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Tag Archives: Emozioni e Sentimenti

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Le espressioni facciali nel contesto evolutivo e nella psicologia

Le espressioni facciali nel contesto evolutivo e nella psicologia

Le espressioni facciali nel contesto evolutivo e nella psicologia

Dr. Walter La Gatta

ANCONA FABRIANO TERNI CIVITANOVA MARCHE E ONLINE

Tariffe Psicoterapia

Le espressioni facciali sono una componente fondamentale della comunicazione non verbale e hanno un impatto profondo sulle interazioni sociali degli esseri umani. Esse ci permettono di esprimere emozioni, intenzioni e stati d’animo, talvolta in modo più eloquente di quanto possano fare le parole. Ma come si formano e come vengono interpretate? Qual è il loro ruolo nel contesto evolutivo e nella psicologia? Cerchiamo di saperne di più.

Cosa è la comunicazione non verbale?

E’ un mezzo primario per trasmettere informazioni sociali tra gli umani, ma è largamente presente anche fra molti mammiferi e in altre specie di animali.

Cosa sono le espressioni facciali?

Sono movimenti o posizioni dei muscoli sotto la pelle del viso. Questi movimenti muscolari trasmettono lo stato emotivo di un individuo alle persone che lo osservano. Le espressioni facciali sono dunque una forma di comunicazione non verbale.

Quando si apprendono le espressioni facciali?

Più un bambino è esposto a diversi volti ed espressioni, più è capace di riconoscere queste emozioni e quindi di imitarle. I bambini imparano rapidamente che osservare gli altri permette di avere informazioni informazioni importanti sull’ambiente. Per questa ragione i neonati preferiscono guardare i volti umani rispetto ad altri stimoli, sin dalla più tenera età.

Adolescenza

Editore: Xenia, Collana: I tascabili
Anno edizione: 2004 Pagine: 128 p., Brossura
Autori: Giuliana Proietti - Walter La Gatta

Le espressioni facciali sono volontarie?

Gli esseri umani possono esprimere delle emozioni volontariamente o involontariamente. Le espressioni del volto sono complesse e ambigue in quanto provengono da un sistema duplice, volontario e involontario, capace di mentire e di dire la verità, spesso contemporaneamente. Le espressioni vere, sentite, si presentano perché il movimento dei muscoli facciali è automatico, quelle false compaiono invece perché l’evoluzione della specie ha portato l’uomo ad avere un controllo volontario sul proprio viso, che consente di inibire la mimica autentica e assumere al suo posto un’espressione non realmente sentita.

Quali sono le radici evolutive delle espressioni facciali?

Dal punto di vista evolutivo, le espressioni facciali hanno svolto un ruolo cruciale per la sopravvivenza umana. Gli esseri umani, come molte altre specie, hanno dovuto sviluppare meccanismi rapidi per identificare le minacce e per comunicare con i propri simili. Le espressioni di paura o rabbia, ad esempio, non solo avvertono chi ci circonda di un possibile pericolo, ma segnalano anche il nostro stato d’animo in modo da poter reagire prontamente.

Charles Darwin, nel suo lavoro pionieristico L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali (1872), fu uno dei primi a suggerire che le espressioni facciali avessero una base biologica e che fossero simili tra diverse specie. Questa prospettiva ha gettato le basi per molti studi contemporanei sulle emozioni e sulle espressioni facciali, come quelli di Paul Ekman.

Quali sono le teorie di Paul Ekman sulle espressioni facciali?

Paul Ekman ha studiato per molti anni le espressioni facciali, raccogliendo una grande quantità di dati: attraverso i suoi studi è stato possibile arrivare ad una descrizione particolareggiata del comportamento di molti muscoli facciali, scoprendone la straordinaria complessità che può far si che sul volto, nel giro di pochi secondi, possano comparire delle ‘microespressioni’ che la maggior parte degli osservatori non riescono nemmeno a cogliere, data la durata molto breve della loro apparizione.

IPNOSI CLINICA: una intervista al Dr. Walter La Gatta

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ANCONA FABRIANO TERNI CIVITANOVA MARCHE E ONLINE
 

Tariffe Psicoterapia

Cosa sono le microespressioni?

Ekman ha introdotto il concetto di *microespressioni*, espressioni facciali involontarie che appaiono e scompaiono in una frazione di secondo. Queste microespressioni sono particolarmente utili nel rivelare emozioni nascoste o inconsapevoli, poiché sono difficili da controllare e spesso tradiscono i nostri veri sentimenti, anche quando cerchiamo di mascherarli.

