Freud e Vienna: un amore-odio

Freud e Vienna: un amore-odio

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Ancora oggi, una delle attrazioni turistiche principali di Vienna è Berggasse 19, la casa di Sigmund Freud. Freud e Vienna, infatti, sono un binomio inscindibile, seppure lo psicoanalista non era nato a Vienna,  non era particolarmente “bodenständig” (radicato nel territorio), non vi morì e non vi è nemmeno sepolto.

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Vienna

Al tempo di Freud Vienna era la capitale del vasto impero austro-ungarico, che si estendeva su gran parte dell’Europa orientale e sud-orientale: Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia, Lituania, Balcani.

La gestione amministrativa di questo vasto impero generava frequenti incomprensioni e molta burocrazia (si pensi al Processo di Kafka), anche dovute alla diversità delle lingue locali, diverse dal tedesco (lingua ufficiale) e al multiculturalismo che si tentava timidamente di instaurare.

Il tedesco veniva insegnato nelle scuole superiori come seconda lingua, ma a volte veniva insegnato male come gesto di ribellione, o espressione di una coscienza nazionalista repressa. (Freud si distinse tuttavia per una eccezionale maestria nell’usare la lingua tedesca, come gli venne riconosciuto dalla assegnazione del premio Goethe nel 1930).

Vienna divenne sempre più bella e imponente quando l’imperatore Francesco Giuseppe realizzò il suo programma di costruzione su larga scala tra il 1858 e il 1888. Furono costruiti un nuovo municipio e parlamento in stile neogotico, il Palazzo Imperiale, un teatro dell’opera e un altro teatro, nonché due musei. Questi splendidi edifici erano circondati da un viale circolare e alberato, la Ringstrasse, a cui fu aggiunto un cerchio esterno, chiamato “Gürtel” (tangenziale).

La città traeva anche un certo splendore dal suo ruolo di capitale dell’Impero, sede delle brillanti cerimonie di corte e sede del potere. Vienna aveva una concorrente nella città di Budapest, ma Budapest non era minimamente paragonabile a Vienna per quanto riguarda le attività culturali di ogni genere: nel teatro, nella musica, nell’opera, nella letteratura, nelle arti visive, nell’architettura, nella filosofia, nella psicologia, nell’editoria, nell’università, nella scienza e, non da ultimo, nella medicina. Vienna era considerata la culla del moderno, con una forte coesione dell’élite estetica e intellettuale attraverso il fiorire dei caffè, dove le comunità artistiche, accademiche, giornalistiche cominciarono a incontrarsi.

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L’Arte offriva uno sfogo alle energie altrimenti frustrate, un rifugio sicuro dalla confusione improduttiva della politica, l’arena ideale per l’esplorazione di idee provocatorie. Nonostante l’esistenza di una certa massa ostile alla cultura, il coinvolgimento negli sforzi culturali era notevolmente diffuso, specialmente tra la classe media e medio-alta.

Vienna, la politica e gli Ebrei

Il periodo in cui la famiglia Freud si trasferì a Vienna coincise  con un periodo di relativo liberalismo, in quanto il parlamento aveva al tempo scarso potere reale. Il diritto di nominare e revocare i ministri, ad esempio, era prerogativa dell’imperatore, in modo che i ministri fossero responsabili nei suoi confronti, non nei confronti del legislatore.

In quel periodo Vienna fu meta di immigrazione da parte di cittadini provenienti dalle più remote zone dell’Impero.

I viennesi non amavano questi “Zugeraste” che si riversavano nella loro città, gente spesso povera e con famiglie numerose. Li vedevano come elementi alieni che venivano a inquinare i loro spazi. .

Sul fronte politico vennero eletti i liberali, forse per colmare il vuoto creato dalle sconfitte dell’esercito austriaco nel 1859 e nel 1866. La loro base di potere era ristretta, dipendente dalla classe media nei centri urbani come Vienna, ma l’esclusiva aristocrazia cattolica continuò a rimanere molto influente. Il crollo della borsa, nel maggio 1873, diede inizio a una grave e lunga depressione, che gettò i già deboli liberali in un disastroso disordine sociale.

