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DSM-5 : quando il lutto diventa una malattia mentale

DSM-5 : quando il lutto diventa una malattia mentale

DSM-5 : quando il lutto diventa una malattia mentale

Dr. Walter La Gatta

ANCONA FABRIANO TERNI CIVITANOVA MARCHE E ONLINE

Tariffe Psicoterapia

La morte di una persona cara, come si sa, è un’esperienza molto dolorosa. Dopo la grave perdita è normale provare un grande dolore, che però in genere, con il tempo, tende ad attenuarsi. In alcuni casi tuttavia questo dolore invece che diminuire può intensificarsi e porta la persona verso la depressione. In ogni caso, il lutto deve essere considerato una malattia psichica? Occorre prevedere una terapia per i “disturbi da lutto”?

Ne parliamo perché Scientific American, in un lungo articolo, firmato da Virginia Hughes, e di cui qui di seguito vi offriamo un’ampia sintesi, ha cercato di capire come il nuovo manuale psichiatrico DSM-5 affronterà l’argomento.

Nella “bibbia” dei disturbi psichiatrici, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM), ancora in elaborazione ed in uscita nel 2013, vi sono due novità, che riguardano il lutto: una sembra incontrare un consenso crescente nel campo della salute mentale, mentre l’altra ha suscitato grandi controversie.

Il DSM V dovrebbe comprendere una nuova categoria: Complicated Grief Disorder (Disturbo da complicazioni del lutto), noto anche come dolore traumatico o prolungato.

La nuova diagnosi (quella bene accolta) si riferisce a quei casi in cui il dolore psicologico per la perdita di una persona cara porti chi resta a pensare che la vita è priva di senso, a provare amarezza o rabbia per la perdita subita, e questo dopo che siano trascorsi sei mesi dal momento della perdita. La diagnosi controversa è invece quella incentrata sul primissimo periodo del lutto: essa consiglia un trattamento medico contro la depressione già durante le prime settimane dopo la morte della persona cara. Attualmente il DSM specifica che una persona che abbia subito un lutto non possa essere considerata “depressa”, fino a che non siano trascorsi almeno due mesi a partire dall’inizio del lutto.

Una intervista sulla Eiaculazione Precoce

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Tali modifiche non sono ininfluenti, né per i pazienti, né per i professionisti della salute mentale, perché le definizioni specificate nel manuale delle malattie psichiatriche stabiliscono come devono essere curate le persone e, almeno negli USA, se la terapie possano o meno essere rimborsate dall’assicurazione. La logica che sta dietro le proposte di revisione, pertanto, merita uno sguardo attento e approfondito.

Del lutto patologico se ne parla dal tempo di Sigmund Freud, ma l’argomento ha iniziato a ricevere un’attenzione più ufficiale solo di recente. In diversi studi condotti negli anni 80-90 su delle vedove, i ricercatori hanno notato che i farmaci antidepressivi riuscivano a curare stati d’animo come la tristezza o il senso di inutilità, ma erano inefficaci su altri aspetti del dolore psichico, come i pensieri ricorrenti ed ossessivi riferentisi al defunto. La scoperta ha suggerito che la depressione e il dolore da lutto derivino da circuiti diversi del cervello. Gli studi però erano solo all’inizio e dunque era prematuro inserirli nella quarta edizione del DSM, pubblicato nel 1994. Nel manuale, di 886 pagine, il lutto è relegato ad un solo punto e viene descritto come un sintomo che “può essere oggetto di attenzione clinica”. Le complicazioni da lutto non vengono invece menzionate.

Nel corso degli anni successivi, altri studi hanno rivelato che il dolore psichico persistente potrebbe accrescere il rischio di far ammalare chi ne soffre di altre malattie, come di problemi cardiocircolatori e di cancro. Holly G. Prigerson, una pioniera della ricerca sul dolore psichico, ha organizzato una riunione di esperti delle complicazioni da lutto a Pittsburgh, nel 1997, dove sono stati stabiliti i criteri preliminari per quello che la ricercatrice ed i suoi colleghi hanno individuato come una condizione medica realmente esistente, che hanno chiamato “dolore traumatico”.

