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Guerra e disturbo post traumatico da stress

Guerra e disturbo post traumatico da stress

Guerra e disturbo post traumatico da stress

Dr. Walter La Gatta

ANCONA FABRIANO TERNI CIVITANOVA MARCHE E ONLINE

Tariffe Psicoterapia

Il Disturbo Post Traumatico da Stress (DPTS) è una condizione psicologica debilitante che può svilupparsi dopo aver vissuto o assistito a eventi traumatici estremi. La guerra, con la sua crudele realtà di violenza, perdita e distruzione, è uno degli scenari più comuni in cui il DPTS emerge. Ne parliamo in questo articolo.

Comprendere il Disturbo Post Traumatico da Stress

Il DPTS è caratterizzato da una serie di sintomi che possono manifestarsi dopo l’esposizione a un trauma. I principali sintomi sono i seguenti:

– Rivivere il trauma attraverso flashback, incubi o pensieri intrusivi ricorrenti.
– Evitamento di luoghi, persone o attività che ricordano l’evento traumatico.
– Sentirsi costantemente in allerta, avendo difficoltà a dormire, irritabilità o scoppi d’ira.
– Sentimenti di colpa, vergogna, distacco dagli altri, e perdita di interesse in attività ritenute precedentemente piacevoli.

Psicolinea 20+anni di attività

Guerra e DPTS

La guerra rappresenta un’esperienza traumatica intensa che può lasciare cicatrici profonde nella psiche dei soldati e dei civili. I fattori che contribuiscono allo sviluppo del DPTS nei contesti bellici riguardano in primis l’esposizione alla violenza: ad esempio testimoniare o partecipare a combattimenti, vedere amici e commilitoni feriti o uccisi, infliggere violenza ad altre persone.
Inoltre, la mancanza di sicurezza, le condizioni di vita precarie,  l’isolamento dalle famiglie e dalle comunità, l’incertezza per il pericolo imminente e la costante vigilanza, necessaria per sopravvivere, possono portare a un’iperattivazione persistente del sistema nervoso e influire sulla salute mentale della persona esposta a tutto ciò.

Come curare i sintomi specifici nei Veterani di Guerra?

I veterani di guerra possono manifestare sintomi di DPTS che includono incubi ricorrenti delle battaglie vissute, flashback che li fanno sentire come se stessero rivivendo gli eventi traumatici e un’acuta sensibilità ai rumori forti o agli improvvisi cambiamenti nell’ambiente, che possono innescare risposte di panico.

Affrontare il DPTS richiede un approccio integrato che combina terapie psicologiche, interventi farmacologici e supporto sociale. Alcune delle principali modalità di trattamento includono:

– La terapia cognitivo comportamentale, che aiuta i pazienti a identificare e modificare i pensieri negativi e le credenze distorte legate al trauma.
– Desensibilizzazione e Rielaborazione attraverso i Movimenti Oculari (EMDR): questo approccio utilizza i movimenti oculari per aiutare i pazienti a elaborare e integrare i ricordi traumatici.
– La terapia di esposizione prolungata: che consiste nell’esporre gradualmente i pazienti ai ricordi traumatici in un ambiente sicuro e controllato, per ridurre la loro paura e ansia.
– Farmacoterapia: Gli antidepressivi e gli ansiolitici possono essere utilizzati per gestire i sintomi di DPTS, anche se non sono una cura definitiva.
– Supporto sociale e gruppi di sostegno: il legame con altri veterani o individui che hanno vissuto esperienze simili può fornire un senso di comunità e comprensione, fondamentale per il recupero.

Si può prevenire il DPTS in guerra?

La prevenzione del DPTS nei contesti bellici è complessa ma cruciale. Programmi di addestramento che includono la preparazione psicologica, il supporto durante il servizio e l’assistenza immediata post-trauma possono ridurre l’incidenza e la gravità del DPTS. Inoltre, è importante sensibilizzare l’opinione pubblica e promuovere la comprensione del DPTS per aiutare a ridurre lo stigma associato a questa condizione e incoraggiare più veterani a cercare aiuto per i loro problemi.

