Jung: quando e perché decise di allontanarsi da Freud

“Sotto l’influenza della personalità di Freud avevo – per quanto possibile – rinunciato al mio proprio giudizio, e represse le mie critiche. Era questa la premessa indispensabile per collaborare con lui. Mi ero detto: “Freud è molto più saggio ed esperto di te. Per ora devi solo ascoltare ciò che dice, e apprendere da lui”. Poi, con mia sorpresa, mi scoprivo a sognarlo nei panni di un burbero impiegato dell’Imperiale Regio governo austriaco, un ispettore delle dogane che era defunto e tuttavia s’aggirava come un fantasma. Poteva trattarsi del desiderio di morte sospettato da Freud? Non trovavo in alcuna parte di me stesso motivo per poter normalmente nutrire tale desiderio, poiché anzi volevo a tutti i costi lavorare con lui e, in modo chiaramente egoistico, usufruire della sua vasta esperienza. La sua amicizia aveva pertanto un gran valore e non avevo ragione di desiderare la sua morte.”

A parlare in questo modo di Sigmund Freud è Carl Gustav Jung, il suo allievo prediletto e poi nemico-rivale. Lo fa nella sua autobiografia, nella quale cerca di descrivere la sua situazione ed i suoi vissuti in quel periodo che ruota intorno agli anni 1911-1913, in cui vi fu il progressivo allontanamento fra i due.

Jung racconta in particolare di un sogno, che lo fece pensare molto. Si trovava in una città italiana, verso il mezzogiorno, in estate; la città era sulle colline, simile a Bergamo o a Basilea. Gli venivano incontro delle persone ed in mezzo alla fiumana della folla camminava un Cavaliere, completamente armato, ma nessuno dei passanti sembrava accorgersi di lui. Nel sogno qualcuno sembrava rispondere alle sue perplessità affermando che si trattava di un cavaliere, che tutti i giorni a quell’ora appariva fra la folla e che dunque non vi era di che preoccuparsi. Jung si sentiva invece turbato e oppresso dal sogno, ma non sapeva come interpretarlo.

Solo in seguito comprese che il Cavaliere era un personaggio del XII secolo, dell’epoca cioè dell’alchimia e della ricerca del Sacro Graal, di cui aveva letto con grande interesse nei suoi quindici anni.

Il mondo dei Cavalieri e del Graal: quello era, dice Jung, il suo mondo, nel profondo. E aveva poco in comune con il mondo di Freud: tutto il suo essere cercava qualcosa che era ancora ignoto e che potesse dare un significato alla banalità della vita.

“Ero profondamente deluso del fatto che tutti gli sforzi dell’intelletto umano, nelle sue indagini, non fossero riusciti – apparentemente – a trovare niente altro, nelle profondità della psiche, che le ben note e “troppo umane” limitazioni”.

Jung ricorda di essere cresciuto in campagna, tra contadini, e ciò che aveva potuto imparare nelle stalle, come l’incesto e le perversioni, non erano per lui delle novità degne di nota. Esse non richiedevano per lui particolari spiegazioni: assieme alla delinquenza facevano parte di quella nera feccia che gli guastava il sapore della vita, mostrandogli fin troppo chiaramente quanto di brutto e di insignificante vi fosse nell’esistenza umana.

“Era per me naturale che i cavoli prosperassero nel concime: ma, onestamente, in tale conoscenza, non riuscivo a vedere alcuna intuizione utile”. E pensava che il problema fosse in tutta la gente che nasce e vive in città e che dunque non sa nulla della natura e della “stalla umana“. Chi non sa nulla della natura non può che essere un nevrotico, diceva Jung, perché non è capace di adattarsi alla realtà: è troppo ingenuo, come un bambino…

Questi ragionamenti lo portarono a comprendere perché la psicologia di Freud lo interessasse così vivamente: ardeva dal desiderio di conoscere una “soluzione ragionevole”.

Ma ora Jung aveva conosciuto meglio Freud: aveva capito che era lui stesso afflitto da una nevrosi “facilmente diagnosticabile e con sintomi penosi”, come aveva scoperto durante il loro viaggio in America. Freud gli aveva detto che tutti sono un po’ nevrotici e che dunque occorre essere tolleranti. Ma Jung non era soddisfatto della spiegazione: voleva sapere come poter sfuggire alla nevrosi. E allora, se anche il Maestro, né con la teoria né con la pratica, riusciva ad affrancarsi dal problema, né vi riuscivano gli altri discepoli, che soluzione rappresentava la psicologia di Freud? E quando Freud disse che voleva identificare teoria e metodo per trasformarli in un dogma. Jung ritenne che non gli rimaneva che ritirarsi.

“Quando lavoravo al mio libro “Wandlungen und Symbole der Libido”, avvicinandomi alla fine del capitolo sul “Sacrificio” sapevo in precedenza che la pubblicazione mi sarebbe costata l’amicizia di Freud”: Jung dunque scelse di rappresentare le sue idee, ben sapendo che Freud non avrebbe potuto accettarle.

L’idea nuova ed inaccetabile per il Maestro era quella dell’incesto: secondo Jung l’incesto significava una complicazione personale solo in casi rarissimi. Lo vedeva piuttosto come un atto dal contenuto profondamente religioso e per questo aveva una parte decisiva in quasi tutte le cosmogonie e in numerosi miti.

Freud, Jung prevedeva, si sarebbe attenuto troppo al significato letterale di ciò che lo psicoanalista svizzero aveva intenzione di scrivere: non sarebbe certamente riuscito a cogliere il significato spirituale dell’incesto, in quanto simbolo.

Jung ne parlò con sua moglie, la quale lo rassicurò: gli disse infatti che secondo lei Freud avrebbe generosamente fatto passare le sue interpretazioni, pur non condividendole. Jung invece era convinto che Freud non ne sarebbe stato capace.

Per due mesi non gli riuscì di scrivere, tanto era tormentato da questo conflitto: doveva tenere i suoi pensieri per sé o rivelarli al mondo, rischiando però la perdita dell’amicizia con Freud?

Come sappiamo Jung scelse la seconda strada e questo gli costò l’amicizia di Freud. Tutto come previsto.

Quali furono le conseguenze di questa rottura? Ce le racconta lo stesso Jung:

“Dopo la rottura con Freud tutti i miei amici e conoscenti si allontanarono da me, uno dopo l’altro. Si disse che il mio libro non valeva niente. Ero un mistico, e con ciò la cosa passò in giudicato. Riklin e Maeder furono i soli che rimasero con me. Ma avevo previsto il mio isolamento e non mi ero fatte illusioni circa le reazioni dei miei così detti amici: era un fatto che avevo già prima considerato a fondo. Sapevo che mettevo in gioco tutto, e che dovevo avere il coraggio delle mie opinioni. Mi resi conto che il capitolo sul Sacrificio rappresentava il mio sacrificio; e con questo convincimento potevo scrivere di nuovo, pur sapendo che le mie idee non sarebbero state comprese”.

Fonte: C.G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, ed. Rizzoli

Dr. Giuliana Proietti

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