Per una sessuologia etica

Per una sessuologia etica

Psicolinea

Non vale nulla sapere o non sapere di fronte all’esperienza fatta.
F. Rosenzweig

Negli ultimi cinquanta anni la sessuologia (sarebbe meglio dire gli studi sulla sessualità umana, come vedremo) ha avuto un consistente impulso e ciò non solo a livello strettamente scientifico, ma anche culturale. Basti ricordare che, solo qualche decennio fa, per rilevare le erezioni notturne si applicava, durante il sonno, una sorta di francobollo lungo il pene, a testimonianza – qualora si fosse poi rotto – di un avvenuto allungamento dell’asta e che all’inizio degli anni ’70 le terapie ormonali e la psicoanalisi erano di fatto gli unici rimedi per l’impotenza.

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Per quanto poi riguarda il sentire comune, la sessuologia si è venuta affermando autonomamente tanto da essergli riconosciuto lo status popolare, non sempre accademico, di scienza.

Ma in che ruolo e con quali credenziali?

Trascuriamo momentaneamente il problema delle credenziali, cui torneremo più avanti, per soffermarci sul ruolo della sessuologia.

Si è soliti concordare con una visione che individua la sessuologia come scienza di confine. Un confine molto angusto, per alcuni che la vedono stretta tra la medicina e la psicologia; meno limitato, per altri che la inseriscono limitrofamente anche alla sociologia e all’antropologia; più esteso, per altri ancora che la situano anche a fianco della filosofia e dell’etica. Così, più o meno pigiata, la sessuologia appare in tale metafora un regno che deve difendere il suo territorio da ambiziosi e famelici confinanti, senza i quali però non può fare a meno per sopravvivere dignitosamente, non avendo né blasoni, né credenziali.

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Essa, infatti, se ricerca i propri antenati, non può che ritrovarli – indipendentemente dalla sua collocazione – nelle scienze della natura e nelle scienze dell’uomo: nobili progenitori, ma tanto compositi da essere antinomici, rissosi e sempre in conflitto tra loro.

Da qui discende, ovviamente, il problema delle credenziali. Quale il suo impianto teoretico? Quale il suo metodo? Quale il criterio di validazione dei suoi risultati?

Le questioni non sono di facile soluzione, anzi – a ben guardare nell’attuale prospettiva – sono del tutto irrisolvibili.

Così, nei primi anni, tra i più vicini confinanti, medicina e psicologia, si è trovato un tacito compromesso, una sorta di non belligeranza, in base a cui una stirpe non invadeva il territorio dell’altra, nel rispetto delle reciproche discendenze, ed ognuno coltivava i propri orticelli.

Per dirla con parole più attuali: separati in casa.

Ma ai figli (pazienti) chi provvedeva? Ah, poveri figli! Una volta vi provvedevano gli uni, una volta gli altri: a seconda del caso, ma – attenzione! – non a seconda del caso clinico, ma del caso fortuito.

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Negli anni successivi le cose sono sicuramente migliorate. Ad ognuno le proprie competenze: la mamma fa il bagnetto, il papà porta allo stadio. Solo che, da buoni separati, ogni genitore tentava di tenerli il più possibile con sé, ed alle volte parlava male dell’altro, forse perché non riusciva a capirne le ragioni. Ah, poveri figli! Qualche volta gli sarà capitato di lavarsi anche quando non ne avevano bisogno, o di assistere ad una partita che non era quella della loro squadra del cuore.

Il tempo è passato ancora: i genitori si sono riconciliati, perché consapevoli di non poter fare a meno l’uno dell’altro, e per affermare di più la loro autorità hanno estromesso dalla famiglia tutti gli altri parenti.

Medicina e psicologia hanno sancito un’alleanza, un patto d’acciaio, integrandosi e collaborando.

E il problema delle credenziali? Quello è rimasto. Ed è ancor più cocente.

L’incompatibilità tra cultura forte (scienze della natura) e cultura debole (scienze dell’uomo) non è in alcun modo conciliabile: o si sta da una parte o dall’altra. Per di più, la psicologia contemporanea è un intreccio inestricabile d’antinomie epistemologiche, che convivono legittimandosi reciprocamente con il loro silenzio.

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Un’alleanza, dunque, tra chi?

