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Bullismo omofobico nella scuola italiana

Il bullismo omofobico nella scuola italiana

Il bullismo omofobico nella scuola italiana

Psicolinea 20+anni di attività


Articolo datato

Roberto è un ragazzo di 17 anni dal modo di fare leggermente effeminato. Non ama molto andare a scuola e gli piacerebbe cominciare a lavorare come elettricista. Ama lavorare su circuiti elettronici. Per questo frequenta un istituto professionale che gli consente di ottenere un diploma di tecnico delle industrie elettroniche. Tuttavia a scuola ha grossi problemi con i compagni, tutti di sesso maschile. Lo chiamano continuamente con offese come checca, frocio, ricchione, ecc.

Nessuno lo chiama quasi più con il suo nome, se non i professori. Non riesce a stringere amicizia con nessuno dei compagni perché chiunque gli è stato “troppo” vicino veniva etichettato come gay a sua volta sulla base di un processo simile al contagio delle malattie infettive. Negli ultimi tempi le cose vanno peggiorando; alle offese frequenti si sommano anche gli scherzi nei suoi confronti.

Durante un laboratorio a scuola alcuni suoi compagni lo hanno immobilizzato e gli hanno somministrato scosse elettriche nelle parti intime gridando frasi come “ti piace frocio pervertito?”. Ora Roberto si rifiuta di tornare a scuola. Si sente depresso e allo stesso tempo nervoso. Di notte spesso ha incubi collegati a episodi avvenuti a scuola in cui veniva offeso, deriso o aggredito. A volte gli capita di pensare al suicidio; questa sarebbe, secondo lui, l’unica soluzione alla sua sofferenza.

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Bullismo e bullismo omofobico

Il caso appena descritto rappresenta alcuni degli elementi chiave del bullismo cosiddetto “omofobico”. Il bullismo è un termine adottato da Olweus nelle sue ricerche a partire dalle fine degli anni ’70 per indicare quelle aggressioni, siano esse verbali, fisiche o relazionali, ripetute secondo schemi precisi tra i banchi di scuola.

Nella letteratura scientifica (Prati et al., 2009) si sta studiando sempre di più il bullismo omofobico come forma distinta da altre tipologie di bullismo. Prima di tutto si vuole chiarire che il bullismo a sfondo omofobico è rivolto a quei compagni, siano essi di genere maschile o femminile, che sono percepiti come devianti in termini di identità di genere (sentirsi di appartenere al genere maschile o femminile), ruolo di genere (avere per esempio comportamenti, preferenze tipicamente femminili o maschili secondo una data società) o orientamento sessuale (avere preferenze affettive e sessuali per persone dell’altro sesso, dello stesso sesso o di entrambi). Il bullismo omofobico è motivato dal disprezzo nei confronti di tutto ciò che concerne l’omosessualità e riguarda tutti gli atti di bullismo che vanno a colpire chi è o viene etichettato come omosessuale o atipico rispetto al ruolo di genere o all’identità di genere. In altre parole non è necessario essere omosessuali per divenire bersaglio del bullismo omofobico: per esempio, vi sono numerosi casi di ragazzi e ragazze offesi con termini quali “frocio” o “lesbica di merda” solamente per il fatto di avere modi di fare leggermente effeminati o mascolini, oppure per una preferenza atipica come la danza per gli uomini e il calcio per le donne.

La diffusione del bullismo

Quanto è diffuso il bullismo omofobico? Per rispondere a questa domanda è stata condotta una ricerca all’interno di un ampio progetto denominato “Interventi per la prevenzione contro il bullismo a sfondo omofobico” co-finanziato dal Ministero del Lavoro, Salute e Politiche Sociali, (ai sensi della L. 383/2000, anno 2007, lett. F) e realizzato da Arcigay – Associazione lesbica e Gay Italiana. Allo scopo di raccogliere un campione rappresentativo di studenti italiani si è deciso di selezionare un campione casuale di classi all’interno di un campione di 20 scuole selezionate casualmente dal sito dell’anagrafe delle scuole secondarie di secondo grado. Tra i dirigenti scolastici delle scuole selezionate, dieci (50%) hanno negato la propria collaborazione.

Agli studenti coinvolti è stato chiesto di compilare un questionario volto a investigare atti di bullismo omofobico subiti, osservati e agiti ne confronti sia di compagni che di compagne. Il campione dello studio è costituito da 863 studenti. Il 39,3% degli studenti (n = 326) è di sesso maschile. L’età media è di 17,3 (DS = 1,6) con un minimo di 15 anni e un massimo di 22.