Le microespressioni sono diventate uno strumento utile in campi come la psicologia forense, dove possono essere utilizzate per rilevare segnali di inganno o di emozioni non dichiarate durante un’interrogazione o un colloquio.

Come sono state condotte queste ricerche?

Le emozioni segnalate dal volto sono state studiate attraverso l’osservazione attenta di fotografie e videofilmati, esaminati al rallentatore.

Cosa suggeriscono i dati raccolti?

I dati raccolti sono stati identificati in modo simile anche all’interno di culture molto diverse. Per esempio anche in un gruppo della Nuova Guinea, di cultura primitiva, le espressioni facciali relative a particolari emozioni somigliano molto a quelle delle società più avanzate; ciò accade in particolare per l’emozione della rabbia, del disgusto, della felicità, della tristezza, della paura e della sorpresa, che sembrano universalmente espresse allo stesso modo, probabilmente perché biologicamente più primitive e dunque universali.

Che ruolo hanno le espressioni facciali nelle relazioni interpersonali?

Le espressioni facciali non sono solo il riflesso delle nostre emozioni interiori, ma hanno anche un forte impatto sulle relazioni sociali e sul modo in cui veniamo percepiti dagli altri. Nel contesto delle relazioni interpersonali, le espressioni facciali sono uno degli strumenti più potenti per trasmettere informazioni e regolare l’interazione interpersonale.

Un sorriso, ad esempio, può creare un senso di fiducia e favorire la cooperazione, mentre uno sguardo accigliato può generare disagio o innescare conflitti. Le persone spesso si affidano alle espressioni facciali per valutare l’onestà, l’affidabilità e le intenzioni degli altri, utilizzando queste informazioni per prendere decisioni sociali.

Tutti sono capaci di riconoscere le emozioni attraverso espressioni facciali?

No. Alcune ricerche hanno dimostrato che l’incapacità di esprimere o riconoscere correttamente le emozioni attraverso il viso può essere un segnale di condizioni come la depressione o l’ansia sociale. Altre condizioni, come l’autismo, possono influenzare la capacità di interpretare le espressioni facciali altrui, rendendo più difficile interagire a livello sociale

Quanto è importante il contatto visivo?

Il contatto visivo è un aspetto importante della comunicazione interpersonale. Il contatto visivo regola la  conversazione, comunica il coinvolgimento e l’interesse, permette di stabilire relazioni con gli altri, permette di attirare l’attenzione, mostrare il proprio stato d’animo. La mancanza di contatto oculare è solitamente percepita come forma di maleducazione o disattenzione.

Cosa comunicano gli occhi?

Gli occhi comunicano più dati di quanto una persona possa voler esprimere consapevolmente. La dilatazione delle pupille ad esempio indica una forte attrazione o interesse verso la cosa o la persona che si sta osservando. Pupille piccole come capocchie di spilli indicano invece un segnale di freddezza emotiva.

Una intervista sulla Eiaculazione Precoce

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C’è differenza fra le culture rispetto al contatto oculare?

Si. Culture diverse hanno regole diverse per il contatto visivo. Alcune culture asiatiche possono percepire il contatto visivo diretto come un modo per segnalare lo spirito di competizione, che in molte situazioni può rivelarsi inappropriato. Altri abbassano gli occhi per segnalare una forma di rispetto verso l’interlocutore.

Le espressioni facciali sono universali fra gli umani?

I sostenitori dell’ipotesi dell’universalità affermano che molte espressioni facciali sono innate e hanno radici nel comportamento dei nostri lontani antenati. Gli oppositori di questo punto di vista mettono in dubbio l’accuratezza degli studi utilizzati per testare questa affermazione e credono invece che le espressioni facciali siano condizionate e che le persone vedano e comprendano le espressioni facciali in gran parte a seconda delle situazioni sociali che li circondano.

E’ possibile evitare di far comprendere all’interlocutore l’emozione che si sta provando?

Ekman ha individuato alcune tecniche che normalmente le persone utilizzano per sviare l’interlocutore dal comprendere l’emozione che prova:

  • La dissimulazione. L’espressione spontanea viene dissimulata, fatta scomparire dal volto. Il soggetto sembra accorgersi di quello che rischia di manifestare, per cui interrompe bruscamente l’emozione che gli si sta stampando sul viso, coprendola con una espressione diversa. Chi si trova spesso a mentire per ragioni professionali, tipo avvocati, politici, venditori, giocatori d’azzardo impara l’arte della dissimulazione con grande perizia, tanto da poterla esercitare anche quando si trova a dover guardare negli occhi l’interlocutore, il che è piuttosto difficile, per chi non è allenato, da mettere in pratica.
  • L’attiva falsificazione. Quando nasce una emozione i muscoli facciali si attivano in maniera automatica : per abitudine o per scelta si può riuscire ad impedire queste espressioni nascondendole attraverso una maschera, una ‘emozione finta’, che in genere è il sorriso. E’ più facile fingere emozioni positive che negative : la maggior parte delle persone trova infatti difficilissimo imparare a muovere volontariamente i muscoli che sono necessari per fingere realisticamente dolore e paura; va un po’ meglio per la rabbia e per il disgusto.Nel suo libro, I volti della menzogna, Eckman ci fornisce almeno tre indizi per poter ritenere che una espressione non sia sincera : asimmetria, tempo e collocazione nel corso della conversazione.

In cosa consiste la teoria dell’asimmetria?

In una espressione facciale asimmetrica le stesse azioni compaiono nelle due metà del viso, ma sono più intense su una parte anziché nell’altra. Una spiegazione di questa asimmetria potrebbe essere cercata nel fatto che l’emisfero cerebrale destro sia più specializzato del sinistro nel trattamento delle emozioni: dato che l’emisfero destro controlla gran parte dei muscoli della metà sinistra del viso e il sinistro quelli della metà destra, le emozioni si mostrano con maggiore intensità sulla parte sinistra del volto. In questo senso le espressioni contorte, in cui l’azione dei muscoli è un po’ più accentuata su una metà del viso possono essere un segno rivelatore della falsità del sentimento manifestato. L’asimmetria è indizio di una emozione poco sentita, un’espressione volontaria della muscolatura.

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La durata delle emozioni ha importanza?

Si. Le espressioni di lunga durata (dai 10 secondi in su) sono probabilmente false perché le espressioni autentiche non durano così a lungo : la mimica che esprime emozioni davvero sentite non resta sul viso più di qualche secondo. Se la sorpresa è autentica tutti i tempi, di attacco e di stacco, sono brevissimi, inferiori al secondo.

Come sapere se qualcuno sta mentendo?

Se qualcuno finge di arrabbiarsi e dice ad esempio ‘non ne posso più di come ti comporti’ dobbiamo guardare attentamente alla mimica : se i segni di collera nell’espressione facciale vengono dopo le parole, la persona non è poi così adirata come invece sarebbe se l’espressione della collera si stampasse sul viso prima della pronuncia della frase. In ogni caso le espressioni del viso non sincronizzate coi movimenti del corpo costituiscono probabili indizi di falso.

Dr. Walter La Gatta

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Psicologo Psicoterapeuta Sessuologo
Delegato Regionale del Centro Italiano di Sessuologia per le Regioni Marche Abruzzo e Molise.
Libero professionista, svolge terapie individuali e di coppia
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Tecniche di Rilassamento e Ipnosi
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  • 12 Ott 2024
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Il senso del pudore

Il senso del pudore: esiste ancora?

Il senso del pudore: esiste ancora?

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Dr. Giuliana Proietti - Tel. 347 0375949
Dr. Walter La Gatta  -   Tel. 348 3314908

Il pudore si addice a tutti:
bisogna tuttavia saperlo vincere,

pur senza mai perderlo.
Charles-Louis de Montesquieu

Il senso del pudore è una complessa costruzione psicologica e culturale che regola il comportamento umano in relazione alla nudità, alla sessualità e all’espressione del corpo. Cerchiamo di saperne di più.

Cosa è il pudore?

Con questo termine si intende un atteggiamento di naturale riserbo, morale o fisico, verso tutto ciò che è considerato “indecente”. Il pudore si esprime attraverso il rifiuto di evocare a qualcuno i dettagli della propria vita intima e sessuale, o nel proporre il proprio corpo coperto, in modo da non turbare gli altri, o non sentirsi violati dallo sguardo altrui.

Cosa è il contrario del pudore?

Il contrario del pudore è l’esibizionismo.

Quando emerge il senso del pudore?

Anzitutto occorre comprendere che le emozioni possono essere primarie o secondarie. Le primarie, come la gioia, la tristezza, la rabbia, il disgusto, l’interesse e la paura compaiono presto nello sviluppo umano e, di conseguenza, non hanno la necessità che si sia sviluppata una solida consapevolezza di sé.

Al contrario, le emozioni secondarie, come nel caso della vergogna, del senso di colpa e dell’orgoglio, sono emozioni più complesse, in quanto sono tutte legate alla percezione di sé: per questo sono state definite anche “emozioni dell’autoconsapevolezza”,  “emozioni “sociali” o “emozioni interpersonali”. E’ in questa seconda categoria che possiamo ascrivere il senso del pudore, che per molti aspetti somiglia alla vergogna e al senso di colpa.