Si sa, nelle alleanze è sempre il più forte a farla da padrone, è lui che detta le regole, così all’orizzonte, con il bene placido della psicologia, si profila un’annessione del territorio della sessuologia da parte della medicina. Non più scienza di confine ma scienza confinata. I suoi vicini sono ormai lontani. Non appetibili (non ancora?) per il demiurgo della salute, vengono lasciati in balia di se stessi, deboli e inutili.

Le sacche di resistenza interne alla psicologia si trovano emarginate da un orientamento mecanomorfico, cui sempre di più sembra aderire il pensiero sessuologico.

Riuniti sotto la bandiera di una scientificità “hard”, con un approccio “tough minded” (naturalisticamente rigido, come lo definiva William James, contrapponendolo a quello umanistico, “tender minded”), signori e vassalli propongono per il secolo che è appena cominciato uno scenario inquietante dove l’Uomo, nella sessualità, non solo perde la sua soggettività ed il suo costitutivo rapporto di trascendenza con il mondo, ma altresì smarrisce il filo etico, che solo è in grado di darci conto del suo essere umano, rendendosi naturalisticamente spiegabile in parti disgiunte, ma mai umanamente comprensibile nella sua interezza.

Serve a questo punto riflettere: è necessaria una riflessione, seria, pacata, ma radicale.

La sessuologia, se esiste autonomamente come scienza, dopo tanto correre deve fermarsi, riprendere fiato e rivolgere l’attenzione verso se stessa. Deve interrogarsi sui principi e sulle finalità, il che vuol dire riesaminare il suo “oggetto” ed il suo metodo, comprendere con chiarezza cosa fare e soprattutto dove andare.

Un’introflessione indispensabile che non è minimamente riconducibile a contrapposizioni d’ordini professionali, né ad un problema deontologico, né ad una questione epistemologica: si tratta di Etica.

La sessuologia, se ambisce ad un legittimo riconoscimento nel novero delle scienze, deve esser chiara con se stessa, trasparente, univoca.

Quale, dunque, il suo “oggetto”? L’anatomia, la fisiologia, la fisiopatologia, le interazioni psicosomatiche, il comportamento, le relazioni, le dinamiche intrapsichiche? Ed in subordine, le radici culturali, i condizionamenti collettivi, le proiezioni sociali, i riferimenti etici e religiosi?

Niente di tutto ciò separatamente, ma l’Essere umano nel suo mondo, incarnato nel suo progetto e nelle sue finalità.

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Scriveva Piero Balestro: “ciò che si nega non è che gli organi genitali abbiano anche quella realtà testimoniata dall’osservazione sezionata. Ciò che si nega e che quegli organi, inesistenti in quanto“organi”fuori dal contesto in cui giocano un ruolo, vengano definiti nella loro funzionalità, senza tener conto dell’insieme di cui essi sono funzione. […] Le parti che lo compongono [l’Uomo] sono semplicemente strumenti per realizzare le sue finalità o, che è lo stesso, le sue capacità.”[1]

La sessualità in sé non è pensabile, né esplorabile. Essa è espressione originaria dell’Essere umano e come qualità essenziale non può esserne disgiunta, né colta compiutamente in una delle forme in cui si manifesta.

Comprendere la sessualità è possibile solo passando attraverso l’Essere umano ed osservandolo nella sua costitutiva trascendenza che lo lega indissolubilmente al “ suo mondo” (l’Eigenwelt distinto da Binswanger dall’Umwelt, il mondo circostante). Ciò implica il risalire dal “come” di un mondo per giungere al “mondo”, lasciando apparire, infine, il “chi”. Ma non un “chi” cristallizzato nella sua effettività, bensì totalmente aperto al poter-essere, dunque alla possibilità, quanto alla scelta.

Gli eventi intramondani si trasformano (ed assumono la loro caratteristica umana) in vissuti, con un proprio senso e significato, correlati in una “connessione strutturale” (Strukturzusammenhang, come la definì Dilthey). Da tale connessione è possibile comprendere “…il tutto come totalità dotata di senso”, abbandonando il principio di causa-effetto, poiché la comprensione di un vissuto permette di comprendere il seguente, che chiarisce a sua volta il precedente, in una concatenazione omnicentrica.

Si preserva così la caratteristica fondante dell’Essere umano: la sua soggettività, che non è – come banalmente alcuni la intendono – ‘pura attività psichica’, ma altresì interazione continua anche con il mondo fisico, ovvero con il proprio corpo e gli altri “oggetti” intramondani.