A loro avviso, le caratteristiche che definisconosono questa condizione sono un’intensa nostalgia e un senso di preoccupazione. In sostanza, è l’incapacità di adattarsi alla vita, senza quella persona.

Da allora vi sono stati molti altri studi, non solo sulle vedove, ma anche su genitori che avevano perso un figlio, come ad esempio fra i sopravvissuti allo tsunami, e altri: essi hanno ulteriormente confermato e raffinato la descrizione iniziale.


Ipnosi Clinica

ANCONA FABRIANO CIVITANOVA MARCHE TERNI E ONLINE

 

Nel 2008 i ricercatori hanno potuto capire meglio cosa accade a livello cerebrale. Mary-Frances O’Connor dell’ U.C.L.A. ha scansionato il cervello di donne che avevano perso la madre o una sorella per cancro negli ultimi cinque anni. In seguito, sono stati messi a confronto i risultati delle donne che avevano manifestato un tipico dolore da lutto con coloro che mostravano un dolore da lutto prolungato ed immutato. Mentre venivano scannerizzate, le partecipanti guardavano delle immagini del defunto o leggevano delle parole sulla morte: entrambi i gruppi hanno mostrato una grande attività nei circuiti neurologici noti per essere coinvolti nell’emozione del dolore psichico. Le donne con dolore prolungato, però, hanno anche mostrato una sorta di firma neurale: l’aumento di attività in un nocciolo di tessuto chiamato nucleus accumbens. Questa zona, una parte del centro cerebrale della ricompensa, si accende anche quando si fanno scansioni cerebrali di soggetti tossicodipendenti (mentre guardano gli oggetti per drogarsi), oppure di madri, mentre guardano le foto del loro neonato. Ciò significa dunque che le donne non erano semplicemente provate dal sentimento del dolore psichico, ma sentivano piuttosto un perdurante attaccamento nei confronti del defunto. Nel frattempo, altri studi clinici hanno dimostrato che la terapia cognitivo-comportamentale è efficace nel trattamento della depressione maggiore, così come del disturbo post traumatico da stress, in seguito ad un lutto.

Alcuni ricercatori hanno compiuto complesse analisi statistiche per convalidare con maggiore precisione l’esatta combinazione delle caratteristiche che definiscono la condizione. Nel 2009, più di 10 anni dopo la conferenza di Pittsburgh, la dott.ssa Prigerson (che ora insegna presso la Harvard Medical School), ha pubblicato i dati raccolti su circa 300 persone a lutto, che aveva seguito per più di due anni.

Analizzando quali sintomi, fra i circa 25 analizzati, tendevano a raggrupparsi insieme nel quadro clinico di queste partecipanti allo studio, ha messo a punto i criteri per definire le “complicazioni da lutto”, che sono: la presenza di pensieri nostalgici ogni giorno, più cinque di altri nove sintomi (che l’articolo non precisa), per più di sei mesi dopo l’inizio del lutto. Questo è esattamente lo studio quantitativo che era necessario perché una condizione medica potesse entrare nel DSM. “Le persone che soddisfano i criteri per la diagnosi di complicazioni da lutto non necessariamente rispondono ai criteri diagnostici utilizzati per la depressione o il disturbo post-traumatico da stress”, ha affermato Katherine Shear, professoressa di psichiatria presso la Columbia University. “Se questa malattia non fosse stata inserita nel DSM, queste persone non avrebbero potuto ricevere il necessario trattamento”.

La possibilità di fare una diagnosi di depressione ad una persona che ha da poco subito un lutto è invece più controversa. Anche se alcuni sintomi del dolore psichico e della depressione si sovrappongono (tristezza, insonnia), le due condizioni appaiono distinte. Il dolore psichico è infatti legato ad un particolare evento, mentre le origini di una depressione clinica sono spesso più oscure. Gli antidepressivi non hanno effetto sulla nostalgia per il defunto che sentono le persone a lutto e quindi, nella maggior parte dei casi, curare le persone che soffrono per la perdita di una persona cara con gli stessi strumenti utilizzati per le persone depresse, può essere inefficace.