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Risultati

Solo un terzo degli studenti non ha udito epiteti omofobi e prese in giro nei confronti di maschi nell’ultimo mese a scuola. Per uno studente su cinque queste espressioni fanno parte della vita scolastica quotidiana. Uno studente su 13 ha assistito almeno una volta nell’ultimo mese ad aggressioni omofobe di tipo fisico (calci e/o pugni) ne confronti di un compagno di sesso maschile. Nei confronti delle femmine i comportamenti più frequenti sono epiteti, prese in giro e dicerie.

Circa metà degli studenti riportano di avere utilizzato epiteti nei confronti di amici e compagni che si pensava gay e circa un quarto degli studenti riporta di averli utilizzati nei confronti di un’amica e nei confronti di una compagna che si pensava fosse lesbica. Un totale di circa 172 studenti (19,93%) potrebbe rientrare nei criteri di bullo secondo i criteri di Fonzi (1997), avendo commesso almeno una tipologia fra i comportamenti indicati con cadenza settimanale nell’ultimo mese. Un totale di 32 studenti (3,71%) hanno subito atti di bullismo omofobico a scuola con una cadenza almeno settimanale. Essi possono essere considerati vittime secondo i criteri di Fonzi (1997). Ciò significa che in buona parte delle classi mediamente è presente uno studente o studentessa vittima di bullismo omofobico.

Prof. Gabriele Prati

Riferimenti bibliografici

Fonzi A. (1997), Il bullismo in Italia. Il fenomeno delle prepotenze a scuola dal Piemonte alla Sicilia. Ricerche e prospettive d’intervento, Firenze, Giunti.

Prati G., Pietrantoni L., Buccoliero E., Maggi M. (2009), Il bullismo omofobico, Milano, Franco Angeli.

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Prof. Gabriele Prati
Prof. Gabriele Prati

Il Prof. Gabriele Prati insegna Psicologia giuridica e psicologia sociale presso l’Università degli Studi di Bologna. Email: gabriele.prati@unibo.it

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  • 1 Gen 2010
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Andersen e l'allegoria pessimista della vita

Andersen e l’allegoria pessimista della vita

Andersen e l’allegoria pessimista della vita

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Il racconto quasi-autobiografico della Sirenetta dal 19° secolo è ancora fonte di ispirazione per migliaia di bambini che si trovano ad affrontare lo stesso problema: cambiare la loro natura. L’oggetto del loro desiderio rimane inaccessibile. Poi leggono La Sirenetta, perché questa storia parla del loro malessere con parole … senza speranza. Senza soluzioni. Senza rimedi.

Questa è la storia di un uomo che vorrebbe diventare una bellissima sirena … Si mette le sue più belle mutandine di pizzo nero, si epila, in modo da avere il corpo liscio di una ninfa e si inietta la sua dose giornaliera di ormoni … prima di sprofondare in un incubo di 60 minuti. E’ così difficile cambiare identità. Il regista, Kim Kyung-Mook lo sa.

Quando fece il suo primo film a 19 anni (Me and doll playing), egli raccontò come da bambino indossava scarpe e abiti di sua madre per somigliare ad una bambola Barbie … era felice perché tutto sembrava possibile. Nell’adolescenza però… capì che i suoi desideri erano impossibili. Realizzò così A Cheonggyecheon dog,, la storia della sirenetta (1) implementato nella città di Seul, sul fiume Cheonggyecheon: fino al 2005, il fiume era solo una fogna a cielo aperto. Trasportava solo  residui fecali e carcasse di cani morti.

Ora lungo le sue rive si possono vedere i marchi del lusso internazionale: Gucci, Prada e Swatch, che attirano mezzo milione di escursionisti ogni giorno … La città riesce nel suo cambiamento, ma non l’uomo. Alla fine del film, l’eroe si ritrova come la sirenetta di fronte alla schiuma bianca del fiume in cui si dissolvono le sue lacrime. “Tu non potrai mai diventare la bellezza dei tuoi sogni”.

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Invitato al Black Movie Festival di Ginevra, Kim Kyung-Mook ha detto:

“Quando ho fatto il film, ero abbastanza disperato. La favola di Andersen, La Sirenetta, ha parlato al mio cuore perché descrive perfettamente la mia situazione, quella di un ragazzo che sogna il    principe azzurro, ma a cui il suo corpo impedisce di amare liberamente. Ho avuto l’impressione di essere come questa sirena che vorrebbe avere le gambe al posto della coda di pesce e avrebbe sofferto mille morti pur di essere in grado di cambiare la propria natura… Ella si amputa e soffre invano “.

