Psicologia delle donne ingegnere: perché molte abbandonano la carriera

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“Siamo sempre stati restii a pubblicare i numeri sulla diversità della nostra forza lavoro alla Google. Ora ci rendiamo conto di aver sbagliato, e che sia arrivato il momento di essere sinceri sui problemi. In parole povere, Google non è dove vorremmo essere quando si tratta di diversità, ed è difficile affrontare questo tipo di sfide, se non si è disposti a discuterne apertamente, e con i fatti. Ecco dunque i nostri numeri … “

Con questo comunicato, pubblicato sul web nel maggio 2014, Google ha ammesso che la sua forza lavoro internazionale è composta per il 70% da uomini e che, negli Stati Uniti, il 61% dei lavoratori è bianco (Google, 2014). Google si è pertanto impegnata ad aumentare la diversità e ad assumere e far progredire più donne.

La forza lavoro degli Stati Uniti è composta dal 47% dei casi da donne e ben il 52% dei manager e dei professionisti sono donne (Bureau of Labor Statistics, 2014), ma nel mondo della tecnologia le donne continuano a essere sotto-rappresentate, in particolare nel caso degli ingegneri, dove sono donne solo il 10% di loro (2013, US Bureau of Labor Statistics).

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Oltre che nella tecnologia, vi sono poche donne anche nei settori che riguardano la scienza, l’ingegneria e la matematica (così detti lavori STEM).

Oltre l’80% di tutti gli ingegneri sono impiegati nel commercio e nell’industria (National Science Foundation, 2011). I settori in cui maggiormente sono assunte le donne sono quello contabile e di revisione dei conti (60%), risorse umane (70%), pubbliche relazioni (60%) e ufficio acquisti (67%) .

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Si è osservato che il tasso di abbandono del lavoro delle donne è più elevato nelle professioni STEM (Hewlett et al., 2008). Gli studi disponibili sulle donne che svolgono questi incarichi parlano di un ambiente di lavoro difficile (Jorgenson, 2002; Miller, 2004; Gill et al, 2008;. Powers et al, 2009;. Watts, 2009) a causa di pregiudizi, barriere e discriminazioni, per cui  è frequente che le donne decidano di abbandonare la professione di ingegnere (Frehill, 2008; Hewlett et al, 2008; Singh et al, 2013), una professione improntata sulla tecnologia e largamente dominata dagli uomini.

Nonostante queste difficoltà ben documentate nei luoghi di lavoro, alcune donne ingegnere riescono a rimanere. Perché? Cosa hanno di diverso dalle altre?

Uno studio qualitativo del 2014 (Buse KR, Bilimoria D.) ha intervistato diverse donne ingegnere, fra cui 21 che avevano deciso di rimanere e 10 che avevano deciso di abbandonare la professione. In queste storie si è visto come le donne che persistevano avevano una visione personale che comprendeva lo svolgimento della propria professione, e questa visione personale includeva il proprio ruolo e permetteva loro di superare i pregiudizi, le barriere e le discriminazioni sul posto di lavoro.

Tra coloro che avevano deciso di abbandonare la professione il caso di una donna ingegnere chimico con più di 17 anni di esperienza, che aveva lasciato la professione ed era tornata a scuola per prendere l’abilitazione all’insegnamento della matematica. L’improvvisa scomparsa del padre aveva infatti causato in lei una profonda riflessione, portandola a decidere di lasciare la professione per avere più tempo da dedicare ai tre figli (che ora frequentavano la stessa scuola dove lei insegnava). Sentiva che trascorrere la gran parte del suo tempo sul posto di lavoro, lontano dalla famiglia, non la rendeva felice.

Un’altra ex ingegnere, ora professore universitario, descrive come il suo lavoro di ingegnere non si allineasse con la sua visione personale della vita. La donna decise che il lavoro non faceva per lei quando le fu stata mostrata una lista di circa 15 nomi con accanto una data (più o meno una l’anno): questo, le fu detto, era l’elenco dei suicidi avvenuti nella società dove lavorava. Questo dato l’aveva fatta riflettere sul fatto che lei voleva fare qualcosa di utile, invece che confrontarsi con i prezzi delle azioni che andavano su e giù. L’insegnamento le sembrò un mestiere in cui sentirsi più utili e avere maggiori gratificazioni.

Per un’altra ex ingegnere, con undici anni di servizio alle spalle, la nascita del primo figlio aveva costituito il punto di svolta per lasciare l’ingegneria. Non era quello che voleva fare e aveva iniziato a farlo solo per guadagnare dei soldi e rendersi indipendente. Sapeva, da bambina, cosa significasse avere una madre che era sempre assente per motivi di lavoro e non voleva che suo figlio provasse le stesse cose.