La fragilità del governo ebbe inevitabilmente l’effetto di incoraggiare vari dei disparati gruppi di interesse all’interno dell’impero austro-ungarico a insistere sulle loro rivendicazioni per una maggiore partecipazione politica. I primi tra questi erano gli artigiani urbani, i contadini e i popoli slavi. Ispirati in parte dagli ideali socialisti e in parte dalle aspirazioni nazionaliste, questi gruppi formarono partiti di massa negli anni ’80 dell’Ottocento che raccolsero rapidamente un seguito considerevole.


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Nel 1895 anche Vienna, baluardo del liberalismo, cadde in una coalizione che prese il nome apparentemente innocuo di socialismo cristiano, un nome che velava una spinta antisemita. I pangermanici, che si battevano per una più stretta alleanza tra Austria e Germania, aggiunsero un’ulteriore dimensione alla crescente agitazione.

La vittoria dei socialisti cristiani nel 1895 portò alla nomina di Karl Lueger (1844-1910) a sindaco di Vienna. Dalle origini umili, Lueger era passato dal liberalismo politico al riformismo sociale, per trovare la sua ideologia integrativa finale nell’antisemitismo. Quando l’anziano imperatore in un primo momento si rifiutò di autorizzare la sua nomina, si dice che Freud abbia fumato un sigaro celebrativo.

Ma il trionfo fu di breve durata poiché nel 1897 il riluttante imperatore, sotto la pressione della gerarchia cattolica, ratificò infine l’elezione di Lueger, che segnò la fine formale dell’ascendente liberale. Lueger avviò un decennio esaltando tutto ciò che era anatema per il liberalismo: clericalismo, socialismo e antisemitismo. Il suo unico contributo positivo duraturo fu la costruzione di alloggi municipali a basso costo, per i quali Vienna divenne un modello.

Più estremista di Lueger fu il suo contemporaneo Georg von Schönerer (1842-1921), un aristocratico che si concepiva come il cavaliere-redentore dell’eredità germanica. Sebbene diverso da Lueger per sfondo e scopo, anche Schönerer usò l’estremo antisemitismo come forza di aggregazione.

L’animosità contro i nuovi arrivati ​​fu senza dubbio alimentata dall’antisemitismo endemico di Vienna propagato da Lueger e Schönerer. Molti degli immigrati provenienti dai territori orientali dell’Impero erano, infatti, ebrei.

La designazione “Ostjuden” (ebrei orientali) divenne un termine di rifiuto e abuso. I soggetti provenienti dalla Galizia, in particolare, furono disprezzati perché tendevano ad essere ortodossi nelle loro pratiche religiose. Il loro strano abbigliamento, i rituali esoterici e il linguaggio yiddish suscitavano un disprezzo assoluto che equivaleva all’odio. Si diceva che il loro tedesco fosse svilito da un’intonazione cantilenante in yiddish. Il veleno contro gli “Ostjuden” era così profondamente radicato che persisteva anche per la seconda generazione, molto più acclimatata allo stile di vita della città. Anche portare un nome come “Sarah” era uno stigma e un handicap significativo nella società viennese degli anni ’20.

La famiglia Freud arrivò a Vienna prima della Carta dei Diritti del 1867, un importante prodotto del periodo liberale, che conferiva agli ebrei, de jure se non de facto, l’uguaglianza civile e giudiziaria.  Questo atto portò nuova immigrazione: 1857 a Vienna c’erano 6000 ebrei; nel 1867 divennero 40.000; nel 1880 erano 72.000, e negli anni ’20 gli ebrei rappresentavano l’11 per cento della popolazione, la più alta concentrazione dell’Europa centrale.

 

Gli ebrei occupavano una posizione curiosamente contraddittoria a Vienna: erano centrali nella vita della città ed emarginati allo stesso tempo.