Il Principe non la guarda nemmeno. Lui è interessato solo agli esseri umani reali. Il sacrificio doloroso della sirena si dissolve in una canzone d’amore dalla musica sciropposa che finisce male. Per Kim Kyung-Mook ecco dove finisce la favola di Andersen. In un pozzo senza fondo di tristezza impossibile da risolvere. “Ora sto meglio”, ha detto. Come a scusarsi per aver fatto un film che finisce male: “Ora sto meglio”

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Certo, Hans Christian Andersen non ha scritto storie molto felici. Forse non ha scritto neanche storie per bambini … ma per aspiranti suicidi. O per persone in difficoltà. Quando non stai bene, diventa quasi un conforto leggere che il mondo è cattivo, che anche i ricchi e famosi possono sprofondare nella depressione e che nessuna storia d’amore finisce lontano dal fallimento. Quando non si sta bene, le canzoni strappalacrime, i drammi all’acqua di rose e i messaggi compassionevoli danno un certo sollievo … Diventa allora facile identificarsi nell’eroe sfortunato: la sirenetta (2), la piccola fiammiferaia, Cristo, o altri. “Non sei solo nella sofferenza”. “Asciugati le lacrime, perché in un’altra vita …”. False promesse. Dolci illusioni. Ci si aggrappa a qualsiasi cosa, quando non va bene. Compresa l’idea, così rassicurante, che qui il mondo è fottuto, ma altrove, in un altro mondo, la tua sofferenza sarà premiata.

Hans Christian Andersen sembra non aver mai fatto altro in vita sua che essere infelice e trasformare questa sfortuna in una pia lezione di abnegazione. La docente di Filosofia della Sorbona, Céline-Albin Faivre, lo descrive come una vera vittima del destino: “romantico e dunque infelice, Andersen lo è integralmente, dice. Quando Andersen padre, un povero calzolaio, si sposò, comprò la bara di un morto, e poi ne fece il suo letto nuziale, dove nacque il futuro orfano Hans Christian. Quale miglior inizio per uno scrittore di fiabe? ” Céline-Albin sembra provare tenerezza verso questo “genio malinconico” dalla figura sgraziata e dal viso allungato.

Hans Christian Andersen era brutto. Era di umili origini. Era omosessuale. Era innamorato del figlio del suo benefattore (3). E il figlio del suo benefattore, al quale scrisse lettere a volte attraversate da confessioni non era interessato a lui … Non potendo vivere liberamente la sua omosessualità, Hans Christian Andersen si masturbava e si divertiva a scrivere racconti crudeli impregnati di morale cristiana. “Ci sono vite la cui storia fa parte del lavoro letterario che seguirà, dice Céline-Albin Faivre. (…) Andersen non fa eccezione a questo principio letterario, spesso misconosciuto. E così ha scritto la sua autobiografia, più volte, sotto diverse forme, intrisa di orgoglio e commovente, malgrado tutto. Era solito dire che la sua vita era stata una favola. Tutti i bambini tristi trovano in questa credenza una consolazione”.

Relazione La sessualità femminile fra sapere e potere

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Per consolarsi di essere così infelice, Hans Christian Andersen ha fatto della sua vita un modello da seguire: ha rifiutato i piaceri della carne, non ha conosciuto l’amore e ha vissuto solo nell’amore dell’infinito sublime che è la fede. “La storia della mia vita, ha scritto, dice al mondo quello che mi ha insegnato: c’è un Dio amorevole che organizza tutto per il meglio.”

Andersen quindi non comunica altro messaggio, se non quello della rassegnazione. Una rassegnazione bella, commovente e soprattutto … Assoluta. Assolutamente fatale. “I racconti di Andersen sono senza moralina dice Céline-Albin Faivre, non c’è niente lì, se non un cuore puro che si restringe gradualmente, sempre di più, ma continua a lottare per un altrove”. Questo è Andersen, si tratta di una miscela intima di dolore e di estasi che è l’essenza della vita, dice Krotchka nel suo blog d’arte. Il racconto illustra non tanto un discorso morale (purezza e perseveranza premiate) ma un’allegoria pessimista della vita.

Pessimistico? E’ dire poco. Le storie di Andersen, spesso prive dell’happy end, finiscono male come le leggende dei martiri e descrivono con la stessa gioia sadica, le peggiori torture possibili inflitte a degli innocenti: morsi, ustioni, stanchezza, fame, solitudine, freddo, paura, abusi, disprezzo, abbandono … Mentre nella maggior parte dei racconti popolari, gli eroi riescono a superare le difficoltà affrontate con coraggio, nei racconti di Andersen i protagonisti soffrono “per niente”.

I loro sforzi sono vani. Inutile essere coraggiosi o ambiziosi. Condannate ad attraversare ogni girone di questo inferno che è la vita, le vittime di Andersen quasi sempre finiscono per morire, con gli occhi ancora immersi nei loro sogni. Alzando lo sguardo a quel cielo che Andersen descriveva con le parole di un predicatore, come l’unico posto desiderabile in questo mondo. Lassù, dove non si soffre più. Lassù, dove dunque deve essere il paradiso.

