Psicoterapeuti e social media

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La privacy personale è ormai in rapido declino nell’era di Internet (Quilici-Gonzalez, Kobayashi, Broens, e Gonzalez, 2010) ed anche la privacy degli psicoterapeuti che usano i social media è stata al centro di numerosi studi, che l’hanno analizzata (Lehavot, Barnett e Powers, 2010; Myers, Endres, Ruddy, e Zelikovsky, 2011;Nicholson, 2011; Taylor, McMinn, Bufford, & Chang, 2010; Tunick, Mednek & Conroy, 2011; Zur & Donner, 2009; Zur, Williams, Lehavot, & Knapp; 2009).

Si è osservato che la pervasività di Internet nella vita quotidiana sta di fatto annullando il confine tra il personale e il professionale (Behnke, 2008; Zur & Donner, 2009) ed anche gli psicoterapeuti sembrano aver perso il controllo sul livello di loro informazioni private che diventano pubbliche (Tunick et al., 2011).

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Il risultato è l’inevitabile trasparenza di informazioni private riguardo gli psicoterapeuti (Barnett & Russo, 2009; Zur & Donner, 2009) che aggiungono “una nuova dimensione alla professione “ (Zur & Donner, 2009).

I potenziali pazienti hanno una maggiore probabilità di imbattersi nelle informazioni personali sui loro terapeuti, il che può essere negativo per il buon esito della terapia (Barnett & Russo, 2009; Woodhouse, 2012). Ad esempio, un professionista che è personalmente impegnato in politica, potrebbe avere scambi di opinioni con i membri della sua comunità. In genere, nessun terapeuta si avventurerebbe in discussioni politiche con i propri pazienti, ma questi scambi di battute online possono portare alla luce le proprie opinioni politiche, creando problemi alla terapia.

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I professionisti sono sempre più coinvolti nelle attività professionali on-line: si è assistito alla proliferazione di siti web e dell’uso dei social media (ad esempio, Twitter, LinkedIn e Facebook), dove essi partecipano a discussioni e commenti, nello stesso tempo in cui promuovono la loro attività professionale,offrendo consulenza.

Le ricerche condotte mostrano che i dati personali sugli psicoterapeuti sono ampiamente disponibili online (Barnett & Russo, 2009; Vartabedian, Amos, e Baruch, 2011; Zur, 2009). Lehavot et al. (2010) hanno scoperto che più di due terzi di 302 specializzandi in psicologia usavano i loro nomi reali sui social media, e più di un terzo di loro ha dichiarato che avrebbe preferito che i propri pazienti non avessero letto queste informazioni, una volta iniziata la professione.

McDonald, Sohn, e Ellis (2010) hanno cercato le pagine personali su Facebook di 338 terapeuti della Nuova Zelanda che si erano laureati presso l’Università di Otago. Due terzi di loro aveva un account sui social media; di questi, un terzo non aveva usato le impostazioni per la privacy, e quasi altrettanti avevano parlato di questioni personali sulle loro pagine di social networking.

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Zur e Donner (2009) e Zur et al. (2009) suggeriscono che i potenziali pazienti potrebbero impegnarsi in una serie di possibili ricerche online, dalla semplice ricerca di informazioni sui siti web professionali, all’uso di Google per cercare informazioni private che riguardano i terapeuti, oppure iscriversi con una falsa identità ai loro siti e, in rari casi, anche praticare pirateria informatica alla ricerca di informazioni non condivise.

Le ricerche mostrano che un gran numero di clienti ottiene informazioni sulla vita privata degli psicoterapeuti (Nicholson, 2011;. Myers et al, 2011;. Taylor et al, 2010; Zur e Donner), anche se è impossibile quantificare la natura e la frequenza del fenomeno.

I pochi studi che sono stati condotti sulle ricerche online effettuate dai clienti non sono specifiche per i professionisti della salute mentale. I Pew Foundation’s Internet and American Life surveys (Fox, 2006; 2013) hanno scoperto che tra il 72% (2013) e l’80% (2006) degli statunitensi adulti ha
cercato su Internet per ottenere informazioni sulle attività svolte dal terapeuta negli ultimi anni.

In uno studio su specializzandi in psicologia tuttavia, Lehavot et al. (2010) hanno scoperto che i partecipanti hanno riportato che solo il 7% dei loro pazienti aveva parlato apertamente con loro della ricerca di informazioni che avevano fatto online (per avere notizie sul terapeuta). Questo studio però si rivolgeva ai terapeuti e a ciò che essi stessi sapevano delle ricerche online effettuate dai loro pazienti.