Nonostante il razzismo, tra il 1900 e il 1910, secondo From Prejudice to Persecution: A History of Austrian Antisemitism di Bruce F. Pauley (1991), il 71 percento dei finanzieri di Vienna, il 65 percento dei suoi avvocati, il 63 percento dei suoi industriali, il 59 percento dei suoi medici e oltre il 50 percento dei suoi giornalisti erano ebrei. Gli ebrei gravitavano su queste cosiddette professioni indipendenti per evitare le difficoltà che avrebbero incontrato nella ricerca di un lavoro statale. Tra i 512 membri del parlamento inferiore, tuttavia, solo 10 erano ebrei.

Gli ebrei furono ritenuti responsabili del crollo del mercato azionario del 1873 e di ogni altra battuta d’arresto che si fosse verificata nella società e nell’economia.

Con l’ascesa di Lueger e Schönerer, l’antisemitismo divenne una piattaforma politica fruttuosa, un mezzo per riunire le forze sotto uno slogan accattivante.

Alla luce di queste circostanze, può sembrare sorprendente che gli ebrei abbiano continuato a trasferirsi a Vienna fino al XX secolo. Eppure le condizioni e, soprattutto, le opportunità educative e professionali erano ancora molto migliori che nelle province orientali. L’avanzata russa in Polonia nel 1914 innescò un’ulteriore ondata di immigrati.

Per gli ebrei viennesi, l’antisemitismo era semplicemente accettato come un fatto spiacevole della vita, il prezzo da pagare per il privilegio di godere delle tante sfaccettature positive della città. Una via di fuga era la conversione o il dichiararsi “konfessionslos” (senza religione), assumendo una posizione totalmente secolarizzata, come fecero i Freud.

Forse non sorprende che la città in cui nacque l’ideologia nazista sia stata anche e contemporaneamente la culla del sionismo. Nel 1896 Theodor Herzl (1860-1904) pubblicò il suo importante opuscolo Der Judenstaat (Lo Stato ebraico) in cui sosteneva la necessità di una patria nazionale ebraica. Herzl, che era un eminente giornalista ed editore della sezione letteraria della Neue Freie Presse (Nuova stampa libera), l’illustre giornale liberale di Vienna, era stato a lungo, come tanti ebrei viennesi, un assimilazionista. I suoi quattro anni di attenta osservazione della vita politica e sociale francese mentre era giornalista a Parigi, e in particolare la sua esperienza dell’affare Dreyfus, lo trasformarono però da liberale preoccupato in un crociato per il sionismo.

Queste complicate correnti e controcorrenti della Vienna in cui Freud crebbe e intraprese la sua opera sono sintomi della pericolosa volatilità che portò allo scoppio della prima guerra mondiale e alla successiva dissoluzione dell’impero asburgico.

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L’arrivo a Vienna

Le speranze di una vita ricca di soddisfazioni attirarono molti immigrati dalle province orientali dell’Impero alla Città dei Sogni. Le opportunità educative e professionali erano di gran lunga maggiori, sia per ampiezza di orizzonti che per livelli di rendimento, rispetto alle aree più remote.

Non è difficile capire perché famiglie come i Freud decidessero di trasferirsi a Vienna. Jacob Freud, un mercante di lana, non prosperava a Freiberg, una cittadina della Moravia, una delle province orientali dell’Impero Austro-Ungarico; nel 1855 aveva sposato la sua terza moglie, Amalia Nathanson, che nel 1860, quando si trasferirono,  aveva già dato alla luce un figlio e una figlia.

Sigmund era nato nel 1856, dunque aveva quattro anni quando arrivò a Vienna, dove visse e lavorò fino al 1938, l’anno prima della sua morte, sotto la minaccia della minaccia nazista.