Bella lezione di disperazione, davvero. Alla quale si aggrappano migliaia di bambini e adolescenti che considerano il loro corpo come una prigione e come fonte di ogni sofferenza. “Non avrò mai le gambe dei miei sogni” … Mentre se leggessero la storia del brutto anatroccolo, essi saprebbero che … Non è una fatalità.

__________________

Nota 1 / Storia della Sirenetta: La Sirenetta, orfana di madre, vive nelle profondità del mare, con il padre (il re del Mare) e le sue cinque sorelle. La notte dei suoi quindici anni, sale in superficie dell’acqua e si innamora perdutamente di un giovane principe che salva da un naufragio. Per trovarlo, la sirenetta si rivolge ad una strega: ciò che desidera è avere un paio di gambe. La strega impone tre condizioni: in primo luogo, la sirenetta deve accettare di tagliarsi la lingua e diventare muta. In secondo luogo, ad ogni passo, dovrà avere la sensazione di camminare su aghi e lame taglienti. Ultima condizione: se mai il principe si innamorasse di un’altra donna e la sposasse, la sirenetta si trasformerebbe in schiuma. La sirenetta è disposta a fare questi sacrifici e accetta l’offerta. Trova il principe, ma lui non la riconosce. Lui cerca il volto sconosciuto che lo ha salvato dal naufragio. Ma la sirenetta, priva di voce, non può rivelare la sua identità, e il principe finisce per sposare un’ altra. La sirenetta si trasforma in schiuma. Le figlie dell’aria vengono a prenderla in modo che diventi una di loro. Condannata per un certo periodo a diffondere il bene intorno a lei, vive nella speranza di acquisire un’anima eterna e di partecipare, così, alla felicità del genere umano …

Nota 2 / “La Sirenetta è uno dei 166 racconti di Hans Christian Andersen che furono pubblicati nel 1837, nella terza sezione della prima raccolta di storie raccontate ai bambini. Se Andersen ha dedicato molta energia ai suoi racconti, è perché non li considerava solo come mero intrattenimento per i bambini: essi incarnavano le sue teorie estetiche e poetiche, e soprattutto, parlavano della sua anima. “(source : Dossier pédagogique, espace des arts)

Nota 3 / “Ti desidero, come se fossi una bella ragazza calabrese. I miei sentimenti per te sono quelli di una donna. Ma la femminilità della mia natura e il nostro amore deve rimanere segreto”. Nel 1835,  Andersen aveva 30 anni quando scrisse queste parole a Edward Collin, che le riportò nelle sue memorie pubblicate dopo la morte dello scrittore: ” Non ero in grado di rispondere a questo amore, e questo fece molto soffrire Andersen “. (Fonte: Homosexuels et bisexuels célèbres).

Agnès Giard

Articolo originale:
Les contes sexuellement suicidaires d’Andersen, Les 400 culs
Traduzione a cura di Psicolinea.it

Immagine:
Bertall, Wikimedia

Una Conferenza sulla Paura

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A33/A13

Audrey Hepburn: talento, grazia e impegno umanitario
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Antoine de Saint-Exupery: una biografia
Antoine de Saint-Exupery: una biografia

Agnes Giard
Dr. Agnes Giard

Agnès Giard autrice di libri, giornalista e dottore in antropologia, ha lavorato in passato su nuove tecnologie, artisti underground e cultura popolare giapponese, prima di dedicarsi alla sessualità. Nel 2000, è diventata corrispondente per la rivista giapponese SM Sniper con cui lavora da più di dieci anni. Nel 2003 ha pubblicato un libro d’arte in Giappone: Fetish Fashion poi ha iniziato una serie di ricerche che saranno pubblicate in collaborazione con artisti contemporanei giapponesi come Tadanori Yokoo, Makoto Aida, Toshio Saeki, etc. Il suo primo libro, L’Imaginaire érotique au Japon, tradotto in giapponese, è classificato 4 ° tra i libri stranieri più venduti. La sua biografia completa è disponibile qui:
http://sexes.blogs.liberation.fr

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  • 5 Feb 2013
  • Dr. Agnes Giard
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Omofobia ed eterosessismo

Omofobia ed eterosessismo: definizioni e storia

Omofobia ed eterosessismo: definizioni e storia

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Omofobia ed eterosessismo sono termini molto importanti per comprendere le dinamiche di discriminazione e privilegio legate all’orientamento sessuale. Cerchiamo allora di saperne di più.

  • Omofobia

E’ un termine che si riferisce a un insieme di atteggiamenti, sentimenti e comportamenti negativi verso le persone omosessuali. La parola deriva dal greco “homos” (uguale) e “phobos” (paura), e il termine significa letteralmente “paura dell’uguale”, ovvero la paura degli eterosessuali di trovarsi a stretto contatto con gli omosessuali, una paura che spesso si manifesta piuttosto come avversione, pregiudizio e discriminazione nei confronti delle persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender (LGBT).


