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Author: Dr. Lanfranco Bruzzesi

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Cesare Pavese: una biografia

Cesare Pavese: una biografia

Cesare Pavese: una biografia


Cesare Pavese, celebre scrittore italiano del XX secolo, è noto per le sue opere letterarie intrise di introspezione e malinconia. Attraverso i suoi romanzi e le sue poesie, Pavese esplorò i temi dell’isolamento, della solitudine e della ricerca di significato nella vita, lasciando un’impronta indelebile nella letteratura italiana. Questa è la sua biografia.

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Cesare Pavese nacque a Santo Stefano Belbo, il 9 settembre 1908. Essere nato in questo paese fu quasi un destino in quanto la famiglia abitava da tempo a Torino e tornava a Santo Stefano soltanto d’estate per trascorrervi le vacanze.

Cesare nacque per caso fra quelle colline, le langhe, che ebbero tanta influenza nella sua vita. La famiglia era composta dal padre, cancelliere presso il tribunale di Torino, dalla madre, donna energica e di poche parole, dalla sorella Maria, nata sei anni prima; tre fratellini erano morti in tenera età.

Il nostro ragazzino frequentò la prima elementare nel paese di Santo Stefano a seguito di una malattia infettiva della sorella che costrinse la famiglia a rimanere nel paese.

Nel 1914, quando Cesare aveva soltanto sei anni, il padre, già malato da diversi anni, morì e da allora tutta la responsabilità della famiglia ricadde sulle spalle della madre che, come abbiamo già sottolineato, era una donna coraggiosa, austera, che non sapeva dimostrare il suo affetto se non lavorando per i figli. Certo è che la morte del padre e il carattere duro della madre causarono il primo vuoto nel cuore di Cesare; cominciò a svilupparsi una certa difficoltà di comunicazione nei confronti della madre.

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Terminate le elementari frequentò il ginnasio-liceo; le classi inferiori presso i Gesuiti dell’ “Istituto Sociale”(scuola per figli di nobili e di ricca borghesia dove Pavese non si trovò a proprio agio perché non riusciva ad ambientarsi tra quei ragazzi viziati e snob), quelle superiori al “Massimo D’Azeglio” dove ebbe come professore di italiano e latino Augusto Monti che ebbe invece un peso determinante nella formazione del giovane.

Amico di Gobetti e ammiratore di Gramsci, il professore, in piena età fascista, sviluppava nella scuola torinese gli insegnamenti di resistenza al regime mantenendo un comportamento severo e paterno con gli studenti e riuscendo nel contempo ad accattivarsene la stima e l’affetto. Pavese usciva entusiasta dalle lezioni e fece amicizia con il compagno di studi Mario Sturani.

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Dal 1931 al 1936 Cesare scrisse la prima stesura delle poesie “Lavorare stanca”. Nel frattempo, nel 1935 venne arrestato perché trovato in possesso di alcune lettere compromettenti e condannato a tre anni di confino da scontarsi in un piccolo paese della costa ionica, Brancaleone Calabro.

Debilitato da violenti attacchi d’asma, probabilmente di origine nervosa, fece domanda di grazia che gli valse la riduzione della pena. Quando però tornò a Torino venne a saper che la donna che amava e che indirettamente aveva causato il suo arresto (le lettere incriminate erano indirizzate a lei) si era sposata.

Cominciò la sua “tragedia privata” che lo indusse a cercare la solitudine. A nulla valse la pubblicazione di “Lavorare Stanca”, che oltre tutto era stato accolto con scarso interesse, né frequentare gli amici (i più importanti dei quali erano in carcere), verso i quali si sentiva in colpa per aver chiesto la grazia.

Ritornò intanto alle traduzioni e passò in breve dalla poesia alla prosa. Fra il 1938 e il 1941 scrisse “Il carcere”, Paesi tuoi”, “La bella estate”, e “La spiaggia” cominciando a lavorare per la casa editrice Einaudi con la quale aveva già avuto delle collaborazioni.

Verso la fine del 1940 nella vita di Pavese entrò la seconda donna di rilievo. Si chiamava Fernanda Pivano ed era stata sua allieva nei pochi mesi che aveva insegnato come supplente nella scuola Massimo D’Azeglio; si trattava di una ragazza bella, corteggiata, elegante e felice. Per Cesare rappresentava il modo di uscire dalla sua solitudine e, tutto intento a conquistarla intellettualmente, non chiese mai a Fernanda di baciarla.