I bambini, infatti, iniziano a interiorizzare le norme sociali attraverso l’interazione con gli adulti, e il pudore può manifestarsi sotto forma di vergogna o imbarazzo in situazioni che implicano una violazione percepita di quelle norme. Il pudore, dunque, è un fenomeno che può essere concettualizzato come una reazione emozionale alla percezione del giudizio altrui.

Non si prova l’emozione della vergogna se non quando si confrontano le proprie azioni con dei valori e modelli di comportamento, personali o altrui: più si è capaci di concentrare l’attenzione sul proprio comportamento, di giudicarlo in base a specifici parametri, più si accresce la possibilità di percepire l’emozione della vergogna o del pudore.

Come si origina il senso del pudore?

La teoria dell’attaccamento, elaborata da John Bowlby, può essere utile per comprendere l’origine del pudore nelle prime fasi della vita. Secondo questa teoria, l’interazione con la figura di attaccamento (solitamente il caregiver principale) influenza profondamente il modo in cui l’individuo gestisce le emozioni e le relazioni sociali. Un attaccamento sicuro permette all’individuo di sviluppare una sana consapevolezza di sé, mentre un attaccamento insicuro può portare a una maggiore vulnerabilità a sentimenti di vergogna e a un senso di inadeguatezza.

Che relazione c’è fra vergogna e senso del pudore?

La vergogna è un’emozione strettamente legata al pudore. Essa rappresenta una risposta intensa alla percezione di una mancanza o di un fallimento rispetto agli standard sociali o personali. Mentre il pudore può essere considerato una forma preventiva di controllo del comportamento (evitare situazioni imbarazzanti o inappropriate), la vergogna emerge come conseguenza di un comportamento che viene percepito come trasgressivo.

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A cosa serve il pudore?

Dal punto di vista della psicologia evoluzionista, il pudore può essere interpretato come un meccanismo adattativo per mantenere la coesione sociale. Gli esseri umani, essendo animali sociali, hanno sviluppato il pudore come una strategia per evitare conflitti all’interno del gruppo e per garantire il rispetto reciproco. Gli individui che rispettano le norme sociali relative al pudore tendono a essere percepiti come più affidabili e degni di fiducia, rafforzando così le loro relazioni sociali.

Che relazione c’è fra pudore e autostima?

Un eccessivo senso del pudore o una vergogna troppo intensa possono avere un impatto negativo sull’autostima. Quando un individuo si sente costantemente giudicato o inadeguato rispetto agli standard sociali, può sviluppare una bassa autostima.

Come cambia il senso del pudore nelle diverse culture?

In alcune culture, la nudità è considerata normale e accettata in molti contesti sociali, mentre in altre è severamente regolamentata e può essere vista come un tabù.

Ad esempio, molte società occidentali del XXI secolo hanno mostrato una crescente tolleranza verso l’esposizione del corpo e l’espressione sessuale, soprattutto attraverso i media e l’intrattenimento.

Al contrario, in altre culture, il pudore è strettamente legato alla moralità e alla religione, e la nudità o l’espressione sessuale sono rigidamente controllate.

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Come cambia il senso del pudore nelle varie epoche?

Il concetto di pudore si evolve nel corso del tempo: non è un concetto statico, ma piuttosto una costruzione dinamica che si adatta ai cambiamenti sociali. Durante il periodo vittoriano, ad esempio, l’espressione del corpo e della sessualità era fortemente repressa, mentre oggi osserviamo una tendenza opposta, con una crescente accettazione della diversità di espressioni corporee e sessuali. 

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Da quanto tempo si parla di senso del pudore?

Di pudore si parla già nella Bibbia, ma anche nell’Odissea, a proposito della vicenda di Ulisse e Nausicaa, quando Ulisse si sveglia su una spiaggia sconosciuta, al suono di voci femminili e si copre gli organi genitali con delle foglie, per non presentarsi nudo alla principessa. Questa antichissima storia ci dimostra che il pudore non è un fenomeno solo femminile, visto che anche un uomo come Ulisse, oltre tutto un eroe, non ne è immune.

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Perché ci vergogniamo di mostrare i genitali?

Secondo Hegel il pudore rappresenta lo sforzo dell’essere umano, fornito di coscienza della propria diversità, di nascondere l’animalità e le parti del corpo che esprimono tali funzioni. La vista di queste parti diventa intollerabile, in quanto inconciliabile con l’essenza spirituale che lo caratterizza. In questo senso dunque il pudore sarebbe una sorta di abito che copre la scimmia nuda.