Boyatzis (2008), ha elaborato la teoria del cambiamento intenzionale, che si basa sul confronto fra sé ideale e sé reale. Il sé ideale può essere descritto come la propria visione personale, in particolare nel delineare chi la persona vorrebbe essere e ciò che vorrebbe realizzare nella vita. Il sé reale descrive invece la persona come è al momento attuale. Quando si riconoscono differenze tra il sé ideale e il sé reale, si verifica una forza motivazionale che spinge verso il cambiamento. Infatti, queste discrepanze sono spesso descritte come punti di non ritorno (Gladwell, 2000). Questa teoria spiega benissimo le donne che decidono di abbandonare la professione di ingegnere. Ma le altre?

Quando il sé ideale e il sé reale sono in sincronia, secondo la teoria citata, c’è la motivazione a mantenere lo stato attuale. Le donne che persistono come ingegneri non avvertono la presenza di questa discrepanza. Una donna, ad esempio, con 28 anni di carriera alle spalle, si è descritta così: sono una geek senza speranza. Mi piace davvero risolvere i problemi. Mi piace lavorare con gli utenti. Mio marito mi dice che sono molto analitica su tutto e la tecnologia mi piace e mi ci sento portata.

La capacità di mantenere una carriera richiede un investimento di energia verso la propria professione. Questo aspetto del sé ideale ha il potenziale di spiegare perché le donne persistono in una professione dominata dagli uomini, soprattutto alla luce della letteratura che descrive l’esperienza come estremamente difficile per le donne (Frehill, 2008; Hewlett et al, 2008;. Fouad e Singh 2011 ).

Il sé ideale ha tre componenti principali: programmi futuri, speranza e identità di base (Boyatzis, 2008). La speranza è la sensazione che qualcosa di desiderabile possa accadere e non è diversa dall’ottimismo. In altre parole, la speranza è la capacità percepita di poter raggiungere gli obiettivi desiderati e motivare se stessi a quei percorsi (Snyder et al., 1996).

Il concetto di identità di base proviene dalla consapevolezza dei propri punti di forza. L’identità è relativamente stabile ed è un insieme di disposizioni durevoli di una persona, che coinvolge una serie di caratteristiche individuali, fra cui l’auto-efficacia e l’ottimismo.  Il sé ideale è emotivamente alimentato dalla speranza, dove la speranza è molto influenzata dagli aspetti della personalità, come la sensazione di auto-efficacia e la tendenza all’ottimismo (Boyatzis e Akrivou, 2006).

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Alla domanda: “Perché sei rimasta a fare l’ingegnere ?” molte donne rispondono parlando di un lavoro particolarmente significativo e impegnativo, che richiede abilità uniche, che danno un grande senso di auto-realizzazione. Una donna ingegnere da 28 anni, ad esempio, ha detto di avere insistito perché aveva trovato senso e scopo nel suo lavoro, consistente nello sviluppare nuove tecnologie per applicazioni militari relative alle comunicazioni e all’intelligence.

Un’altra donna, con 16 anni di esperienza come ingegnere dice: mi sento necessaria. Ci sono molte cose che posso fare, e io sono l’unica persona che può fare quelle cose. Ho eseguito la programmazione (per controllare una nuova macchina) tutta per conto mio, sono veramente orgogliosa di me e rimango in questo campo perché veramente mi piace. Mi piace la sfida. Mi piace avere cose diverse da fare ogni singolo giorno. Amo la gente con cui lavoro; ho un grande team di supporto.

Un’altra, con 18 anni di esperienza dice: mi piace quello che faccio. Mi piacciono le sfide. Mi piace la gente. Mi piace il fatto che posso viaggiare e vedere qualcosa di nuovo … Quindi non potevo immaginare di fare qualcosa di diverso. Non riesco a immaginare nessun altro lavoro che avrebbe potuto essere più divertente.

Una responsabile di produzione con 25 anni di esperienza ha preso un aspettativa temporanea per seguire il marito in Francia, per due anni, insieme ai suoi due figli. E’ tornata al lavoro perché ha sentito come una parte di sé che stava morendo. Le piacciono le sfide tecniche. Le piace progettare delle cose. Le piace lavorare sui fogli di calcolo e occuparsi di questioni tecniche. Stando lontana dal lavoro, quella parte di sé non poteva essere più sfruttata in altro modo, vista la sua grande passione per le cose tecniche.

Un’altra donna ingegnere ritardava il momento di andare in pensione perché non voleva lasciare il gruppo di persone con cui lavorava. Il lavoro le aveva dato l’opportunità di fare un certo numero di cose diverse impedendole di annoiarsi. Ogni giorno c’era qualcosa di nuovo da imparare.

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Kahn (1990) sostiene che il lavoro dia significato alla vita quando i lavoratori si sentono utili per gli altri. La significatività del lavoro è influenzata dai compiti, dai ruoli e dalle interazioni nell’ambiente di lavoro. Dove ci sono sfide e autonomia oltre che obiettivi chiari, c’è anche grande motivazione e impegno.