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  • Eterosessismo

E’ un concetto strettamente collegato all’omofobia, ma si riferisce a un sistema di credenze e pratiche che privilegia l’eterosessualità e assume che questa sia la norma naturale e superiore rispetto ad altri orientamenti sessuali. L’eterosessismo si manifesta in vari modi, inclusi la discriminazione istituzionale, le norme sociali e culturali, e la marginalizzazione delle persone non eterosessuali.

Quale è la storia del termine “omofobia”?

Il termine “omofobia” fu coniato per la prima volta dal Dr. George Weinberg, uno psicologo clinico, nel suo libro “Society and the Healthy Homosexual” pubblicato nel 1972. Weinberg introdusse il termine per descrivere la paura, l’odio e il disprezzo che molti eterosessuali provano nei confronti delle persone omosessuali, o talvolta gli omosessuali verso se stessi (self loathing).

La diffusione del termine contribuì a rendere più visibile la discriminazione contro le persone LGBT, stimolando il dibattito pubblico e accademico sulla necessità di combattere tali pregiudizi.

Negli anni successivi, il termine omofobia è stato adottato da movimenti per i diritti civili e da organizzazioni per i diritti LGBT in tutto il mondo ed è stato oggetto di approfondimento anche da parte della ricerca scientifica.

Ad esempio, secondo Ross e Rosser (1996) il termine omofobia indicava una concezione negativa dell’omosessualità, piuttosto che denotare una fobia o la paura degli omosessuali. Anche Szymanski (2004) notava che gli atteggiamenti negativi contro i gay e le lesbiche non erano necessariamente irrazionali o il riflesso di una paura, ma potevano essere delle scelte intenzionali contro la minaccia percepita dal gruppo dominante, o comunque finalizzata ad imporre valori culturali e religiosi.

Sono state quindi proposte definizioni diverse, come ‘omonegativismo’, ‘omosessismo’, ‘eterosessismo’ per esprimere una designazione esclusiva dell’intero universo di atteggiamenti negativi verso l’omosessualità e le persone omosessuali (dal pregiudizio individuale alla violenza personale, alla discriminazione istituzionalizzata).

Il termine omofobia è comunque rimasto in uso e serve oggi per definire o riconoscere le molteplici forme di discriminazione subite dalle persone omosessuali, inclusi bullismo, violenza fisica, discriminazioni sul lavoro e in altri ambiti della vita quotidiana.

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Da quando si parla di eterosessismo?

Il concetto di eterosessismo è più recente rispetto a quello di omofobia ed è emerso come parte della critica teorica e sociologica del patriarcato e delle norme sessuali. L’uso del termine “eterosessismo” si è diffuso negli anni ’80 e ’90, grazie al lavoro di teorici e attivisti queer che hanno messo in luce come l’eterosessualità fosse implicitamente e sistematicamente privilegiata nelle società occidentali.

Secondo Herek (1996), l’eterosessismo è ‘il sistema ideologico che rifiuta, denigra e stigmatizza ogni forma di comportamento, identità, relazione o comunità di tipo non eterosessuale’. Esso si manifesta sia a livello individuale che a livello culturale, pervadendo i costumi e le istituzioni sociali.

In particolare, l’eterosessismo si può manifestare attraverso leggi e politiche che escludono le persone LGBT, la rappresentazione mediatica che marginalizza o stereotipa le identità non eterosessuali, e le pratiche culturali che rafforzano l’idea che l’eterosessualità sia l’unico orientamento sessuale normale e desiderabile. Criticare l’eterosessismo significa dunque sfidare queste norme e lavorare per una maggiore inclusività e uguaglianza.

Omofobia ed Eterosessismo oggi

Negli ultimi decenni, ci sono stati significativi progressi nella lotta contro l’omofobia e l’eterosessismo. Movimenti per i diritti civili, come Stonewall negli Stati Uniti nel 1969, hanno dato impulso alla lotta per i diritti LGBT. La legalizzazione del matrimonio tra persone dello stesso sesso in molti paesi e l’adozione di leggi anti-discriminazione rappresentano passi importanti verso l’uguaglianza.

Tuttavia, in molti paesi del mondo, le persone LGBT affrontano ancora gravi discriminazioni e violenze.

Dott.ssa Giuliana Proietti

Una intervista sulla violenza domestica

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Giuliana Proietti
Dr. Giuliana Proietti

Dr. Giuliana Proietti
Psicoterapeuta Sessuologa
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La Dottoressa Giuliana Proietti, Psicoterapeuta Sessuologa di Ancona, ha una vasta esperienza pluriennale nel trattamento di singoli e coppie. Lavora prevalentemente online.
In presenza riceve a Ancona Fabriano Civitanova Marche e Terni.