Il senso del pudore riguarda anche gli animali?

Il filosofo fenomenologo Max Scheler nel suo testo “pudore e sentimento del pudore”, scritto fra il 1912 e il 1916, lo definisce un “sentimento vitale”, una “forza naturale” che ha una forza unificante rispetto alla sensorialità disordinata. Il pudore comporta infatti “un ritorno dell’individuo su se stesso”, una rinuncia all’espansione verso l’esterno, una sostituzione del pensiero con l’azione.

Il pudore evidenzia la doppia appartenenza dell’essere umano: da un lato è biologicamente parte del mondo animale, dall’altro la sua componente spirituale l’avvicina alla divinità. Né l’animale, né Dio provano pudore: l’unico che lo prova è l’uomo, in quanto ponte fra dimensione corporea e dimensione spirituale dell’esistenza.

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Come sottolinea Max Scheler tuttavia, il pudore è un abito più mentale che fisico. Per fare un esempio, vi sono donne che in alcune tribù africane sono praticamente nude dal mattino alla sera e non si sentono in imbarazzo, perché quelle sono le abitudini della propria tribù. Quando queste donne vengono vestite, esse provano il senso del pudore, perché sono traumatizzate dal cambiamento delle proprie abitudini.

Nella società odierna il pudore ha ancora un posto?

Nella società odierna la diffusione globale di immagini e contenuti sessualizzati sui media ha reso il corpo umano sempre più visibile, sfidando i confini tradizionali del pudore. 

Nella nostra società, dunque, il pudore sembrerebbe ormai scomparso, messo al bando da una società che spinge a mostrare e a vedere tutto.

In realtà, al di là dell’esibizionismo più sfrenato, del corpo e della sessualità, ciascuna persona, emulando Amleto, quando dice “io ho dentro ciò che non si mostra”, continua a portare qualcosa di segreto in sé, che non desidera rivelare ad altri. Può trattarsi di un’imperfezione, una colpa, o anche qualcosa che crea profondo imbarazzo, come lo sono sempre più spesso i sentimenti.

Oggi siamo infatti arrivati al paradosso che è più facile fare sesso con uno sconosciuto che rivelare a qualcuno di provare un sentimento d’amore nei suoi confronti: questo mette davvero in imbarazzo, non andarci a letto dopo un’allegra bevuta…

Dr. Walter La Gatta



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Foto di Breno Cardoso

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Perché il dolore ci fa gridare?

Perché il dolore ci fa gridare?

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ANCONA FABRIANO TERNI CIVITANOVA MARCHE E ONLINE

Tariffe Psicoterapia

Il grido di dolore è una risposta naturale e istintiva del corpo umano che ha radici profonde sia nella biologia che nell’evoluzione. Esso rappresenta una reazione immediata e involontaria a una lesione o a una situazione di pericolo, con l’obiettivo di segnalare lo stato di emergenza e richiamare attenzione o aiuto. Scopriamo meglio di cosa si tratta.

Perché il dolore fa gridare?

Quando una persona prova dolore, diversi meccanismi biologici e neurologici si attivano per gestire la situazione. I principali processi che contribuiscono al grido di dolore sono:

Attivazione del sistema nervoso – Il dolore è rilevato da alcuni recettori sensoriali specializzati che rispondono a stimoli potenzialmente dannosi (come lesioni, calore o pressione eccessiva). Quando questi recettori rilevano un pericolo, essi inviano segnali attraverso i nervi sensoriali al midollo spinale e, successivamente, al cervello, in particolare alla corteccia somatosensoriale e al talamo.

Il cervello interpreta questi segnali come dolore, e allo stesso tempo attiva la risposta di “lotta o fuga” attraverso il sistema nervoso simpatico. Questo porta a una serie di reazioni fisiologiche: aumento della frequenza cardiaca, rilascio di adrenalina, aumento della tensione muscolare e, spesso, il grido come forma di risposta immediata.

IPNOSI CLINICA: una intervista al Dr. Walter La Gatta

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Da cosa si origina il grido di dolore?

Il grido di dolore è un riflesso vocale innescato da forti sensazioni di sofferenza o paura. Quando il dolore viene percepito dall’ amigdala, parte del cervello coinvolta nella gestione delle emozioni, essa invia segnali ai centri di controllo vocale. Questa attivazione può portare a una reazione immediata come il grido o il gemito, che rappresentano una forma di scarico emotivo e fisico.