Infine, non va dimenticata la selezione: molti soldati sviluppano la sindrome perché hanno delle precedenti fragilità psicologiche, dovute ad altre cause, che evidentemente non sono state riconosciute.

IPNOSI CLINICA: una intervista al Dr. Walter La Gatta

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Tariffe Psicoterapia

L’importanza della selezione dei soldati

Nel 2013 Bruce Dohrenwend e colleghi della Columbia’s Mailman School of Public Health and del New York State Psychiatric Institute hanno scoperto che, alla base della sindrome del disturbo post traumatico da stress nei soldati, vi sono sicuramente le esperienze traumatiche della guerra, ma anche altri fattori, come una pre-esistente vulnerabilità psicologica di base.

I ricercatori hanno riesaminato i dati da un subcampione di 260 veterani uomini del National Vietnam Veterans Readjustment Study. Tutti i veterani del subcampione erano stati sottoposti  a degli esami diagnostici circa l’insorgenza del disturbo e la sua persistenza, 11 a 12 anni dopo la fine della guerra.

Dohrenwend e colleghi si sono concentrati sui ruoli dei tre fattori primari:

  • severità dell’esposizione a scene di guerra (esperienze o eventi traumatici durante il combattimento),
  • vulnerabilità psicologica pre-guerra (ad es. abuso fisico nell’infanzia, storia familiare di abuso di sostanze) 
  • coinvolgimento nel provocare danni a civili e prigionieri.

I dati hanno indicato che per l’insorgenza della sindrome del DPTS è necessaria l’esposizione a scene di guerra stressanti (il 98% dei veterani che avevano sviluppato la sindrome aveva sperimentato uno o più eventi traumatici), ma queste esperienze da sole non sono sufficienti per generare il disturbo post traumatico da stress: la prova è che molti soldati esposti a scene drammatiche di guerra, non hanno sviluppato il disturbo.

Infatti, dei soldati che avevano sperimentato esposizioni potenzialmente traumatiche al combattimento, solo il 31,6% aveva sviluppato la sindrome di DPTS. Quando i ricercatori hanno limitato la loro analisi ai soli soldati che avevano sperimentato le esposizioni traumatiche più gravi, si è visto che c’era ancora una quota abbastanza consistente — circa il 30% — che non aveva sviluppato la sindrome. Questo suggerisce che vi siano altri fattori e altre vulnerabilità coinvolte che portano allo sviluppo del DPTS.

Tra questi fattori, di grande importanza sono le esperienze di abuso fisico nell’infanzia, o disturbi psichiatrici pre-esistenti.

Anche l’età ha un ruolo importante: gli uomini che avevano meno di 25 anni quando si sono trovati per la prima volta in un teatro di guerra avevano sette volte maggiori probabilità di sviluppare il DPTS rispetto agli uomini più anziani. I ricercatori hanno anche scoperto che i soldati che hanno inflitto danni a civili o prigionieri avevano maggiori probabilità di sviluppare il DPTS.

Se la gravità dell’esposizione al combattimento rimane il più forte predittore sulla possibilità o meno di sviluppare la sindrome, la vulnerabilità psicologica anteguerra è risultata altrettanto importante nel predire la persistenza della sindrome nel lungo periodo.

Questi risultati sottolineano la necessità di far si che i soldati più vulnerabili siano tenuti lontano dalle più gravi situazioni di combattimento.

Dohrenwend e colleghi ritengono utile che vi siano delle inchieste che permettano di capire cosa realmente i soldati si trovano a dover fare ai civili e ai prigionieri. Tale ricerca potrebbe fornire indizi importanti, anche per prevenire le devastanti violazioni delle regole della guerra.