  • Delegata del Centro Italiano di Sessuologia per la Regione Umbria
  • Membro del Comitato Scientifico della Federazione Italiana di Sessuologia.

Oltre al lavoro clinico, ha dedicato la sua carriera professionale alla divulgazione del sapere psicologico e sessuologico nei diversi siti che cura online, nei libri pubblicati, e nelle iniziative pubbliche che organizza e a cui partecipa.

Per appuntamenti:
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mail: g.proietti@psicolinea.it

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  • 30 Mag 2024
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Freud, il caso del presidente Schreber, la paranoia

Freud, il caso del presidente Schreber, la paranoia

Freud, il caso del presidente Schreber, la paranoia

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Il caso del Presidente Schreber rappresenta uno dei contributi più significativi di Sigmund Freud alla psicoanalisi: è un saggio del 1910, “Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia descritto autobiograficamente”. L’interesse di Freud al caso Schreber non era quello di approfondire la biografia dell’autore del libro, ma di leggere queste memorie in chiave psicoanalitica, per illustrare le sue teorie. In questo senso si è parlato di “patografie” freudiane. Cerchiamo di saperne di più.

  • Chi era Schreber

Daniel Paul Schreber (1842-1911) era un eminente giurista tedesco e presidente della Corte d’Appello di Dresda, diventato famoso non tanto per la sua carriera giuridica, quanto per il suo struggente racconto autobiografico della sua battaglia contro la malattia mentale, intitolato “Memorie di un malato di nervi” (1903).

Schreber era nato a Lipsia, in Germania, nel 1842, secondo dei cinque figli di Pauline e Daniel Gottlieb Moritz Schreber (1808-1861). Il padre era un famoso educatore, dalle idee molto rigide. Daniel aveva studiato legge ed era diventato un magistrato molto stimato alla Corte d’Appello di Dresda.

Nel 1893, quando aveva cinquantun anni, lo colpì una grave malattia mentale che lo costrinse a circa dieci anni di internamento in una clinica psichiatrica di Lipsia, seguito dallo stesso direttore dell’Istituto, l’anatomista P.E. Flechsig.

Dopo le dimissioni dalla clinica di Lipsia pubblicò le sue memorie, con il racconto dettagliato dei propri deliri ed il testo dei rapporti legali scritti su di lui dagli esperti.

Intervento del 14-09-2024 su Sessualità e Terza Età
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  • Il libro

Con queste Memorie, Schreber voleva dimostrare di non essere pazzo, a seguito di un suo ricorso in appello contro la sentenza di interdizione. Il ricorso venne sorprendentemente accolto, grazie a questo libro, e Schreber poté riprendere il suo posto.

Il libro era sicuramente interessante per la descrizione della malattia mentale, anche se mancava di dettagli importanti : non venivano infatti rivelati alcuni dati circa la famiglia del magistrato, la sua infanzia, la storia della sua vita prima del ricovero.

Anche la malattia non veniva descritta nel libro nella sua evoluzione cronologica, giorno dopo giorno, ma veniva rappresentata solo nella sua forma finale, quella che aveva provocato la necessità del ricovero.

Una Conferenza su Edward Bernays e l'invenzione della Propaganda

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  • Schreber e le sue allucinazioni

La crisi aveva avuto inizio quando un giorno, nel dormiveglia, il presidente Schreber si era trovato a pensare che dovesse essere «davvero molto bello essere una donna che soggiace alla copula». Da questo momento si sviluppò in lui un lungo delirio, nel quale erano implicati dèi, astri, demiurghi, complotti, catastrofi cosmiche, rivolgimenti politici. Al centro di tutto questo sconvolgimento era la convinzione del magistrato che un Dio doppio e persecutore lo stesse trasformando in una donna.

Schreber racconta dei suoi dialoghi col sole, gli alberi, gli uccelli, immaginandoli come frammenti di anime di persone decedute ed anche dei suoi dialoghi con Dio, il quale si rivolgeva a lui in un tedesco nobile e gli chiedeva di ristabilire l’Ordine del Mondo.

Ogni essere umano era, secondo la mente disturbata del magistrato, attraversato da sottilissimi nervi, posti nel corpo da Dio al momento della nascita. Questi nervi erano destinati a ricongiungersi alla divinità dopo la morte della persona e dunque erano il principio costitutivo dell’intelletto umano e delle sue facoltà spirituali, nonché la sede dell’anima. Le anime erano in comunicazione tra loro: parlavano in una lingua simile al tedesco arcaico, mentre Dio subiva la forza attrattiva di alcuni uomini, tanto da rischiare in questi casi di perdere la sua sopravvivenza.