Il tronco encefalico, responsabile di molte delle funzioni involontarie del corpo, coordina questa risposta, modulando la respirazione e la vocalizzazione. Questo tipo di reazione rapida è automatico e si verifica senza un’elaborazione cosciente, proprio perché si tratta di un meccanismo di sopravvivenza.

A cosa è servito il grido di dolore dal punto di vista evolutivo?

Dal punto di vista evolutivo, il grido di dolore ha avuto una funzione di avvertimento e comunicazione. Grida e gemiti emessi in risposta a stimoli dolorosi servono infatti a chiedere aiuto, segnalare un pericolo, ecc.

Si tratta dunque di un comportamento adattativo che ha probabilmente aiutato i nostri antenati a sopravvivere.

Anche gli animali emettono gridi di dolore?

Si. Studi effettuati su diverse specie animali dimostrano che molti mammiferi, compresi i primati, emettono vocalizzazioni in risposta a stimoli dolorosi, indicando che si tratta di una caratteristica comune nel regno animale.

Dr. Walter La Gatta

Il grido di dolore può ridurre la sensazione di dolore?

Si. Esprimere il dolore attraverso il grido può aiutare a scaricare la tensione e ridurre lo stress immediato. Questa forma di “catarsi” è ben documentata: la scarica emotiva associata al grido può avere un effetto calmante momentaneo e contribuire al rilascio di endorfine, i neurotrasmettitori che aiutano a modulare il dolore.

I bambini quando imparano a gridare per il dolore?

Tutti i bambini, prima ancora che imparino a parlare, sanno già gridare per avvertire gli adulti di un loro problema. Questa capacità non si perde con l’acquisizione del linguaggio verbale e con lo sviluppo psico-fisico, ma continua ad essere praticata anche da adulti.

Sul piano comunicativo cosa significa il grido di dolore?

Questa vocalizzazione fa capire che si sente il bisogno di essere accuditi o incoraggiati nella sopportazione del dolore.

Dott. Walter La Gatta

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Foto di Andrea Piacquadio

 

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Mosè di Michelangelo

1913 Freud studia il Mosè di Michelangelo

1913 Freud studia il Mosè di Michelangelo

Freudiana

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In genere “l’incomparabile bellezza di Roma” riusciva a ritemprare lo spirito di Freud. E fu per questo che, dopo la dolorosa separazione da Jung, Freud decise di fare un altro viaggio in Italia.

Questa volta però non aveva voglia di perdersi fra i ruderi dei templi antichi: la sua attenzione era tutta per il Mosè di Michelangelo che fa parte del complesso monumentale per la tomba di papa Giulio II a Roma, nella basilica di San Pietro in Vincoli.

Il fondatore della psicoanalisi quasi ogni giorno, per diverse ore, andava a contemplare il gigante di pietra, che incuteva una “calma solenne, quasi oppressiva”.

Non essendo un esperto d’arte, Freud si avvicinò alla statua con gli strumenti della psicoanalisi, cercando di interpretare i sentimenti e i motivi profondi che l’artista potrebbe aver espresso attraverso la sua opera.

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Freud si concentrò in particolare sulla posizione delle mani di Mosè e sul suo atteggiamento complessivo, cercando di comprendere il conflitto interiore che Mosè sembra esprimere. Egli interpretò la figura di Mosè come quella di una persona che lotta contro la rabbia e la furia che sente in se, essendo rimasto profondamente deluso dal suo popolo  (episodio del vitello d’oro), ma che riesce a trattenersi, non spezzando le tavole della legge che tiene in mano.

Freud vede in questo autocontrollo la chiave dell’opera di Michelangelo: l’artista avrebbe ritratto un Mosè non solo pieno di ira, ma anche capace di dominarla, un’immagine di grande forza interiore.

Freud pensava che il Mosè in pietra fosse molto diverso da quello biblico, in quanto Michelangelo era riuscito ad imprimere alla parte inferiore del corpo un senso di stabilità che contrastava con la rabbia di Mosè raccontata nella Bibbia, con quella sua voglia di scagliare le tavole dei comandamenti sul popolo di Israele.

Nel suo primo accesso di furia – pensava Freud – Mosè provò il desiderio di agire, di balzare in piedi, vendicarsi e dimenticare le tavole. Nella posizione seduta però, aveva ormai dimenticato la furia e il suo destino era quello di restare seduto, immobile, nella rabbia pietrificata, in un misto di dolore e disprezzo. Un po’ come lui stesso nei confronti del suo allievo prediletto Jung, che lo aveva da poco abbandonato.

