimini”, ricco di nuove sonorità e contenente notevoli canzoni come “Sally”, “Andrea”, la stessa “Rimini”. Del resto ogni album sembra un gioiellino, tanta è la cura che ne fa il cantautore anche dal punto di vista musicale avvalendosi di musicisti di alto spessore.

Nell’agosto del 1979 Fabrizio De André e Dori Ghezzi vengono sequestrati da una banda di “Cherokee” come li definisce più tardi lo stesso cantautore, “ che prima ancora di volere i soldi volevano dimostrare di avere il coraggio di rapire una persona”. La prigionia dura quattro mesi e alla fine della vicenda i suoi rapitori vengono tutti catturati. Il sequestro ispira l’album senza titolo denominato “L’indiano” che vede la luce nel 1981 e per il quale si avvale della collaborazione di Massimo Bubola, grande cantautore rocker, che meriterebbe maggiore fortuna in questo panorama musicale italiano odierno veramente scarso di valide alternative ai cantautori “classici”.

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Ma è nel 1984 che De André mette d’accordo tutti, critici musicali e non, realizzando l’album “Creuza de Mà” con l’aiuto di Mauro Pagani, ex Pfm. I pezzi sono cantati in genovese, incomprensibili al grande pubblico, che deve ricorrere alle traduzioni riportate nell’album; ma la voce è musica e quando si ascolta non si può non rimanere affascinati dalla magia che essa emana. Gli arrangiamenti musicali evocano suoni ed emozioni “mediterranei” con l’utilizzo di strumenti quali l’oud arabo, il bouzouki greco, lo shannaj turco. Significativo il pezzo “Sidun” in cui viene raccontata la tragedia palestinese attraverso la morte di un bambino nel Libano.

Nel 1989 Fabrizio De André sposa la compagna Dori Grezzi. Nel 1990 pubblica “Le nuvole” avvalendosi anche in questo lavoro del prezioso aiuto di Mauro Pagani. L’album viene accolto con un consenso inusuale sia dalla critica che dal pubblico malgrado in esso si privilegi maggiormente il contenuto, le parole, di carattere prettamente satirico, piuttosto che la musica.

Arriviamo alla ultima sua opera datata 1996 “Anime salve”. L’album è un capolavoro di bellezza e rappresenta senza dubbio la “summa” di tutta l’opera del cantautore genovese. La musica e le parole sono un tutt’uno ben amalgamato. Ci partecipa Ivano Fossati che canta anche in due pezzi.

All’album segue un tour che porta il cantautore in diversi palasport d’Italia dove fa sempre il tutto esaurito.

Ormai è un mito, una leggenda, ma lui è sempre sé stesso, come agli esordi ed è lì a ribadire, ad ogni suo concerto, la poca attenzione che rivolgiamo noi tutti a queste “anime salve” cioè agli zingari rom, alle prostitute, ai travestiti, ai poveracci, in generale agli emarginati.

La società ci ha anzi insegnato a provare fastidio, sdegno nei loro confronti perché sono genti che non si sono fatte sottomettere che hanno conosciuto, come i rom, anche un olocausto silenzioso (perché nessuno se ne è curato) fatto di mezzo milione di vittime durante la II guerra mondiale; vivono la loro diversità in maniera dignitosa, quasi con orgoglio e ciò paradossalmente consente loro di sentirsi più liberi. In questi concerti vengono impiegati anche dei mimi che con una scenografia curata nei minimi particolari introducono alcuni pezzi e sono presenti il figlio Cristiano che si esibisce con diversi strumenti​ e l’altra figlia, Luvi​ che fa da terza corista​.

L’ 11 gennaio 1999 Fabrizio De André, malato già da diverso tempo, muore all’Istituto dei Tumori di Milano e ai suoi funerali, che si svolgono a Genova, partecipano oltre 10.000 persone.

(n.d.a.) De André non voleva raccontarsi tanto, non amava il pettegolezzo ed è questo il motivo per cui non mi sono soffermato tanto su certi particolari della sua vita che non avrebbero aiutato a capire l’artista. Meglio senza dubbio i testi delle canzoni che stanno lì a spiegarci tante cose.

LibriAutori:
Dr. Giuliana Proietti - Dr. Walter La Gatta

SIDONE ( trad.di Sidun da “Creuza De Ma)
Il mio bambino il mio / il mio / labbra grasse al sole / di miele di miele /Tumore dolce benigno / di tua madre / spremuto nell’afa umida / dell’ estate dell’ estate /E ora grumo di sangue orecchie / e denti di latte / e gli occhi dei soldati cani arrabbiati /Con la schiuma alla bocca / cacciatori di agnelli / a inseguire la gente come selvaggina /Finché il sangue selvatico / non gli ha spento la voglia / e dopo il ferro in gola i ferri della prigione /E nelle ferite il seme velenoso della deportazione / perché di nostro dalla pianura al modo /Non possa più crescere albero né spiga né figlio / ciao bambino mio l’eredità / è nascosta /In questa città / che brucia che brucia / nella sera che scende /E in questa grande luce di fuoco / per la tua piccola morte.

UN MALATO DI CUORE ( da “Non al denaro non all’amore né al cielo”)

Cominciai a sognare anch’io insieme a loro / poi l’anima d’improvviso prese il volo-Da ragazzo spiare i ragazzi giocare / al ritmo del tuo cuore malato /E ti viene la voglia di uscire e provare / che cosa ti manca per correre al prato, /E ti tieni la voglia, e rimani a pensare / come diavolo fanno a riprendere il fiato. /Da uomo avvertire il tempo sprecato / a farti narrare la vita dagli occhi /E mai poter bere alla coppa d’un fiato / ma a piccoli sorsi interrotti, /E mai poter bere alla coppa d’un fiato / ma a piccoli sorsi interrotti.Eppure un sorriso io l’ho regalato / e ancora ritorna in ogni sua estate /Quando io la guidai o forse fui guidato / a contarle i capelli con le mani sudate. /Non credo che chiesi promesse al suo sguardo, / non mi sembra che scelsi il silenzio o la voce, /Quando il cuore stordì e ora no, non ricordo / se fu troppo sgomento o troppo felice, /E il cuore impazzì e ora no, non ricordo, / da quale orizzonte sfumasse la luce /E fra lo spettacolo dolce dell’erba, / fra lunghe carezze finite sul volto, /Quelle sue cosce color madreperla / rimasero forse un fiore non colto. /Ma che la baciai, questo sì, lo ricordo, /col cuore ormai sulle labbra, /Ma che la baciai, per dio sì, lo ricordo, / e il mio cuore le restò sulle labbra /E l’anima d’improvviso prese il volo / ma non mi sento di sognare con loro, /No non mi riesce di sognare con loro.

Lanfranco Bruzzesi

Imm. Wikimedia

Dr. Lanfranco Bruzzesi
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Appassionato di musica, collabora con psicolinea per la stesura di biografie di personaggi famosi, in particolare nel mondo della musica. Lanfranco Bruzzesi è inoltre il principale ispiratore dell’Associazione Culturale Ankon Cultura, che ha sede ad Ancona e che organizza conferenze, viaggi ed altri eventi culturali.

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