Schreber descrisse con minuzia queste esperienze, che includevano conversazioni con Dio, angeli e altre entità soprannaturali.

  • L’Analisi di Freud

Freud non incontrò mai Schreber di persona; tuttavia, la sua analisi si basò sul testo autobiografico di Schreber, che gli venne proposto da Jung nel 1910. Freud ne fu subito molto impressionato, e scrisse a Jung che Schreber «avrebbe dovuto essere fatto professore di psichiatria». Così nacque il  famoso saggio freudiano universalmente noto come «il caso Schreber»

Tra tutti i deliri presenti nel libro, Freud si concentrò su due in particolare:

  1. il fatto che il magistrato fosse convinto di essere coinvolto in un processo di trasformazione da uomo in donna
  2. l’aver subito molestie sessuali da parte del suo medico, il Dr. Flechsig, definito
    l’ “assassino di anime”.

Freud affermò che le sue fantasie religiose e la convinzione di dover demascolinizzarsi per salvare il mondo facevano parte di una illusione, in base alla quale il magistrato assumeva il ruolo religioso di “redentore”.

Il desiderio di trasformarsi in una donna veniva interpretato come una “fantasia di demascolinizzazione” che soddisfaceva gli innati “impulsi omosessuali” di Schreber. (Per Freud era l’omosessualità rimossa la vera causa della malattia paranoide di Schreber).

Freud propose che la sfiducia di Schreber verso il professore che lo aveva in cura fosse il risultato di un transfert, cioè che i sentimenti provati verso un membro della propria famiglia si erano trasferiti verso la persona di Flechsig. Secondo la sua interpretazione, infatti, primo oggetto d’amore del magistrato era stato il padre, poi lo psichiatra, in seguito Dio. Flechsig poteva infatti rappresentare, per il suo paziente, la figura di Gustav, il fratello maggiore, verso il quale Freud ipotizza che Schreber avrebbe potuto provare sentimenti omosessuali repressi. La sua accusa a Flechsig di essere un “assassino dell’anima” non era quindi diretta verso il professore stesso, ma piuttosto verso suo fratello.

Dato che Schreber avrebbe ritenuto inaccettabile esprimere esplicitamente i suoi sentimenti repressi nei confronti di Flechsig, questo desiderio trovava appagamento in una fantasia: quella di copulare con un terzo, Dio.

Tuttavia, Freud nota che le caratteristiche insolite con cui Schreber descrive Dio somigliavano piuttosto a quelle di una figura paterna, per cui fece una seconda ipotesi: quella dell’attrazione omosessuale del magistrato nei confronti del padre.

In sintesi, Freud riteneva che la psicosi di Schreber fosse il risultato di un conflitto inconscio e di una difesa psicologica contro desideri omosessuali repressi e il delirio di Schreber rappresentava una forma di compromesso tra questi desideri e le sue difese contro di essi.

  • La Teoria della Paranoia

Freud utilizzò il caso di Schreber per sviluppare ulteriormente la sua teoria sulla paranoia e sulla psicosi. Egli suggerì che la paranoia fosse una difesa contro desideri omosessuali e che i deliri paranoidi riflettevano temi di persecuzione come risultato della proiezione di questi desideri su altre persone. Nel caso di Schreber, l’idea di essere perseguitato da forze divine o demoniache rappresentava un tentativo di gestire e difendersi contro i suoi desideri inaccettabili.

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  • Implicazioni e Critiche

Questa audace incursione freudiana nel campo degli oscuri processi della follia fu poi molto discussa nella letteratura psichiatrica posteriore. Tuttavia, essa non è stata esente da critiche. In particolare, è stata contestata la riduzione dei complessi sintomi di Schreber a un’unica causa psicodinamica: la psicosi, è stato detto, è un fenomeno troppo complesso per essere spiegato interamente da una teoria della sessualità repressa. Nonostante le critiche, il lavoro di Freud su Schreber continua ancora ad essere studiato e discusso.

  • Come è andata a finire per Schreber

Dopo la morte di sua madre, avvenuta nel 1907, il Presidente Schreber fu nuovamente confinato in manicomio, dove rimase fino alla sua morte, avvenuta nel 1911.

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La Dottoressa Giuliana Proietti, Psicoterapeuta Sessuologa di Ancona, ha una vasta esperienza pluriennale nel trattamento di singoli e coppie. Lavora prevalentemente online.
In presenza riceve a Ancona Fabriano Civitanova Marche e Terni.

  • Delegata del Centro Italiano di Sessuologia per la Regione Umbria
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Oltre al lavoro clinico, ha dedicato la sua carriera professionale alla divulgazione del sapere psicologico e sessuologico nei diversi siti che cura online, nei libri pubblicati, e nelle iniziative pubbliche che organizza e a cui partecipa.