Le leggeva le poesie di Montale, di Ungaretti e talvolta anche le sue. La pressione psicologica che si sentì esercitare spinse Fernanda a cambiare la sua vita da un piano di mondanità e allegria a un piano di studio per il quale poteva avvalersi delle acute intuizioni di Cesare Pavese. Poi un giorno lo scrittore ebbe il coraggio di chiederle la mano, ma Fernanda era troppo giovane per rispondergli di sì.

Nel 1943, con l’armistizio dell’8 settembre, Torino fu sottoposta ad una serie di bombardamenti e così Cesare andò a Serralunga di Crea, vicino Casale Monferrato, dove era sfollata sua sorella con la famiglia e questo periodo gli ispirò più tardi il racconto “La casa in collina”.

Finita la guerra, quasi volesse compiere un gesto di riparazione, si iscrisse al Partito Comunista iniziando anche una collaborazione con il quotidiano “L’Unità”. Nella redazione del giornale conobbe Davide Lajolo e poi Italo Calvino che portò alla casa Einaudi, dove nel frattempo aveva acquisito un ruolo di un certo rilievo, con l’intento di farlo conoscere (sua è la recensione a “Il sentiero dei nidi di ragno”, il primo romanzo di Calvino pubblicato nel 1947).

Nel 1947 uscì “I dialoghi con Leucò”, libro di non facile lettura che però fu il più caro a Pavese. Si tratta di una raccolta di dialoghi con se stesso in ognuno dei quali (dialoghi) gli interlocutori sono due figure della mitologia greca. Spesso lo scrittore se ne andava al paese natale dove lo aspettava il suo amico Pinolo Scaglione e con lui cercava fra gli abitanti i personaggi de “La luna e i falò” che uscì nel 1950, anno in cui gli venne assegnato il premio Strega.

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A Roma, nel frattempo, aveva conosciuto un’attrice americana, Constance Dawling, alla quale si ispirò per l’ultima raccolta di poesie, di cui alcune in lingua inglese, intitolata “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” che uscì postumo nel 1951, perché in estate, e precisamente nella notte fra il 27 e il 28 agosto 1950, Cesare Pavese si tolse la vita in una stanza d’albergo di Torino, ingerendo sedici bustine di sonniferi. Sul comodino, sulla prima pagina de “I dialoghi di Leucò” lasciò scritto: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.”

(fonte principale: “Il vizio assurdo” di Davide Lajolo)

Forse non tutti sanno che nella canzone “Alice”, Francesco de Gregori fa un riferimento abbastanza esplicito allo scrittore.

“… e Cesare perduto nella pioggia
sta aspettando da sei ore il suo amore ballerina
e rimane lì
a bagnarsi ancora un po’
e il tram di mezzanotte se ne va
ma tutto questo Alice non lo sa…”

Durante la sua vita, e precisamente a partire dal 1935 fino alla sua morte nel 1950, Cesare Pavese scrisse un diario che venne pubblicato sotto il titolo “Il mestiere di vivere” nel 1952. Vogliamo qui riportare dei passi alcuni dei quali sono veri e propri aforismi:

5 ott.1938 “L’offesa più atroce che si può fare a un uomo è negargli che soffra”;

17 gen.1938 “…Perché il veramente innamorato chiede la continuità, la vitalità (lifelongness) dei rapporti? Perché la vita è dolore e l’amore goduto è un anestetico, e chi vorrebbe svegliarsi a metà operazione?…”;

7 giu.1938 “… La morte è il riposo , ma il pensiero della morte è il disturbatore di ogni riposo….”;

8 lug.1938 “… Tanto poco un uomo s’interessa dell’altro, che persino il cristianesimo raccomanda di fare il bene per amore di Dio…”;

4 mag.1939 “…La massima sventura è la solitudine, tant’è vero che il supremo conforto – la religione – consiste nel trovare una compagnia che non falla, Dio. La preghiera è lo sfogo con un amico. L’opera equivale alla preghiera, perché mette idealmente a contatto con chi ne usufruirà. Tutto il problema della vita è dunque questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con altri. Così si spiega la persistenza del matrimonio, della paternità, delle amicizie. Perché poi stia qui la felicità, mah! Perché si debba star meglio comunicando con un altro che non stando soli, è strano. Forse è solo un’illusione: si sta benissimo soli la maggior parte del tempo. Piace di tanto in tanto avere un otre in cui versarsi e poi bervi se stessi: dato che dagli altri chiediamo ciò che abbiamo già in noi. Mistero perché non ci basti scrutare e bere in noi e ci occorra riavere noi dagli altri…”;