Il mondo e gli accadimenti, nella loro fisicità, nella loro fattualità, non sono opposti ai vissuti che si costituiscono sul loro riflesso, ma sono intrinseci alla “relazione” fornitrice di senso. Ed è a questa relazione che dobbiamo volgere lo sguardo, in un “avvicinamento interumano” – come ben enunciato da Jaspers – “…dove non c’è la contrapposizione soggetto-oggetto, ma un insieme di relazioni”.[2]

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Trattando dell’oggetto delle scienze, naturalmente si sconfina a trattare del metodo.

Se, infatti, poniamo al centro delle osservazioni della sessuologia l’aspetto soggettivo, decade ogni pretesa d’oggettivazione. Come scrive in proposito Jaspers parlando dell’uomo, non solo nella qualità d’entità corporea, ma in quanto lui stesso nella totalità della sua persona “…occorre rendersi conto che l’uomo, nella sua totalità, sta oltre ogni possibile ed afferrabile oggettivazione.”

E se esiste un aspetto dell’essere umano che più d’ogni altro lo esprime nella sua totalità: somatica, psichica, relazionale, trascendente e trascendentale, questo è rappresentato dalla sessualità.

S’impone così un totale “rovesciamento” che pre-tende il privilegiare la visione ‘da dentro’ e non la conoscenza dei nessi causali osservati “da fuori”. Attenzione, però, non riduttivamente in un’ottica che pre-veda l’approccio psicologico anteposto a quello fisico-naturalistico (saremmo ancora prigionieri dell’opposizione soggetto-oggetto), ma in una prospettiva realmente “interiore” che trovi la validità in se stessa: nell’assoluta coincidenza tra chi osserva e chi è osservato.

Un analogo “rovesciamento” era già stato auspicato da Binswanger in psicologia e psichiatria nel 1924: “Se ora, però, come meta della psicologia si pone l’investigazione della personalità umana e da questa meta s’irraggia di pari luce sull’indagine psichiatrica, l’orientamento stesso dell’indagine dovrà conoscere un completo rovesciamento. Anziché procedere dal corpo, dai suoi organi e dalle sue funzioni, alla psiche, ai suoi “organi”, sistemi o parti e alle sue funzioni e, ripartendo da questi, tentare di penetrare nella sfera della persona […] sorge ora la questione se l’indagine della persona non sia al contrario la prima e ovvia meta della psichiatria e a partire da qui non si ordinino in una coerente gerarchia gli altri metodi di ricerca, ora come in passato più o meno indispensabili.”[3]

Il metodo della descrizione fenomenologica, adottato da Binswanger per attuare un tale “rovesciamento” (non meno dell’immedesimazione di Jaspers e dell’intuizione di Minkowskij), fallì però l’obiettivo, restando prigioniero di un’interpretazione soggettiva – contro ogni intento e pronunciamento.

Non è questa la sede per approfondire una siffatta tematica che comprende gran parte della riflessione epistemologica che inizia dallo storicismo tedesco e dalla fenomenologia husserliana per arrivare senza soluzione di continuità all’opposizione del neo-positivismo; ciò che merita invece d’essere evidenziato è propriamente il criterio di validità apodittica che si riscontra nell’emergenza del vissuto in una dialettica interno-interno. Non un osservatore (psicologo, analista, medico, ecc.) che proponga la sua esperienza dell’altro (paziente), osservato, in cui permane la dicotomia soggetto-oggetto, ma una perfetta congruità tra esperente ed esperito. Soggetto ed oggetto, così, si fondono nell’immanenza costitutiva che sola, eliminando ogni dualità riduzionista, può testimoniare la realtà dell’Essere umano.

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La sessuologia, non è scienza di una parte dell’Uomo, ma dell’Uomo stesso nella sua interezza. Non può dividerlo per spiegarlo e poi ricomporlo trasformato secondo leggi cui lo assoggetta proditoriamente. Tale atteggiamento riduttivo-astrattivo che implica una concezione unitaria ma limitata della realtà, cui la singolarità sarebbe rapportabile, distrugge di fatto la soggettività umana, ovvero la condizione naturale in cui l’Essere umano fornisce il valore del senso e del significato alla realtà. Deve, invece, quale reale antropologia, osservare e lasciare affiorare la parte nascosta per metterla accanto a quella che già si mostra. La sessuologia, favorendo l’emergere autogeno di ciò che è in sé e che non ha bisogno di spiegazione, si pone in essere come una maieutica priva d’ogni pregiudiziale teoretica, conservando l’integrità e la singolarità di ciò-che-è-poiché-appare.