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La gigantesca struttura di marmo, con la sua tremenda forza fisica, diventò per Freud una espressione concreta del più alto risultato che un uomo possa conseguire con la mente e cioè “condurre con successo la lotta contro le passioni interiori per il bene della causa a cui egli si è dedicato”.

Contemplare il Mosè era dunque un modo per dar voce all’inesprimibile dolore del sacrificio e della collera.

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Questa lettura psicoanalitica di un’opera d’arte ha avuto una grande influenza non solo sullo studio dell’arte, ma anche sul modo in cui si possono esplorare le emozioni e le motivazioni umane attraverso le opere artistiche.

Nel 1913 Freud scrisse anche un saggio su Il Mosè di Michelangelo, che pubblicò in forma anonima. Venti anni più tardi scrisse: “Provo per quest’opera lo stesso sentimento per un figlio illegittimo. Per tre solitarie settimane del settembre 1913 sono andato ogni giorno nella chiesa a contemplare la statua e l’ho studiata, misurata, disegnata, fino a che non ho catturato la scintilla di comprensione che poi, nel saggio, ho osato esprimere soltanto restando anonimo. E’ dovuto passare molto tempo prima che riuscissi a legittimare questo figlio nato fuori dalla psicoanalisi”.

Il saggio “Il Mosè di Michelangelo” fu pubblicato nel 1914 sulla rivista tedesca Imago, la rivista di psicoanalisi da lui stesso fondata. 

Fonti:
Donn L. Freud e Jung, Leonardo
Freud, Il Mosé di Michelangelo, Boringhieri

Dott.ssa Giuliana Proietti

Intervento del 14-09-2024 su Sessualità e Terza Età
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Il desiderio sessuale nella donna infertile
Relazione presentata al Congresso Nazionale Aige/Fiss del 7-8 Marzo 2025 a Firenze. 

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Psicoterapeuta Sessuologa
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La Dottoressa Giuliana Proietti, Psicoterapeuta Sessuologa di Ancona, ha una vasta esperienza pluriennale nel trattamento di singoli e coppie. Lavora prevalentemente online.
In presenza riceve a Ancona Fabriano Civitanova Marche e Terni.

  • Delegata del Centro Italiano di Sessuologia per la Regione Umbria
  • Membro del Comitato Scientifico della Federazione Italiana di Sessuologia.

Oltre al lavoro clinico, ha dedicato la sua carriera professionale alla divulgazione del sapere psicologico e sessuologico nei diversi siti che cura online, nei libri pubblicati, e nelle iniziative pubbliche che organizza e a cui partecipa.

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  • 4 Ott 2024
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Il disgusto: un'emozione in genere molto utile

Il disgusto: un’emozione in genere molto utile

Il disgusto: un’emozione in genere molto utile

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Il disgusto è una delle emozioni fondamentali che ogni essere umano sperimenta. Spesso è associato a una reazione fisica di ripulsa, ma questa emozione non si limita a manifestarsi solo di fronte a stimoli sgradevoli dal punto di vista sensoriale, come il cattivo odore o il sapore sgradevole. Il disgusto, infatti, ha un ruolo più profondo, intrecciato con il nostro senso di identità, morale e sopravvivenza.

Cosa è il disgusto?

Il disgusto è una delle sette emozioni universali e nasce come un sentimento di avversione verso qualcosa che non gradiamo.

Cosa ci crea disgusto?

Possiamo sentirci disgustati da qualcosa che percepiamo con i nostri sensi fisici (vista, olfatto, tatto, udito, gusto), ma anche dalle azioni o dalle apparenze di persone e cose, e persino da alcune idee.

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Il disgusto è un’emozione utile?

Si, in quanto è capace di tenerci lontani da situazioni o sostanze che potrebbero rivelarsi per noi potenzialmente pericolose. Lo psicologo Paul Rozin, noto per i suoi studi sul disgusto, ha identificato come questa emozione sia essenzialmente una “difesa contro la contaminazione”. Questo meccanismo, a suo avviso, è stato cruciale per la nostra sopravvivenza come specie: evitare cibi marci, cadaveri e altre sostanze pericolose ha ridotto il rischio di malattie e avvelenamenti.

Quando si inizia a provare disgusto?

Lo si comincia a provare sin da piccolissimi ed è, almeno all’inizio, strettamente legato al rifiuto di sapori e odori che non si gradiscono. Si tratta dunque anzitutto di una reazione neurochimica, che però con il tempo può acquisire anche un significato psicologico (tutto ciò che è ripugnante e sporco, ivi compresi valori, pensieri, persone, fra cui, in alcuni casi, anche se stessi).