9 set.1939 “La guerra imbarbarisce perché, per combatterla, occorre indurirsi verso ogni rimpianto e attaccamento a valori delicati, occorre vivere come se questi valori non esistessero; e, una volta finita, si è persa ogni elasticità di tornare a questi valori.”;

22 lug.1940 “Il sogno è una costruzione dell’intelligenza, cui il costruttore assiste senza sapere come andrà a finire.”;

28 lug.1940 “Non si ricordano i giorni, si ricordano gli attimi.”;

13 feb.1944 “La ricchezza della vita è fatta di ricordi, dimenticati”;

6 sett. 1945 “Non è bello essere bambini: è bello da anziani pensare a quando eravamo bambini.”;

15 set.1946 “Aspettare è ancora un’occupazione. È non aspettar niente che è terribile.”;

16 set.1946 “C’è un solo piacere, quello di essere vivi, tutto il resto è miseria.”;

21 lug.1947 “Si aspira ad avere un lavoro, per avere il diritto di riposarsi.”;

10 ago.1947 “I problemi che agitano una generazione si estinguono per la generazione successiva non perché siano stati risolti ma perché il disinteresse generale li abolisce.”;

18 ago.1950 “La cosa più segretamente temuta accade sempre. Scrivo: o Tu, abbi pietà. E poi?
Basta un po’ di coraggio.
Più il dolore è determinato e preciso, più l’istinto della vita si dibatte, e cade l’idea del suicidio.
Sembrava facile, a pensarci. Eppure donnette l’hanno fatto. Ci vuole umiltà, non orgoglio.
Tutto questo fa schifo.Non parole. Un gesto. Non scriverò più.

Lanfranco Bruzzesi

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Dr. Lanfranco Bruzzesi
Dr. Lanfranco Bruzzesi

Appassionato di musica, collabora con psicolinea per la stesura di biografie di personaggi famosi, in particolare nel mondo della musica. Lanfranco Bruzzesi è inoltre il principale ispiratore dell’Associazione Culturale Ankon Cultura, che ha sede ad Ancona e che organizza conferenze, viaggi ed altri eventi culturali.

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  • 27 Ago 2018
  • Dr. Lanfranco Bruzzesi
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Amelia

Amelia Earhart, una leggenda dell’aviazione mondiale

Amelia Earhart, una leggenda dell’aviazione mondiale


Può il coraggio essere il prezzo che la vita esige per assicurarsi la pace? A questa domanda la maggior parte della gente risponderebbe di no o forse non si porrebbe nemmeno questa domanda. Eppure una donna del secolo appena finito ne fece la ragione della sua vita.

La lady si chiamava Amelia, Amelia Earhart e anche se ai più non dice niente questo nome, possiamo ben dire che lei ebbe una fama notevole nel periodo che va dal 1920 al 1937 e negli anni a seguire e non solo in certi ambienti ma anche nei rotocalchi, nella stampa di tutto il mondo, perché divenne una leggenda dell’aviazione mondiale. La sua scomparsa, ancora circondata dal mistero, non fece che accrescere il suo mito.

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Ma andiamo con ordine: Amelia nasce il 24 luglio del 1897 nella casa dei nonni ad Atchinson, Kansas, e questo perché la madre Amy ha già avuto un aborto e così preferisce partorire nell’ambiente tranquillo dei suoi. Il marito, Edwin Earhart, rimane a Kansas City dove fa pratica di avvocato. Dopo due anni e mezzo nasce una sorellina, Muriel. Il padre di Amy, Alfred Otis, non ama particolarmente il giovanotto, che considera un inetto e in effetti, forse per la sua incipiente dipendenza dall’alcool, egli fallisce gli obiettivi che si è prefissato e finisce per accettare un lavoro da dipendente presso la ferrovia della linea Rock Island.

Nel 1905 i genitori di Amelia si trasferiscono così a Des Moins, Iowa, lasciando le figlie con i nonni. Solo nel 1908 queste raggiungeranno i loro genitori. Entrambe non riescono certo a frequentare la scuola con continuità, ma amano in ogni caso leggere i libri e soprattutto esercitare lo sport, tennis e basket.