Alcuni studi, tuttavia, hanno suggerito che il lutto può dare origine alla depressione, come accade per altre cause (ad esempio subire una violenza o perdere il lavoro). Se è così, alcune persone che soffrono per la perdita di una persona cara possono essere anche depresse. I sostenitori di questo cambiamento nel DSM ritengono che sia ingiusto fare attendere troppo tempo le persone a lutto, in cerca di un aiuto medico, quando chiunque altro può ricevere farmaci anti-depressivi dopo appena due settimane dall’inizio della sintomatologia. “Sulla base di prove scientifiche, queste persone sono come chiunque altro soffra di depressione”, ha detto Kenneth S. Kendler, membro del gruppo di lavoro che si occupa dei disturbi dell’umore per il DSM-5. E’ per questo motivo che il gruppo ha recentemente suggerito l’eliminazione della clausola che specifica un attesa di due mesi prima di poter stabilire una diagnosi di depressione (e dunque poter ricevere il trattamento).

“E’ un’idea folle e disastrosa”, ha detto Allen Frances, che ha presieduto la task force che ha prodotto la quarta edizione del DSM. Frances si preoccupa di come il DSM-5 possa essere utilizzato dai rappresentanti delle case farmaceutiche, per sollecitare i medici a fare più prescrizioni. Come del resto è successo nella quarta edizione del DSM, la quale ha “involontariamente” (così specificato nel testo di SA, ma sul quale effetto si potrebbero anche nutrire dei dubbi) scatenato un’esplosione ingiustificata nelle diagnosi di disturbo bipolare nei bambini. La Prigerson, da parte sua, prevede una reazione generale contro l’idea che il lutto possa o debba ricevere un trattamento psichiatrico. Ed infatti, così commenta: “Ci saranno dibattiti al vetriolo quando ci si renderà conto che il DSM considera patologico soffrire per la morte di una persona amata dopo meno di due settimane dalla perdita”.

In qualche modo, l’analisi delle differenze tra il dolore psichico normale, le complicazioni da lutto e la depressione riflettono il dilemma fondamentale della psichiatria: i disturbi mentali vengono diagnosticati utilizzando criteri soggettivi e di solito sono un’estensione di uno stato di normalità. Quindi, qualsiasi definizione su dove finisca la normalità e dove cominci la patologia sarà sempre oggetto di opinioni fortemente dibattute. Come dice Frances, “Non c’è una linea chiara fra queste due condizioni: sarà sempre sarà una questione di opinioni”.

Dr. Walter La Gatta

Una intervista sulla Timidezza

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Fonte:

Shades of Grief: When Does Mourning Become a Mental Illness? Scientific American

Immagine:

Pixabay

Dr. Walter La Gatta

Dr. Walter La Gatta

Psicologo Psicoterapeuta Sessuologo
Delegato Regionale del Centro Italiano di Sessuologia per le Regioni Marche Abruzzo e Molise.
Libero professionista, svolge terapie individuali e di coppia
ONLINE E IN PRESENZA (Ancona, Terni, Fabriano, Civitanova Marche)

Il Dr. Walter La Gatta si occupa di:

Psicoterapie individuali e di coppia
Terapie Sessuali
Tecniche di Rilassamento e Ipnosi
Disturbi d’ansia, Timidezza e Fobie sociali.

Per appuntamenti telefonare direttamente al:
348 – 331 4908
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email: w.lagatta@psicolinea.it

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Visita anche www.walterlagatta.it

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La mia follia mi ha salvato – Un libro su Virginia Woolf

La mia follia mi ha salvato – Un libro su Virginia Woolf

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“La mia follia mi ha salvato“, La follia e il matrimonio di Virginia Woolf, di Thomas Szasz, edizioni Spirali Milano-

Si tratta di un libro penetrante, che offre un’intima esplorazione della vita sentimentale di Virginia Woolf, una delle figure più iconiche della letteratura del XX secolo.