Fonte principale:
Why Some Soldiers Develop PTSD While Others Don’t, Health Canal

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Antoine de Saint-Exupery: una biografia
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Storia delle fobie

Storia delle fobie

Le fobie nella storia dell’essere umano

Psicolinea 20+anni di attività

Le fobie, cioè le paure irrazionali e persistenti verso specifiche situazioni, oggetti o attività, sono state una costante nella storia dell’umanità. Sebbene possano sembrare un fenomeno moderno, le fobie hanno radici profonde che risalgono a tempi antichi. Vediamo di conoscerle meglio.

Le Fobie nell’Antichità

Nell’antica Grecia e Roma, le fobie erano spesso associate alla sfera del divino e del soprannaturale. Gli antichi Greci, per esempio, credevano che le fobie fossero causate dalla volontà degli dèi. Il termine stesso “fobia” deriva dal greco “phobos”, che significa “paura” o “panico”, ed era anche il nome del dio greco della paura. I romani, d’altro canto, spesso attribuivano le paure irrazionali a influenze soprannaturali o maledizioni.

La prima testimonianza scritta sulle fobie si deve, nel V secolo AC ad Ippocrate, medico greco antico, considerato il “padre” della medicina, il quale descrisse in maniera accurata sia il delirio, sia le fobie (egli descrisse in particolare due casi di fobie: uno di fobia del crepuscolo e l’altro di fobia in presenza di ponti, precipizi e fossati).

Tra le testimonianze della Roma classica sul tema delle fobie, conosciamo la paura irrazionale di Caligola per i fulmini, e di Augusto per il buio. In Celio Aureliano troviamo descrizioni di soggetti che temevano grotte e baratri (Salkovskis & Hackmann, 1997).

Dr. Walter La Gatta

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Medioevo e Rinascimento

Durante il Medioevo, le fobie erano interpretate come manifestazioni di influenze demoniache o come punizioni divine. Le persone che soffrivano di paure irrazionali potevano essere sospettate di stregoneria o possessione demoniaca.

Per questi motivi, le fobie divennero di pertinenza ecclesiastico-religiosa, in quanto venivano considerate espressioni della possessione di uno spirito estraneo.

La concezione medioevale permase fino a che Cartesio nella sua opera “Le passioni dell’anima” sottolineò la relazione fra pensiero e comportamento, indicando come quest’ultimo conseguisse alle esperienze precoci dell’infanzia, che rimangono impresse nell’essere umano per tutta la vita.

Con il Rinascimento e la riscoperta del pensiero scientifico e filosofico classico, si iniziò a considerare le fobie da una prospettiva più razionale. Medici e filosofi come Paracelso iniziarono a esplorare le cause naturali delle malattie mentali, inclusi i disturbi d’ansia.

Età Moderna e Contemporanea

Dal punto di vista scientifico, le fobie vennero incluse nel dominio della scienza medica solamente tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo.

Con l’avvento della psichiatria moderna nel XIX secolo, le fobie iniziarono a essere classificate e studiate sistematicamente.

Questi i primi tentativi di classificazione utilizzati:

– “mania senza delirio” (Pinel, 1745-1826);
– “insanità parziale” (Esquirol, 1772-1840);
– “pseudo-monomania” (Delasiauve, 1804-1893);
– “follia lucida” (Trelat, 1828-1890);
– “predisposizione morbosa del sistema ganglionare viscerale” (Morel, 1809-1873);
– “vertigine mentale” (Laségue, 1816-1883);

Emil Kraepelin e Sigmund Freud furono tra i primi a sviluppare teorie dettagliate sulle fobie. Nel 1913 Kraepelin incluse nel suo trattato un piccolo capitolo sulle paure irresistibili e sulle idee insopprimibili, senza però separare i fenomeni fobici da quelli ossessivo-compulsivi. Freud, invece, considerava le fobie come manifestazioni di conflitti psichici inconsci e utilizzava la psicoanalisi per trattarle.