Dopo un iniziale miglioramento nelle condizioni di vita, le cose cominciano a peggiorare per colpa del padre ormai dedito all’alcool. Nel 1914, in seguito al suo licenziamento dal posto di lavoro, le donne se ne vanno a Chicago presso degli amici e Amy fa di tutto per far studiare le figlie.

Dal canto suo la bella Amelie vorrebbe andare al College, ma accantona presto l’idea quando vede per strada quattro reduci feriti della I guerra mondiale e le condizioni in cui versano. Non ha dubbi, deve fare qualcosa, rendersi utile, e comincia a frequentare corsi per infermiera che la porteranno a prestare servizio in un ospedale militare in Canada: “per la prima volta capii il significato della guerra; invece di belle uniformi e fanfare potei vedere il risultato di quattro anni di lotta disperata; uomini senza braccia o gambe, paralizzati o ciechi”.

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Alla fine della guerra vuole continuare a dedicarsi agli altri e a Boston non soltanto fa volontariato, ma insegna anche inglese ai bambini immigrati. Intanto però la giovane comincia ad appassionarsi agli aerei, assiste di frequente alle esibizioni acrobatiche di aerei che vengono proposte nelle fiere e che vanno di moda negli anni 20. Poi raggiunge i genitori, che nel frattempo sono tornati insieme, in California, e con il padre va ad un raduno aereo.

Per la prima volta sale a bordo di un biplano e al prezzo di un dollaro vola per dieci minuti sopra Los Angeles: siamo nel 1920 ed è in questa occasione che decide di imparare a volare.

Comincia a frequentare lezioni di volo da Anita Snook e si dà anche a lavoretti extra non solo per pagarsi le lezioni, ma anche per coronare quello che ormai è diventato il suo sogno: acquistare un aereo! E così l’anno dopo, grazie anche all’aiuto della madre, compra il suo primo aeroplano, un biplano a due posti, usato, che per il suo colore giallo luminoso, chiama “canarino” e che usa per stabilire il suo primo record femminile salendo ad un’altitudine di 14.000 piedi.

La stampa, da subito, comincia ad occuparsi della giovane, bella e coraggiosa. Anche la nascente industria dell’aviazione civile vede la possibilità di sfruttarne l’immagine per attirare pubblico femminile. Lei, del resto, se la sa cavare bene con le interviste e dà enfasi alla convinzione che le donne possono fare tutto quello che fanno gli uomini: lei ne è un esempio.

La sua popolarità la può verificare di persona allorché attraversa gli Stati Uniti a bordo della sua automobile, sempre gialla, per portare la madre fino a Boston. Durante le soste, la gente si raduna intorno a lei come davanti ad una celebrità.

Un pomeriggio, nell’aprile del 1928, una telefonata la raggiunge mentre è al lavoro: “le piacerebbe sorvolare l’Atlantico?”. Dall’altro capo c’è il capitano Hilton H. Railey che ha avuto l’incarico dall’editore George Putnam di trovare una donna per la trasvolata. Hanno subito pensato a lei, alla signora Lindy, come la chiameranno per la sua rassomiglianza a Charles Lindberg.

A bordo di un Fokker F7, chiamato “Friendship” (amicizia), che decolla il 17 giugno 1928, dopo diversi rinvii per le brutte condizioni del tempo, salgono il pilota Stultz e il co-pilota e meccanico Gordon. Sebbene Amelia sia relegata a ben poche funzioni (“sono stata una passeggera, semplimente una passeggera”), quando il team arriva in Galles, 21 ore dopo, gli onori sono quasi tutti per lei, i reporters ignorano i suoi due compagni, sono venuti solo per lei.

Anche il Presidente Coolidge le invia con un cablogramma le sue personali congratulazioni. Quando ritorna negli States è già una eroina, tutti la vogliono e lei va in giro a tenere conferenze seguita costantemente dalla stampa e favorita dalla pressante pubblicità che ne fa il suo ormai “tutor” George Putnam. Cominciano anche a girare le voci su una presunta relazione fra i due. Nel settembre dello stesso anno Amelia vola da sola dalla costa atlantica a quella pacifica per assistere alle gare nazionali aeree e a New York si ferma per qualche conferenza organizzatale da Putnam per il lancio del suo libro “Venti ore, quaranta minuti”, sull’impresa compiuta qualche mese prima.