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Un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci

Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci

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Leonardo da Vinci, il celebre artista, scienziato e inventore del Rinascimento, ha lasciato poche tracce scritte riguardanti la sua infanzia. Tuttavia, uno dei ricordi d’infanzia più famosi di Leonardo ci è giunto attraverso i suoi scritti e riguarda un sogno che ebbe da bambino, un sogno che influenzò profondamente il suo interesse per la natura e la curiosità scientifica.

Leonardo descrisse questo sogno in uno dei suoi taccuini, conosciuto come il “Codice Atlantico”. Il sogno riguarda un nibbio, che scese dal cielo e si posò sul suo volto mentre dormiva nella culla. Il nibbio introdusse la sua coda nella bocca del piccolo Leonardo. Questo evento onirico lo colpì profondamente, tanto che lo ricordò e lo trascrisse molti anni dopo.

Questo è il ricordo originale dell’artista fiorentino:

“Questo scriver si distintamente del nibbio par che sia mio destino perché nella prima ricordazione della mia infanzia e mi parea che, essendo io in culla, che un nibbio venisse a me e mi aprissi la bocca con la sua coda e molte volte mi percotessi con tal coda dentro alle labbra”.

Questo sogno è stato interpretato in vari modi dai biografi e studiosi di Leonardo. Alcuni hanno visto in esso un presagio della straordinaria curiosità e ingegno di Leonardo, che lo avrebbe portato a esplorare i segreti della natura con la stessa insistenza e penetrazione del nibbio che esplorava la sua bocca. Altri hanno suggerito che potrebbe rappresentare un simbolo della sua connessione con il volo e il cielo, temi che avrebbero giocato un ruolo centrale nei suoi studi e nelle sue invenzioni.

Anche Freud si interessò di questo sogno, e nel 1910 pubblicò “Un ricordo d’infanzia di Leonardo Da Vinci”, (Eine Kindheitserinnerung des Leonardo da Vinci), la sua prima psicobiografia, che fu poi rivista e corretta nelle edizioni del 1919 e del 1923.

L’inventore della psicoanalisi era letteralmente affascinato dalla figura di Leonardo da Vinci ed in particolare ammirava la sua curiosità scientifica, nella quale forse in parte si riconosceva.

Nonostante siano pochi i dati disponibili per scrivere una biografia completa di Leonardo, Freud si contentò, nello scrivere questo saggio, principalmente di questo ricordo di infanzia.

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Il saggio di Freud contiene intuizioni interessanti, ma anche grossolani errori dovuti ad una cattiva traduzione dei testi. In particolare, la parola “nibbio” fu tradotta nella versione tedesca con la parola “avvoltoio“.

Freud, infatti, fa nel suo saggio una serie di riferimenti colti al valore simbolico dell’avvoltoio e alla mitologia per spiegare l’omosessualità di Leonardo.  Infatti, per spiegare questa fantasia, Freud fa riferimento ai geroglifici egizi, che rappresentano la madre come un avvoltoio, perché gli egizi credevano che non ci fossero avvoltoi maschi e che le femmine della specie fossero ingravidate dal vento. Nella maggior parte delle rappresentazioni, la divinità materna dalla testa di avvoltoio era formata dagli egiziani in modo fallico, il suo corpo si distingueva come femminile per i seni, ma ricordava anche il pene in stato di erezione

Il ricevere passivamente in bocca la coda dell’uccello fece dunque pensare a Freud che Leonardo ricordasse la sua infanzia nell’atto della suzione al seno materno, ma anche in un probabile atteggiamento passivo e femminile, anticipatore della futura omosessualità. La coda rappresentava, secondo Freud, un simbolo fallico.

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Ciò che Freud voleva dimostrare era che alcuni lati del carattere di Leonardo, in particolare la sua instabilità creativa, la tendenza a lasciare incompiute le sue opere, la gentilezza femminea del suo carattere, fossero dovuti all’identificazione con la figura materna, all’interiorizzazione di essa, e quindi allo sviluppo di una personalità omosessuale.

Freud, nel libro, indaga anche sull’assenza della figura paterna nella crescita psicologica del bambino Leonardo.

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Leonardo era, infatti, figlio illegittimo e trascorse i suoi primi quattro anni di vita insieme alla madre, la quale probabilmente riversò su di lui tutto il suo amore, facilitando un legame incestuoso e la strutturazione di una personalità narcisistica. Freud ritenne che le pulsioni infantili di Leonardo si fossero poi trasformate, attraverso la sublimazione, in una ricerca del sapere e che questa sublimazione avesse interessato non solo la sessualità, ma anche l’aggressività.

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