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I genitori di Freud si stabilirono dapprima nel secondo distretto di Vienna, Leopoldsstadt, il fulcro della vita ebraica, per non dire il ghetto. La generazione successiva si trasferì nel nono distretto, vicino al Ring, all’università, al municipio e al nucleo centrale. Lì vivevano fianco a fianco con vicini non ebrei di simile posizione sociale e finanziaria. Il progresso dei nuovi arrivati ​​è riscontrabile anche dall’esplosione di iscrizioni ebraiche all’università di Vienna negli anni ’70 dell’Ottocento.

I Freud, non osservanti, avevano dato ai loro figli nomi non contaminati da associazioni con l’Antico Testamento: Sigmund, Anna, Rosa, Marie, Pauline e Alexander. Essi erano moravi e, come gli ungheresi, erano soggetti a un’ostilità un po’ meno aperta rispetto ai disprezzati galiziani.

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Sigmund Freud a Vienna

Freud era un ebreo particolare: essendo arrivato all’età di quattro anni, non era un “bodenständig” e, in secondo luogo, non avendo mai praticato la sua religione, proibendo addirittura alla moglie di accendere le tradizionali candele del venerdì sera, come lei avrebbe voluto. Eppure non aveva mai ripudiato il suo ebraismo. Nel 1897 entrò a far parte della “loggia” locale di B’nai Brith, un’associazione culturale e filantropica ebraica internazionale, dove tenne conferenze popolari ai suoi fratelli. Sebbene privo di fede religiosa, non fuggì nell’assimilazione totale, come fecero molti ebrei viennesi.

A Vienna era sostanzialmente un immigrato, un cittadino di serie B. Non a caso, la maggior parte dei membri della sua cerchia venivano da fuori: da Berlino (Karl Abraham), da Budapest (Sandor Ferenczi), da Zurigo (Carl Jung), dagli Stati Uniti (Abraham Brill), dalla Gran Bretagna (Ernest Jones), dall’Olanda (Jan van Emden), ecc. Gli aderenti viennesi alla psicoanalisi erano decisamente una minoranza.

L’ interpretazione dei sogni , un’opera considerata fondamentale nella cultura occidentale, passò praticamente inosservata alla sua comparsa nel 1900. Fu difficilmente recensita nelle riviste e Freud ritenne che la maggior parte delle recensioni erano ” idiote” I professionisti lo liquidarono come un mucchio di favole. Nei suoi primi sei anni il libro vendette 351copie.

Man mano che si sparse la voce sulle sue teorie sulla sessualità, esse suscitarono il massimo scandalo. Freud fu denigrato come un libertino, soprattutto dopo la pubblicazione nel 1905 di Tre Saggi sulla Sessualità, che esplorava l’idea della sessualità infantile. La professione e il pubblico allo stesso modo respinsero le sue teorie come pornografia ripugnante e un affronto alla religione.

Al Congresso di neurologi e psichiatri di Amburgo nel 1910, il professor Wilhelm Weygandt proclamò che le teorie di Freud non erano oggetto di discussione in una riunione scientifica, ma un tema che poteva riguardare l’ordine pubblico.

Particolarmente disgustosa per i suoi contemporanei era la visione di Freud della sessualità infantile.

La sessualità non era un nuovo campo di studi: prima di Freud vi era stata la pubblicazione di Psychopathia Sexualis di Richard Krafft-Ebing, un trattato pubblicato nel 1886 che indagava le perversioni sessuali. Tale approccio era però più ammissibile di quello di Freud, che affermava che l’attività sessuale era onnipresente e naturale. Allo stesso modo, la convinzione che i sogni fossero messaggi codificati, realizzazioni censurate e mascherate di desideri o proiezioni di paure sembrava scioccante e assurda, tanto più se applicata non solo a pochi individui psicologicamente disturbati, ma a tutti gli esseri umani.

La necessità di affrontare i conflitti interiori e di parlare per raggiungere la salute emotiva, sfidava le convenzioni prevalenti del perbenismo silenzioso, del mantenimento delle apparenze a tutti i costi.

Dr. Giuliana Proietti

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Fonte
https://www.vqronline.org/essay/freud-and-vienna

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