Nel 1929 organizza un’esibizione aerea per sole donne, da Los Angeles a Cleveland e al suo ritorno viene a sapere che George è stato lasciato dalla moglie Dorothy, la quale si appresta anche a concedergli il divorzio. Lei continua a superare records femminili a bordo del suo aereo e pubblica articoli su “Cosmopolitan” e altre riviste, poi, il 7 febbraio del 1931, si sposa con Putnam.

Insieme progettano un volo attraverso l’oceano Atlantico prima che qualche altra donna si cimenti nell’impresa e faccia oscurare il nome di Amelia. All’inizio del 1932 nessun’altra persona, dopo Lindberg, ha compiuto la trasvolata da solo; ci riesce lady Lindy, atterrando in un campo aperto vicino a Londonderry nell’Irlanda del Nord.

George raggiunge Amelia a Londra ed insieme trascorrono diverse settimane in giro per l’Europa. Quando ritornano a New York il Presidente Hoover le conferisce la speciale medaglia d’oro per conto della National Geographic Society. È il momento di maggior successo per la nostra che viene nominata donna dell’anno.

Lei accetta il premio, in nome di tutte le donne, rispondendo indirettamente ad una domanda che ci si è posti in fondo ad un articolo della stampa francese: “saprà (l’aviatrice) fare i dolci?”.“Io accetto questi premi non solo per conto di tutte quelle donne che sanno fare dolci, ma anche per le donne che sanno fare cose più importanti e meno importanti che volare.”

Sempre determinata e con l’intento di arrivare dove altri hanno fallito diventa la prima persona ad attraversare il Pacifico da Honolulu nelle Haway; ad Oakland in California; gli impegni intanto si infittiscono, sempre chiamata da tutte le parti a tenere conferenze grazie alla simpatia e cordialità che sa offrire.

Nel 1937, quando ha quasi 40 anni, sente di essere pronta per la sfida finale: vuole essere la prima donna a fare il giro del mondo in aereo. Dopo un tentativo fallito dice: “Ho il presentimento di avere a disposizione solo un altro volo buono, spero sia il prossimo.”, e così, il 1° giugno dello stesso anno, insieme con il navigatore Fred Noonan, parte da Miami e comincia la trasvolata di ben 29.000 miglia che la porterà a San Juan in Porto Rico e poi, seguendo la costa nord-orientale del Sud America, verso l’Africa e quindi in India.

Il 17 giugno, come da programma, si trovano a Calcutta e proseguono per Rangoon, Bangkok, Singapore e Java per arrivare a Bandoeng dove sono costretti a fermarsi una decina di giorni per l’arrivo dei monsoni e per le riparazioni, resesi necessarie, agli strumenti di bordo.

Amelia non sta al meglio perché soffre di dissenteria ma, quando arrivano a Lae in Nuova Guinea, hanno fatto 22.000 miglia e ne mancano solo 7.000 ormai per arrivare alla conclusione del viaggio: sembra ormai quasi fatta.

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Tutto quello che è superfluo nell’aereo viene rimosso per far posto a più carburante che possa consentire approssimativamente 274 miglia extra. Le mappe che Noonan ha a disposizione non si sono rivelate sin dall’inizio molto accurate ma ormai sono in prossimità dell’isola di Howland, a circa due miglia e mezzo, dove è dislocata la guardia costiera Itasca con la quale sono in contatto radio.

Partono a mezzanotte con un cielo che, contrariamente alle previsioni, è nuvoloso. Noonan, abituato alle vecchie metodologie di navigazione aerea, ha qualche difficoltà e quando è l’alba Amelia Earhart chiama insistentemente alla radio: “Khaqq chiama Itasca. Dobbiamo essere sopra di voi ma non riusciamo a vedervi. Il carburante sta finendo…” A nulla valgono i tentativi compiuti dalla guardia costiera per farsi notare. Probabilmente l’aeroplano si è perso ed è precipitato ad una distanza calcolabile fra le 35 e 100 miglia dall’isola di Howland.

La notizia fa presto il giro del mondo; il Presidente Roosvelt autorizza le ricerche con l’impiego di nove navi e 66 aerei per un costo stimato all’incirca di quattro milioni di dollari. Le ricerche vengono interrotte il 18 luglio e proseguite dal marito che però nell’ottobre abbandona ogni speranza di trovare viva la sua amata.