Disgusto e rabbia possono a volte andare insieme?

Si, se la persona disgustata si arrabbia per essere stata costretta a provare la spiacevole sensazione del disgusto.

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Cosa ci procura disgusto?

In genere producono la sensazioni di disgusto:

  • Prodotti corporei espulsi come feci, vomito, urina, muco e sangue
  • Alcuni cibi (spesso di culture diverse dalla nostra)
  • Qualcosa di marcio, malato o morente
  • Lesioni, interventi chirurgici e/o esposizione a parti interne del corpo
  • Una persona, un animale o una cosa che si considera fisicamente brutta
  • Perversioni o azioni percepite da altre persone (come certe inclinazioni sessuali, tortura o servitù)

Il disgusto è un’emozione universale?

Si, ma non tutti i fattori svolgono lo stesso ruolo nelle diverse culture: lo sono ad esempio la vista degli escrementi, ma riguardo al cibo, ad esempio, c’è una notevole variabilità fra le diverse popolazioni.

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Il disgusto colpisce in primo luogo lo stomaco?

Non sempre, ma spesso. Non a caso si usa il  termine “stomachevole”, perché il senso di disgusto lo si avverte frequentemente nello stomaco.

Cosa  altro determina la sensazione di disgusto sul corpo?

Tipico del disgusto profondo è il fenomeno della “orripilazione”: si può dire, con significato metaforico, che qualcosa per noi è “orripilante”, ma si può effettivamente provare, in risposta al disgusto, un irrigidimento del corpo, tanto che “il pelo diventa irto”. Se il disgusto è connotato soprattutto al senso del gusto, dunque nel suo significato più proprio, ciò che si prova in genere è un associato senso di nausea, specialmente nei riguardi degli odori e dei sapori. Anche il senso di nausea può avere valenze psicologiche.

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Quando il disgusto raggiunge il suo apice?

Il disgusto è tanto maggiore quanto più si è in contatto con un oggetto che risulta sgradito e implica il desiderio di allontanarsi, o di allontanare la presenza di ciò che crea l’emozione negativa.

Come si riconosce l’emozione facciale del disgusto?

L’espressione facciale del disgusto è facilmente riconoscibile: essa consiste nell’arricciare il naso o nel sollevare il labbro inferiore. Può essere spontanea, ma anche riprodotta su base volontaria.

Come si può suscitare la sensazione di disgusto?

Per suscitare la sensazione di repulsione o disgusto non è necessaria la percezione sensoriale dell’oggetto, ma sono sufficienti le sue riproduzioni, come un disegno o una fotografia. (Si pensi al disgusto per gli escrementi, per i serpenti, ecc. che può trasformarsi in fobia, ossia paura irrazionale di venire a contatto con l’oggetto o nell’ossessione di esserne contaminati).


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Quali persone sperimentano il disgusto più delle altre?

Gli ossessivi, in genere, sperimentano il disgusto più frequentemente delle altre persone e sono particolarmente sensibili a questa emozione perché sono di solito portati alla diffidenza e al disprezzo. Ciò deriva dalle forti e spesso ingiustificate aspettative che essi hanno nei confronti degli altri, che generano degli atteggiamenti ipercritici , i quali non possono che provocare allontanamento sociale e disprezzo. (Mancini, 1998)

Oltre al disgusto fisico, esiste anche una dimensione morale del disgusto?

Si. Esprimiamo questa emozione di fronte a comportamenti o azioni che consideriamo immorali o inaccettabili. Per esempio, atti di crudeltà o corruzione possono suscitare una sensazione di disgusto morale, che è profondamente radicata nel nostro sistema di valori.

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Disgusto e disprezzo sono collegati?

Disgusto e disprezzo sono spesso collegati, ma possono essere utilizzati anche per scopi positivi. I genitori, gli insegnanti, gli educatori, ad esempio, si servono spesso della mimica del disgusto-disprezzo per suscitare sentimenti di repulsione o di vergogna nei loro modelli educativi.

Quali patologie esprimono il disgusto come sintomo?

Il disgusto gioca anche un ruolo centrale in alcuni disturbi psicologici. Ad esempio, persone con disturbo ossessivo-compulsivo (OCD) possono sperimentare livelli estremi di disgusto legati a paure di contaminazione, che si traducono in rituali di pulizia o di evitamento. 

Anche nei disturbi alimentari, come l’anoressia e la bulimia, il disgusto è una componente significativa. Le persone che ne soffrono possono provare disgusto nei confronti del cibo o del proprio corpo, che diventa un veicolo per l’espressione di emozioni negative.

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