Sigmund Freud

Sigmund Freud parlò di “nevrosi fobiche”, il cui significato era inconscio e riguardava in particolare desideri sessuali e aggressivi.

Questi desideri sessuali e aggressivi, provenienti da pulsioni istintuali, risultano spesso inaccettabili alla coscienza. Il soggetto che li prova ha dunque bisogno di “liberarsene”, in qualche modo. Come può fare? La modalità individuata da Freud è quella dell’utilizzo del meccanismo di difesa della “proiezione”. Attraverso questo meccanismo, il soggetto riesce a “proiettare” parte della carica psichica legata a tali pulsioni su “oggetti” esterni (che possono essere oggetti, persone, situazioni..).

Ciò che veniva temuto dal soggetto dunque non era interno, ma esterno: è “ l’oggetto fobico” che simboleggia i desideri pulsionali illeciti, ed è sempre “ l’oggetto fobico” che viene temuto per le eventuali conseguenze punitive (es. castrazione e perdita di amore). Dunque, evitando “ l’ oggetto fobico”, si riesce ad evitare tutti i conflitti interni, tutte le paure.

Nella paura della folla, ad esempio; Freud intravedeva il desiderio inconscio di un incontro proibito nel cuore di quella stessa moltitudine, percepita per questo minacciosa. Stesso discorso per le fobie sviluppate per oggetti specifici: anch’esse sarebbero legate ad un simbolismo inconscio (es. coltello-fallo).

Freud riteneva che alle fobie non andasse assegnato un posto preciso nella classificazione dei disturbi psichici (o, meglio, “nevrotici”). Le fobie infatti non erano per lui processi patologici indipendenti, ma rientravano nella descrizione di alcune forme di nevrosi.

Fobie nel Mondo Moderno

Nel XX secolo, il comportamento condizionato, descritto da John B. Watson e B.F. Skinner, contribuì a spiegare come le fobie potessero essere apprese attraverso esperienze traumatiche o associazioni negative.

Le fobie ottennero un’etichetta diagnostica definita e autonoma solamente nel 1947, con l’International Classification of Diseases (ICD), e nel 1952 con la classificazione dell’American Psychiatric Association (Diagnostic and Statistical Manual, DSM).

Si dovettero aspettare gli anni Sessanta-Settanta dello scorso secolo per iniziare delle ricerche specifiche sull’origine, la persistenza ed il trattamento delle fobie.

Negli anni ‘80-’90, l’attenzione degli studiosi fu posta sul ruolo dei fattori cognitivi e sull’identificazione degli aspetti consci che condizionano l’interazione con lo stimolo fobico, e questo ha mostrato che l’irrazionalità che caratterizza le fobie è in realtà solo apparente (Davey,1997).

Infine, nell’ultimo decennio del Novecento si è giunti ad una classificazione condivisa a livello internazionale (DSM-IV, 1994; ICD-10, 1992) delle fobie, suddivise in fobie specifiche (animali, oggetti, agenti atmosferici, ecc.) e fobie generalizzate (agorafobia con o senza panico e fobia sociale), tutte inserite nei disturbi d’ansia.

Oggi, le fobie sono riconosciute come disturbi d’ansia trattabili con una varietà di approcci terapeutici. La terapia cognitivo-comportamentale è tra i trattamenti più efficaci, aiutando le persone a identificare e modificare i modelli di pensiero negativi associati alle proprie paure. Inoltre, vengono utilizzate tecniche come l’esposizione graduale e la desensibilizzazione sistematica.

Gli studi sul cervello hanno rivelato che strutture come l’amigdala e l’ippocampo giocano un ruolo cruciale nella risposta di paura, quindi siamo ben lontani dalle manifestazioni di ira divina o influenze demoniache dalle quali è partita la ricerca umana.