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Indagini specifiche dirette per chiedere ai pazienti che tipo di informazioni avessero cercato online sui terapeuti non esistono (Zur & Donner, 2009), se non per un recente studio (Keely Kolmes, Daniel O. Taube,, 2016), in cui si è chiesto direttamente ai pazienti che cosa avessero cercato online sui loro terapeuti e l’impatto che la ricerca di tali informazioni avesse avuto sulla loro idea del terapeuta e sull’esperienza psicoterapeutica.

Si tratta di uno studio condotto online per esplorare le esperienze dei clienti che hanno intenzionalmente cercato, o accidentalmente trovato, informazioni personali sul loro psicoterapeuta o dati del professionista su Internet. L’annuncio per il reclutamento era il seguente: “Per essere eleggibili per lo studio, si deve essere maggiorenni, attualmente (o in passato) in psicoterapia, e aver trovato o cercato informazioni sul proprio terapeuta su Internet. “

I ricercatori hanno chiesto ai professionisti di diffondere questo annuncio sui vari siti di social media, blog, Twitter, Facebook, forum di consulenza per la salute mentale e listservs (liste e-mail chiuse create per offrire sostegno alle persone in psicoterapia per varie questioni). E’ stata anche creata una pagina Facebook per promuovere il reclutamento.

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Lo studio è stato costruito per sapere di più su come e dove si verifica questo tipo di  ricerca online, ciò che ha portato i pazienti a condurre le loro ricerche, e come essi hanno scoperto le informazioni su Internet, nonché le influenze che tutto questo ha avuto sulla loro visione del terapeuta e dei suoi trattamenti.

Il campione ha contato 488 persone intervistate, di cui solo 349 hanno completato il questionario (tasso di completamento 71,5%). Sono state poi filtrate le risposte per includere solo coloro che avevano dichiarato di aver trovato le informazioni personali e professionali del loro terapeuta on-line, il che ha portato il numero totale a 332 partecipanti.


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Risultati:

I risultati di questo studio supportano la convinzione per cui la privacy dello psicoterapeuta può essere compromessa su Internet e che i confini personali e professionali stanno diventando sempre più tenui.

Questi risultati confermano anche la perdita di controllo sulla comunicazione di informazioni personali on-line e l’incapacità di mettere un limite a queste rivelazioni, come si potrebbe fare quando si rilascia volontariamente una dichiarazione, facendo molta attenzione ai termini utilizzati, in vista dell’impatto che essi potrebbero avere su uno specifico paziente.

I pazienti sono a conoscenza di molti dati personali sugli psicoterapeuti. Spesso queste scoperte sono il risultato di ricerche intenzionali di informazioni sullo psicoterapeuta.

Non ci sono state differenze statisticamente significative tra coloro che cercavano questi dati online, in termini di genere sessuale, età, anni su Internet, e quasi tutte le altre dimensioni misurate. Si è notata tuttavia una maggiore probabilità di scoperta di informazioni online per quanto riguarda i partecipanti alle terapie di gruppo, i quali hanno cercato notizie anche sugli altri partecipanti al gruppo.

Il tipo di informazioni più comuni riguardavano la composizione della famiglia del terapeuta. Tali risposte sottolineano la necessità per gli psicoterapeuti di prendere in considerazione non solo ciò che condividono online, ma anche le informazioni condivise dai loro familiari, e come queste potrebbero influenzare i loro pazienti.

Queste potenziali conseguenze possono consigliare agli psicoterapeuti di: (a) non utilizzare i loro nomi completi per attività non professionali connesse ai social networking; (b) prendere in considerazione anche i collegamenti con i membri della propria famiglia, dal momento che questo può portare i clienti curiosi ai profili dei membri della famiglia del terapeuta.

La ragione principale per la ricerca di informazioni è stata la curiosità, ma un piccolo gruppo ha cercato informazioni specifiche che non sono state poi riferite allo psicoterapeuta.

Queste risposte evidenziano che sta diventando molto difficile per i professionisti che desiderano essere una tabula rasa per i loro pazienti. I terapeuti dovrebbero comprendere questo cambiamento fondamentale nel controllo sulle loro informazioni personali e anticipare questo tipo di ricerca. Essi dovrebbero anche capire che i pazienti possono scegliere se iniziare, o continuare una terapia, anche sulla base di ciò che viene rivelato loro da queste ricerche.

Quasi tre quarti di coloro che hanno cercato informazioni personali non raccontano al terapeuta cosa hanno cercato. I dati qualitativi suggeriscono che ciò è dovuto a vergogna o imbarazzo, preoccupazioni per la rabbia del professionista, o altre reazioni negative, e il sentirsi vulnerabili a interpretazioni negative di questo comportamento.