Scritto con sensibilità e profondità, questo volume offre una nuova luce sulle complesse sfaccettature sulla personalità di questa straordinaria scrittrice.

Virginia Woolf

Thomas Szasz rilegge la vita di una delle più rivoluzionarie scrittrici del Novecento, dall’infanzia fino al tragico epilogo, cogliendone i lati più nascosti e meno esplorati, come quello psichiatrico.

Un’opera che riscopre Virginia Woolf andando oltre la sua rappresentazione di genio malato che la vorrebbe divisa tra “genio” e “follia”. L’autore, attraverso un’analisi rigorosa e appassionata, esamina il rapporto tra la creatività artistica e la malattia mentale nella vita di Virginia Woolf, affrontando temi come la depressione, l’ansia, la mania e la sua esperienza con la scrittura come forma di guarigione.

Secondo Szasz, qui nella duplice veste di scrittore e psicoanalista, Virginia non era vittima né della malattia mentale, né della psichiatria, né del marito. Non era semplicemente folle, ovvero “posseduta dalla follia”, al contrario “possedeva la sua follia”.

L’obiettivo di Szasz è quello di esaminare come Virginia, così come il marito Leonard, abbiano usato l’idea della follia e la professione psichiatrica per gestire e manipolare a vicenda le loro vite, facendo entrare e uscire di scena il fantasma della malattia mentale per tutta la loro esistenza.

Anche la difficoltà matrimoniale della coppia fu risolta facendo recitare a Virginia le parti di invalida mentale e di genio letterario, rinchiusa in una gabbia materna che le risultò fatale, e a Leonard quelle di protettore, infermiere psichiatrico e impresario letterario della moglie.

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Matrimonio e follia furono dunque due maschere dietro cui si nascose per meglio perseguire le proprie ambizioni, ma che a lungo andare divennero una trappola.

La vera scommessa per Virginia furono invece la scrittura, l’attività intellettuale e il programma editoriale della Hogarth Press, casa editrice fondata nel 1917 e che pubblicò le principali opere di poesia, letteratura e saggistica di quegli anni in Inghilterra.

Il libro è arricchito da una ricca selezione di citazioni dalle opere della Woolf e da estratti dai suoi diari e dalle sue lettere, che aggiungono profondità e autenticità alla narrazione.

Questi frammenti offrono un’illuminante finestra sulla mente dell’autrice, consentendo al lettore di entrare in contatto con le sue emozioni più profonde e i suoi pensieri più intimi, che rivelano la vera Virginia Woolf, come nel seguente passaggio:

La nostra stessa anima ci è ignota, figuriamoci l’anima degli altri. Gli umani non vanno insieme tenendosi per mano lungo tutto il loro percorso. C’é una foresta vergine in ciascuno, un nevaio dove neppure gli uccelli mettono piede. Qui ciascuno procede da solo e è meglio così. Sarebbe insopportabile godere sempre di simpatia, essere sempre accompagnati, essere sempre capiti. Ma nello stato di salute bisogna simulare socievolezza e sforzarsi continuamente di comunicare, civilizzare, condividere, coltivare il deserto, istruire gli indigeni, operare insieme giorno e notte per divertirsi. Nella malattia questa finzione cessa… cessiamo di militare nell’esercito della rettitudine, diventiamo disertori. – On Being Ill (Essere malati)

Relazione fra sesso e cibo

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Thomas Szasz. Nato a Budapest e trasferitosi negli USA, si è laureato in Fisica e in Medicina, si è specializzato in psichiatria e ha compiuto un training psicanalitico.

Dal 1956, è professore di psichiatria alla Syracuse University. Collabora alle principali riviste del settore ed è membro elle associazioni americane di psicanalisi e di psichiatria.