Dr. W. La Gatta

Una intervista sulla Timidezza

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Pericolo: uomini e donne rispondono in modo diverso

Uomini e donne rispondono in modo diverso al pericolo


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Usando la tecnica della risonanza magnetica (fMRI) per studiare le attività del cervello, alcuni ricercatori hanno scoperto che uomini e donne rispondono in modo differente agli stimoli positivi e negativi. Lo studio è stato presentato oggi al meeting annuale della Società di Radiologia del Nord America (RSNA).

“Gli uomini possono prestare maggiore attenzione agli aspetti sensoriali degli stimoli emotivi e tendono ad elaborare questi stimoli in termini di implicazioni per le azioni necessarie, mentre le donne rivolgono la loro attenzione alle sensazioni generate da questi stimoli” ha affermato Andrzej Urbanik, ricercatore presso la cattedra di Radiologia nell’Ospedale universitario di Cracovia, in Polonia.

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Per lo studio, il Dr. Urbanik ed i suoi colleghi hanno reclutato 40 persone non mancine, 21 uomini e 19 donne, di età compresa fra 18 e 36 anni. I volontari si sono sottoposti a fMRI mentre osservavano immagini comunemente utilizzate per generare particolari stati emotivi (International Affective Picture System – IAPS). Nella prima parte sono state mostrate immagini della vita ordinaria che generavano sentimenti ed emozioni negative, nella seconda parte si è dato spazio alle emozioni positive.

Le donne, vedendo le immagini della prima parte, hanno mostrato una maggiore e più intensa attivazione della zona del talamo di sinistra, che trasmette le informazioni sensoriali da e verso la corteccia cerebrale, ivi compresi i centri del dolore e del piacere. Gli uomini hanno invece mostrato una maggiore attivazione nell'”insula” di sinistra, che si interessa del mantenimento dello stato fisiologico di tutto il corpo e che genera sensazioni soggettive che possono portare a delle azioni. Le informazioni derivanti dall’insula raggiungono altre strutture cerebrali coinvolte con il processo decisionale.

“L’attivazione cerebrale osservata nelle donne può indicare un maggiore coinvolgimento del circuito neurale, associato con l’identificazione degli stimoli emotivi”, ha affermato il Dr. Urbanik precisando che “L’attivazione più pronunciata della corteccia insulare negli uomini potrebbe essere dovuta a componenti autonome, come un più elevato battito cardiaco o una maggiore sudorazione, che accompagnanp la visione di materiale emotivo.

Il sistema nervoso autonomo controlla le funzioni involontarie, come la respirazione, il battito cardiaco e la digestione, ed aiuta nel regolare determinate funzioni in risposta allo stress o agli stimoli ambientali. E’ responsabile delle condotte di attacco e di fuga nelle situazioni di minaccia.

“Negli uomini le immagini negative mostrate erano più potenti nell’attivare il sistema nervoso autonomo, il che potrebbe significare che quando gli uomini si confrontano con una situazione pericolosa, sono maggiormente predisposti a passare all’atto di quanto non siano le donne”.

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Clinica della Coppia

Nel vedere le immagini positive le donne hanno risposto in maniera più forte degli uomini quanto ad attivazione della parte superiore destra del giro temporale, che si interessa dei sistemi auditivi e della memoria. Gli uomini hanno mostrato maggiore attivazione nei lobi bilaterali occipitali, che sono associati con l’elaborazione visiva.

In conclusione, il Dr. Urbanik ritiene che queste differenze indicano che le donne possono analizzare gli stimoli positivi in un contesto sociale più ampio ed associare le immagini positive con un particolare ricordo. Ad esempio, vedere la foto di un bambino piccolo che sorride, fa ricordare loro i propri figli, quando avevano quell’età, mentre gli uomini hanno una risposta più percettiva.