La sessualità non abita nel regno del ‘peso e della misura’, ma in quello dell’istinto, dei sentimenti, delle emozioni, dell’incontro e dei valori. La sessualità non è essere-in (nelle leggi della natura), ma essere-con (un altro essere umano).

La spiegazione causale, è solo un momento successivo nella comprensione dei fenomeni legati alla sessualità. Una prospettiva che non deve oscurare o ignorare il contesto puramente umano in cui si manifestano, perché ciò che sfugge a riduzioni, misurazioni e spiegazioni, rappresenta l’essenza stessa del fenomeno.

La sessuologia è scienza dell’Uomo e come tale deve rispettarne l’integrità, la totalità, la soggettività. Solo così, rivendicando il diritto di reinserire l’Essere umano nella sua più propria dimensione e abbandonando il timore di non esser protetta dalle severe leggi delle scienze della natura, può ritrovare un’etica che le ridia identità, autonomia e libertà.

Se, però, ci rapportiamo alla sessualità conformemente a tale visuale è necessario tener sempre presente due considerazioni preliminari.

La sessualità, per sua essenza è essere-con, è apertura fondante. Essa, dunque, non attiene propriamente alla singolarità, ma alla dualità, ed in quanto apertura rimanda alla possibilità. Da ciò discende che non può essere affrontata solo nella prospettiva individuale, ma più compiutamente in quella relazionale, che nella modalità delle possibilità si dilata in una dimensione generale (sociale).

Come seconda considerazione, va poi ricordato che la sessualità ha come finalità intrinseca la procreazione, i cui rinvii – anche nell’ottica più laica o restrittiva – non possono essere circoscritti nell’individualità.

Ora, nel privato – ed assumendosene la responsabilità – si può non tener conto di tali basilari principi, si può sottovalutarli o misconoscerli per comodo, ma in ambito scientifico, orientativo, consultivo, abilitativo o riabilitativo non possono in alcun modo essere ignorati.

Le interviste

 

La sessuologia (se esiste) ed i sessuologi (se esistono anch’essi) devono saper guardare a fondo nella complessa essenza di una finalità umana e nelle sue modalità d’esprimersi; devono saper distinguere tra immanente e contingente, devono – volenti o nolenti – misurarsi e misurare con l’etica.

D’altronde, se accettiamo l’idea che l’Essere umano debba essere scientificamente colto nella sua interezza, non possiamo pregiudizialmente oscurare i rilievi intersoggettivi delle sue scelte e del suo agire, né renderlo mutilo dello spirito. Riconoscersi in un’epistemologia etica, conduce ad assumersi la responsabilità di un agire etico.

Circa tre anni fa, in occasione della costituzione della federazione italiana di sessuologia, scrivevo (mi si perdoni l’autocitazione, ma ritengo sia esplicativa del panorama sessuologico che ci circonda): “La sessuologia, dunque, se vuole offrire un reale contributo scientifico alla comprensione dell’Uomo e soprattutto dell’uomo-malato, per ridurne la sofferenza, deve prioritariamente imporsi di riflettere su se stessa, lasciando emergere i tratti essenziali di ciò che oggi è e di ciò che può divenire: un’autoriflessione, libera da pregiudizi e veti, aperta alla più ampia partecipazione e indirizzata verso una matura consapevolezza.” Tale appello è sostanzialmente caduto nel vuoto. Mi auguro che il sasso gettato di nuovo nello stagno non si limiti a disegnare effimeri cerchi nell’acqua.

Franco Avenia

[1] P. Balestro (1967): “Sesso e persona”, Bompiani, Milano, pp.196-197
[2] K. Jaspers (1913-1959): “Psicopatologia generale”. Il pensiero scientifico. Roma, 1964, p. 62
[3] L. Binswanger (1924): “Quali compiti sono prospettati alla psichiatria”, in Per un’antopologia fenomenologica, Feltrinelli, Milano, pp.322-323

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