Anche se alcune delle scoperte sembrano aver avuto un impatto negativo sulla figura del terapeuta e sul suo metodo di cura, la maggior parte delle persone ha riferito impatti neutri o addirittura positivi.

Più di un terzo dei partecipanti che ha smesso di cercare informazioni lo ha fatto perché riteneva di aver superato il limite, e più di un quarto si è fermato a causa di un personale disagio con questo tipo di ricerca. I pazienti devono dunque essere incoraggiati a portare in terapia tutto quello che sanno del terapeuta e gli eventuali disagi provati dopo aver letto informazioni personali sul terapeuta che non erano a loro conoscenza, perché questo rafforza l’alleanza terapeutica.

Un esempio è la politica sociale dei media creato da Kolmes (2010) che indica una serie di situazioni che si possono verificare tra psicoterapeuta e paziente, in modo da facilitare atteggiamenti e conversazioni. In alternativa, gli psicoterapeuti potrebbero indicare delle regole di comportamento: “Così come possiamo incontraci al di fuori del mio studio professionale, lei può imbattersi nei miei post su Internet. Se vede qualcosa e vuole parlarne, è invitato a parlarne durante le nostre sedute”.

Tra i pochi che hanno condiviso le loro scoperte con gli psicoterapeuti, le risposte qualitative hanno suggerito che lo hanno fatto anche per consigliare gli psicoterapeuti ad una migliore protezione della loro privacy. Questo aspetto è un interessante fenomeno contemporaneo su come i pazienti possano dimostrare protezione e cura per i loro terapeuti. Tradizionalmente ciò accadeva quando i terapeuti erano notoriamente malati o in difficoltà, ma l’attenzione per la privacy violata del clinico è un modo più moderno per i pazienti in psicoterapia di mostrare protezione per il terapeuta.

E’ importante “normalizzare” la curiosità dei pazienti facendo loro notare quanto sia naturale provare curiosità e fare ricerche online: questo rafforza l’alleanza terapeutica e permette ai pazienti di comprendere ed esplorare il loro comportamento. C’è dunque un motivo in più per introdurre politiche sull’uso dei social media all’inizio del trattamento e di fare in modo che i mezzi di comunicazione sociale non si sovrappongono durante il trattamento.

I casi di ricerca ossessiva di informazioni sui terapeuti è molto rara. Per ulteriori informazioni su stalking e psicoterapeuti, vedere Sandberg, McNiel, e Binder (2002).Per la maggior parte dei partecipanti, la ricerca di informazioni on-line sul clinico era o neutra o capace di migliorare le proprie credenze sugli atteggiamenti del terapeuta. Un quarto degli intervistati, tuttavia, ha riferito angoscia e disagio e una parte minore ha notato che queste conoscenze hanno interferito negativamente sulla terapia.

 

Alcuni partecipanti hanno indicato che Internet sta diventando una via per evitare conversazioni imbarazzanti. Ad esempio un paziente ha cercato di capire se un terapeuta era un membro della stessa chiesa: questo è un esempio di conversazione utile, che potrebbe però creare disagio, se discusso apertamente.

I clinici devono dunque capire meglio come gestire la loro presenza online in modo da ridurre al minimo intrusioni evitabili nella loro privacy. Alcuni modi per farlo sono: corsi di formazione che affrontino gli aspetti clinici, etici e tecnici di una presenza online; l’assunzione di un consulente tecnico capace di controllare le impostazioni sulla privacy per i siti di social media.

E’ una buona idea chiedere ai propri familiari di essere più selettivi nella condivisione di foto che espongono altri membri della famiglia, tra cui lo psicoterapeuta. E’ assolutamente indispensabile evitare richieste di amicizia da parte di sconosciuti.

Un altro suggerimento è chiedere ai pazienti nella fase iniziale del trattamento quale è il loro uso dei social media e riconoscere che ci si può leggere reciprocamente sui social networking, in modo che queste informazioni non diventino un tabù.

E’ consigliabile chiedere ai pazienti come sono venuti a sapere del terapeuta e chiedere se hanno visitato il sito web del clinico.

Va da sé che un terapeuta che parla su Twitter di argomenti attinenti alla professione fa un altro effetto rispetto ad un altro terapeuta che conversa su Twitter con il servizio clienti del suo operatore telefonico.

Dr. Giuliana Proietti

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Fonte:

Keely Kolmes, Daniel O. Taube, Client Discovery of Psychotherapist Personal Information Online, University San Francisco CA, 2016

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