Fonte: Eurekalert

Links:
RadiologyInfo.org.
Radiological Society of North America

Dott.ssa Giuliana Proietti

Intervento del 14-09-2024 su Sessualità e Terza Età
Dr. Giuliana Proietti

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Giuliana Proietti
Dr. Giuliana Proietti

Dr. Giuliana Proietti
Psicoterapeuta Sessuologa
TERAPIE INDIVIDUALI E DI COPPIA
ONLINE

La Dottoressa Giuliana Proietti, Psicoterapeuta Sessuologa di Ancona, ha una vasta esperienza pluriennale nel trattamento di singoli e coppie. Lavora prevalentemente online.
In presenza riceve a Ancona Fabriano Civitanova Marche e Terni.

  • Delegata del Centro Italiano di Sessuologia per la Regione Umbria
  • Membro del Comitato Scientifico della Federazione Italiana di Sessuologia.

Oltre al lavoro clinico, ha dedicato la sua carriera professionale alla divulgazione del sapere psicologico e sessuologico nei diversi siti che cura online, nei libri pubblicati, e nelle iniziative pubbliche che organizza e a cui partecipa.

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  • 29 Nov 2009
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La claustrofobia e il suo legame con la prossemica

La claustrofobia e il suo legame con la prossemica

La claustrofobia e il suo legame con la prossemica

Relazione sulle Coppie Non Monogamiche

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Cosa è la claustrofobia?

La claustrofobia è un disturbo d’ansia e riguarda ,la paura irrazionale di non avere scampo o di essere chiusi in qualche luogo, senza avere la possibilità di respirare.

Come viene elencata nel manuale diagnostico e statistico degli psichiatri?

Il Manuale diagnostico e statistico (DSM-5) la considera una fobia specifica.

IPNOSI CLINICA: una intervista al Dr. Walter La Gatta

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ANCONA FABRIANO TERNI CIVITANOVA MARCHE E ONLINE
 

Tariffe Psicoterapia

Quali sono i fattori scatenanti di questa fobia?

I fattori scatenanti più frequenti sono l’essere all’interno di un ascensore, in una piccola stanza senza finestre, o in aereo. Si tratta tuttavia di sensazioni individuali: ad esempio, alcune persone hanno riferito che indossare abiti a collo stretto può provocare loro un senso di claustrofobia.

Cosa significa “claustrofobia”?

La parola claustrofobia deriva dalla parola latina claustrum che significa “luogo chiuso” e dalla parola greca phobos che significa “paura”.

Come si comporta, di solito, un soggetto claustrofobico?

Le persone con claustrofobia evitano accuratamente tutte le situazioni che scatenano in loro ansia e panico: evitano, ad esempio, la metropolitana, o preferiscono salire le scale piuttosto che prendere l’ascensore. Infatti, sentirsi in uno spazio ristretto può innescare la paura di non essere in grado di respirare correttamente, di rimanere senza ossigeno e di morire.

In particolare, un soggetto claustrofobico potrebbe:

  • controllare le uscite, collocandosi sempre vicino ad esse quando sono in una stanza
  • sentirsi in ansia quando tutte le porte sono chiuse
  • evitare di guidare o viaggiare come passeggeri quando c’è molto traffico

Dr. Walter La Gatta

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Tariffe Psicoterapia

Quali altri luoghi causano sensazioni di ansia per i claustrofobici?

Generalmente i luoghi più temuti sono i seguenti:

  • ascensori
  • camerini di prova nei negozi di abbigliamento
  • gallerie, scantinati o cantine
  • treni e metropolitane
  • porte girevoli
  • aeroplani o treni
  • bagni pubblici sotterranei
  • stanze piccole, stanze chiuse o stanze con finestre che non si aprono

Quando compaiono i primi sintomi?

I sintomi di solito compaiono, in genere, durante l’infanzia o l’adolescenza.

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Quali sono i sintomi?