Fra i libri pubblicati in Italia: Il mito della malattia mentale (Spirali 2003); Farmacrazia. Medicina e politica in America (Spirali 2005); La battaglia per la salute (Spirali 2000); L’incapace, lo specchio morale del conformismo (Spirali 1998).

Giuliana Proietti

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Giuliana Proietti
Dr. Giuliana Proietti

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La Dottoressa Giuliana Proietti, Psicoterapeuta Sessuologa di Ancona, ha una vasta esperienza pluriennale nel trattamento di singoli e coppie. Lavora prevalentemente online.
In presenza riceve a Ancona Fabriano Civitanova Marche e Terni.

  • Delegata del Centro Italiano di Sessuologia per la Regione Umbria
  • Membro del Comitato Scientifico della Federazione Italiana di Sessuologia.

Oltre al lavoro clinico, ha dedicato la sua carriera professionale alla divulgazione del sapere psicologico e sessuologico nei diversi siti che cura online, nei libri pubblicati, e nelle iniziative pubbliche che organizza e a cui partecipa.

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La religione non ha successo fra gli psichiatri

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Articolo datato

Nella rivista Psychiatric Services è stato pubblicato oggi un singolare studio il quale ci informa che, fra tutti i medici, gli psichiatri sono quelli meno interessati al culto della religione cattolica e protestante: infatti, nella maggior parte, essi sono di religione ebraica, o non sono affiliati ad alcuna chiesa. Accade così che, almeno in America, se un paziente cerca un professionista di religione uguale alla sua può avere difficoltà a trovarlo…

Lo studio è stato condotto nel 2004 su 1.144 medici di molte specialità, fra cui c’erano 100 psichiatri. Ebbene, gli psichiatri meno degli altri frequentavano le cerimonie di culto, credevano in Dio o nella vita eterna e ancor meno vedevano Dio come l’elemento che poteva dare loro forza, supporto e guida. In compenso, i medici di famiglia erano i più religiosi di tutti.

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Il 39% dei medici esaminati erano Protestanti e il 22% Cattolici, mentre tra gli psichiatri il 27% erano Protestanti ed il 10% Cattolici. Il tredici per cento di tutti i medici esaminati era di religione ebraica; tra gli psichiatri gli ebrei rappresentavano invece il 29% del totale.

Mentre solo il dieci per cento dei medici ha detto di non appartenere a nessuna religione, tra gli psichiatri la percentuale saliva all’17%.

Il Dr. Farr Curlin, della University of Chicago osserva che anche uno studio similare, condotto dalla American Psychiatric Association nel 1975 mostrava risultati praticamente sovrapponibili a questo nuovo studio.

Del resto, anche Sigmund Freud non aveva espresso a chiare lettere sentimenti anti-religiosi? Anche questo potrebbe influenzare i comportamenti degli psichiatri che, ricordiamolo, oltre a curare pazienti con problemi mentali o emotivi, sono medici e pertanto possono prescrivere farmaci (e non basarsi solo sulla ‘cura della parola’ come fanno gli psicologi, che non sono medici).

La cosa interessante che questo studio ci rivela è che, di fronte ad esempio ad una depressione dovuta alla perdita di una persona cara, il medico generico particolarmente religioso indirizza il suo paziente ad un sacerdote, uno meno religioso non avrebbe dubbi nell’inviare il paziente ad un collega psichiatra. Precisamente, il 56 per cento dei medici invierebbe il paziente ad uno psichiatra o ad uno psicologo; il 25% ad un sacerdote ed il 7% ad un religioso impiegato nell’assistenza sanitaria.


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I medici Protestanti inviavano i pazienti ad uno ‘psic’ in misura del 50% rispetto ai medici non religiosi.

La spiritualità e la religione sono stati per lungo tempo un tabù nel campo della psichiatria, mentre ora sembra farsi strada la convinzione, fra gli psichiatri, che la religione sia un elemento importante nella vita di una persona.

Fonte: Reuters

Dott.ssa Giuliana Proietti

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