Saks (2006) parla dell’impegno sul lavoro come un costrutto distinto e unico, che è costituito da componenti cognitive, emotive e comportamentali, associate con la performance individuale.

Schaufeli e Bakker (2004) definiscono l’impegno come l’opposto del burnout da lavoro: esso si caratterizza per il vigore, la dedizione e la concentrazione. Alti livelli di energia, così come la volontà di investire lo sforzo nel proprio lavoro e il persistere anche di fronte alle difficoltà, caratterizzano il vigore. La dedizione è descritta come un senso di importanza e di sfida, la concentrazione si caratterizza invece nel sentirsi completamente e felicemente assorbiti dal proprio lavoro.

Come descritto da Kahn (1990), l’impegno è un investimento di energie cognitive, emotive e fisiche, in termini di prestazioni, in un ruolo lavorativo. Si tratta di un meccanismo chiave che spiega i rapporti tra i singoli fattori e i vantaggi per le organizzazioni (Rich et al., 2010). L’impegno sul lavoro è correlato positivamente all’impegno organizzativo e negativamente correlato alla intenzione di smettere (Saks, 2006).

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Le donne ingegnere che hanno deciso di restare nella professione si sono sentite necessarie e apprezzate, e così sono state in grado di utilizzare le proprie competenze e capacità uniche. Come Kahn (1990) aveva teorizzato, il lavoro ha fornito loro il significato e la sensazione di essere utili e preziose.

Il motivo che porta molte donne ad abbandonare sono le cattive relazioni, specialmente con i capi.  Il rapporto con il proprio supervisore è direttamente correlato al proprio livello di impegno sul lavoro, come mostrano le ricerche (Bakker e Bal, 2010; Rich et al., 2010).

In altre interviste si è visto che la sensazione di auto-efficacia ha giocato un ruolo chiave nella persistenza sul lavoro. Una donna ingegnere con 30 anni di esperienza, ad esempio, ha dichiarato di essere rimasta perché testarda, capace di credere in se stessa, anche quando nessuno lo fa.

I risultati di studi precedenti dimostrano che le donne lasciano carriere professionali ad un tasso superiore rispetto agli uomini e che 4 donne altamente qualificate su 10  lasciano il lavoro volontariamente ad un certo punto della loro carriera, influenzate da fattori “push e pull” (Hewlett e Luce, 2005). I fattori di spinta comprendono la mancanza di soddisfazione nel lavoro, la mancanza di opportunità e le richieste eccessive, mentre fattori di attrazione sono le pressioni della famiglia e la salute personale.

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Mainiero e Sullivan (2005) usano il termine “carriera caleidoscopio” per distinguere le tipologie di carriera variegata delle donne dai modelli lineari, che sono più degli uomini. Le donne infatti sono più inclini a costruire una carriera che si adatti ai loro altri obiettivi e alle loro esigenze. Più spesso degli uomini esse fanno scelte influenzate anche dalle relazioni e dal bisogno di auto-realizzazione (O’Neill e Bilimoria, 2005).

Come un caleidoscopio ha tre specchi che creano un numero infinito di modelli, il modello di carriera-caleidoscopio ha tre parametri unici (autenticità, equilibrio e sfida), che riflettono un numero infinito di modelli della carriera di una donna (Mainiero e Sullivan, 2005).

Il modello di carriera-caleidoscopio spiega come le decisioni di carriera delle donne siano interconnesse con figli, coniugi, genitori anziani, amici e colleghi di lavoro. Le transizioni che si verificano nel corso della vita di una donna (come ad esempio avere figli) possono influenzare nettamente le decisioni di carriera.

E questo dovrebbe valere anche per le donne ingegnere. Si è visto però nello studio di Buse e Bilimoria (2014) che se le donne trovano utile l’impegno che mettono nel loro lavoro, possono trovare il giusto equilibrio.

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I risultati relativi allo stato civile e al numero di figli possono sorprendere coloro che teorizzano che le donne lascino la forza lavoro per il matrimonio e i figli. La maggior parte delle donne nel campione dello studio erano sposate (63%), e le donne oltre i 30 anni di età erano sposate nel 79% dei casi. Più di tre quarti delle donne oltre i 30 anni di età aveva almeno un figlio e il 63% di loro aveva due o più figli. Inoltre, il numero dei figli non aveva, in questo campione, alcun impatto diretto sull’impegno lavorativo.

In conclusione, le donne che sentono di aver scelto la giusta professione, che amano il proprio lavoro e che si sentono apprezzate e sostenute dal team e dai propri capi sono quelle che, con maggiori probabilità, non lasceranno il lavoro, a prescindere dagli impegni familiari.

… Ma tutto questo, in fondo, non è valido per tutte le professioni?

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Fonte:
Buse KR, Bilimoria D. Personal vision: enhancing work engagement and the retention of women in the engineering profession. Frontiers in Psychology. 2014;5:1400. doi:10.3389/fpsyg.2014.01400.

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