I sintomi della claustrofobia sono i seguenti:

  • sudorazione e brividi
  • battito cardiaco accelerato e pressione alta
  • vertigini, svenimento e stordimento
  • bocca asciutta
  • iperventilazione o “respirazione eccessiva”
  • vampate di calore
  • tremore
  • nausea
  • mal di testa
  • intorpidimento
  • sensazione di soffocamento
  • senso di costrizione toracica, dolore toracico e difficoltà respiratorie
  • bisogno di andare in bagno
  • confusione o disorientamento

Come si cura la claustrofobia?

Il trattamento considerato più efficace è la terapia cognitivo comportamentale (CBT), che può essere utilizzata per ridurre la frequenza e la potenza dei fattori scatenanti.

L’obiettivo di questa terapia è fare in modo che il paziente non si senta più minacciato dai luoghi temuti. Ciò si può ottenere attraverso l’esposizione graduale a piccoli spazi e indicando diversi strumenti per affrontare la paura e l’ansia. Il trattamento dura in genere 10/20 sedute. 

Terapia farmacologica: nei casi più gravi possono essere d’aiuto antidepressivi e rilassanti, che aiutano a gestire i sintomi, ma non risolvono il problema sottostante.

C’è qualche suggerimento utile?

Le strategie che possono aiutare le persone per far fronte a un attacco d’ansia legato alla claustrofobia sono:

  • rimanere fermi se si verifica un attacco, chiudere gli occhi e aspettare che passi;
  • se si guida, accostarsi al lato della strada e attendere che i sintomi siano passati;
  • cercare di concentrarsi su qualcosa che non è sentito come minaccioso, ad esempio un paesaggio, un quadro, ecc.

respirare lentamente e profondamente, contando fino a tre per ogni respiro

I consigli forniti sono sicuramente utili, ma ovviamente saranno più efficaci se inseriti in un programma di psicoterapia.

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C’è un legame fra claustrofobia e prossemica?

Si. Chiariamo che la prossemica è una disciplina che studia il nostro “spazio personale”, cioè come ci muoviamo nello spazio che ci circonda.

Le persone che hanno una maggiore fobia claustrofobica hanno un esagerato senso dello spazio personale, cioè sono abituate a pensarsi in spazi esageratamente grandi e poco affollati: questa distorsione nella percezione dello spazio intorno a sé può portare alla fobia.

In questo senso, può essere utile cercare di abituarsi a stare in luoghi percepiti come sicuri, possibilmente stretti o con soffitti bassi, per abituarsi a vivere in una bolla d’aria più ristretta, rispetto a quelle che sono le proprie aspettative.

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  • 22 Feb 2022
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Come cancellare i pensieri negativi dalla mente

Come cancellare i pensieri negativi dalla mente

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Molte persone credono che sia impossibile ridurre i pensieri negativi perché questi sembrano automatici e fuori controllo. Tuttavia, con strategie come la mindfulness, la ristrutturazione cognitiva e il supporto terapeutico, è possibile gestirli e ridurne l’impatto sulla vita quotidiana. Molto si può fare anche da soli.

Il desiderio sessuale nella donna infertile
Relazione presentata al Congresso Nazionale Aige/Fiss del 7-8 Marzo 2025 a Firenze. 

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Ecco qualche consiglio utile per gestire e ridurre i pensieri negativi:

1. Riconoscere i propri pensieri negativi, ma senza giudicarli. La mindfulness insegna a osservare i pensieri come semplici eventi mentali, senza lasciarsi coinvolgere emotivamente. Accettare i pensieri negativi. Essi non possono essere sempre evitati, ma si può scegliere di lasciarli passare senza esserne travolti.

2.  Analizzare i pensieri negativi e chiedersi se sono realmente fondati. Provare a trovare prove che contraddicono questi pensieri e a sostituirli con pensieri positivi, almeno fino ad avere una reale conferma (o più di una…) che i pensieri negativi erano giusti.

3. Focalizzarsi sugli aspetti positivi della propria vita. Tenere un diario può aiutare a concentrarsi su ciò che è positivo nella propria vita. Ad esempio:

Scrivere il pensiero disturbante, illustrando tutti gli esiti negativi che esso porta a immaginare (es. perdita del lavoro, povertà, solitudine, ecc.) e poi scrivere su un’altra pagina tutti gli esiti positivi che la stessa situazione potrebbe comportare (es. trasferimento in altra città, nuove amicizie, aria più pulita, ecc.). Questo è un esercizio da fare tutti i giorni, per ogni pensiero negativo.

4. Fare attività fisica: può aiutare a ridurre lo stress e migliorare l’umore grazie al rilascio di endorfine.

5. Informarsi su tecniche come la meditazione, la respirazione profonda, il training autogeno e il rilassamento muscolare progressivo: tutte possono aiutare a ridurre e gestire i pensieri negativi.

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6. Dedicare del tempo a hobby e attività che fanno sentire bene.

7. Condividere i propri pensieri con amici, familiari o un/una terapeuta, che può aiutare a cercare una nuova prospettiva di interpretazione di quello che sta accadendo.

8. Cercare di identificare e ridurre i fattori che scatenano i propri pensieri negativi, se possibile.

9. Imparare le tecniche di rilassamento come lo yoga, il tai chi o altre pratiche che combinano movimento e meditazione.

10. Fissare obiettivi raggiungibili può aiutare a costruire fiducia e ridurre i pensieri negativi legati alla sensazione di fallimento.



11. Utilizzare un proprio “mantra” personale, che riesce a tranquillizzarci. Potrebbe essere una frase presa dal training autogeno, come “io sono perfettamente calmo e rilassato”, oppure una frase che ci dicevano i nostri nonni quando eravamo bambini e nella quale abbiamo sempre trovato rassicurazione (es. Non pioverà sempre, prima o poi tornerà il sereno)

12. Distinguere le sensazioni che si provano dai fatti che realmente succedono: non è detto che i copioni si ripetano esattamente identici e non è detto che quello che è successo in passato debba per forza ripresentarsi con le stesse caratteristiche negative. Non lasciarsi influenzare da emozioni che richiamano ricordi dolorosi: la vita cambia e inoltre la vita ci cambia. Nel tempo acquisiamo sempre maggiori competenze e resilienza, per cui anche fossimo davvero costretti a rivivere situazioni già passate, possiamo stare sicuri che sapremmo meglio gestirle.

13. Cercare soluzioni diverse agli stessi problemi. Prendere un quaderno e scrivere tutte le soluzioni diverse che si potrebbero perseguire, anche le più folli e le più improbabili. Una volta fatto questo, prendere in considerazione una a una le soluzioni scritte, dando spazio e tempo anche alle soluzioni che in un primo momento non ci erano sembrate troppo sensate. E’ possibile che con questo esercizio di brainstorming si possa vedere la luce in fondo al tunnel, senza lasciarsi abbattere dai problemi, prima ancora che si presentino.

E’ normale avere pensieri negativi di tanto in tanto, ma se questi pensieri diventano troppo frequenti o invalidanti, potrebbe essere utile cercare l’aiuto di uno psicoterapeuta.

Dr. Walter La Gatta

Relazione sulla Terapia di Coppia dopo un Tradimento - Festival della Coppia 2023

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Dr. Walter La Gatta

Dr. Walter La Gatta

Psicologo Psicoterapeuta Sessuologo
Delegato Regionale del Centro Italiano di Sessuologia per le Regioni Marche Abruzzo e Molise.
Libero professionista, svolge terapie individuali e di coppia
ONLINE E IN PRESENZA (Ancona, Terni, Fabriano, Civitanova Marche)

Il Dr. Walter La Gatta si occupa di:

Psicoterapie individuali e di coppia
Terapie Sessuali
Tecniche di Rilassamento e Ipnosi
Disturbi d’ansia, Timidezza e Fobie sociali.

Per appuntamenti telefonare direttamente al:
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