Si è speculato molto sulla scomparsa misteriosa di Amelia Earthart: alcuni credono che lei e Noonan siamo stati catturati dai Giapponesi e giustiziati, altri sono convinti che sia stata una spia catturata durante una missione, altri ancora che sia vissuta felicemente per anni in un’isola del Sud-Pacifico con un pescatore del luogo; comunque nessuna delle congetture avanzate è stata confermata.

Non c’è dubbio, comunque, che Amelia sarà ricordata per il coraggio dimostrato sia negli aerei sia per certe rivendicazioni a favore delle donne. In una lettera a suo marito, lasciata ‘nel caso che’, disse: “sappi che sono consapevole dei rischi che corro, e se lo faccio è perché lo voglio. Le donne devono provare a fare ciò che fanno gli uomini e, quando falliscono, il loro insuccesso deve essere una sfida per gli altri.”

Lanfranco Bruzzesi

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Post Scrittum (a cura della Redazione di Psicolinea)

2018: Un nuovo studio scientifico ha stabilito che le ossa rinvenute nel 1940 nell’isola di Nikumaroro, nel Pacifico, possono essere quelle di Amelia, nonostante un’analisi forense su quei resti, condotta nel 1941, avesse concluso che quelle ossa fossero di un uomo. L’osteologia forense – lo studio delle ossa – all’epoca era ancora nelle sue fasi iniziali.

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  • 15 Ago 2018
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Charles Schultz, l'inventore di Charlie Brown

Charles Schultz, l’inventore di Charlie Brown

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Charles Schulz è stato un fumettista statunitense, famoso per aver creato la celebre striscia a fumetti “Peanuts”. Nato il 26 novembre 1922 e deceduto il 12 febbraio 2000, Schulz ha dato vita a personaggi iconici come Charlie Brown, Snoopy e Lucy, che hanno conquistato milioni di lettori in tutto il mondo, diventando una parte indelebile della cultura popolare. Conosciamo la sua biografia completa.

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Charles Monroe Schulz nasce a St.Paul, nel Middle West, il 26 novembre 1922.

Il padre, Carl, è barbiere (come il papà di Charlie Brown) ed è figlio di poveri emigranti tedeschi, agricoltori, che continueranno a svolgere questo lavoro anche in America. La madre, Dena, è di origine scandinava. Charles trascorre la giovinezza durante il periodo della Grande Depressione e vede il padre lavorare anche fuori orario, pur di tirare avanti la baracca e non cedere l’attività.

Il fumetto sembra da subito essere nel suo destino. Appena nato gli viene affibbiato il soprannome di “Sparky”, abbreviazione di Spurkplug, il cavallo di “Barney Google”, fumetto allora popolarissimo: il padre ha infatti una predilezione per i fumetti e la trasmette a tutti in famiglia compreso il piccolo Charles. A scuola il piccolo si distingue subito nel disegno, tanto da indurre gli insegnanti ad incoraggiarlo in questa sua vera e propria passione. Ma questo accade all’inizio, poi il ragazzo ha difficoltà a entrare in sintonia con i compagni, si sente perduto e insicuro con gli altri, preferisce stare solo.

La madre tuttavia è consapevole della predisposizione per la matita del proprio figlio e, dopo le scuole secondarie, lo iscrive ad una scuola di disegno per corrispondenza pagando una retta di 170 dollari che, se lì per lì gravano sul bilancio familiare, in seguito risulteranno un buon investimento per il giovane, visti i risultati che otterrà.

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Poi succedono due avvenimenti importanti: la morte della madre, dopo una lunga e dolorosa malattia, e la chiamata alle armi. Siamo nel 1943, in piena II guerra mondiale ed il giovane va in Francia, dove però viene impiegato in prima linea solo nel 1945, quando l’esercito tedesco è ormai allo sbando. La lontananza provvisoria da casa e definitiva dalla madre causano nel giovane uno stato di depressione che lo perseguiterà per tutta la vita e così un senso di panico, ansia e frustrazione. Una condizione che si riflette nelle sue strisce, intrise di melanconia e di incertezza.

Lasciando l’esercito da sergente, Sparky ritorna a casa e cerca lavoro nell’area di Minneapolis-St.Paul. Trova un lavoretto presso la rivista cattolica a fumetti “Timeless Topix” e contemporaneamente comincia a lavorare come istruttore nella scuola di corrispondenza che ha frequentato. È in questo periodo che si innamora (non corrisposto) della ragazzina dai capelli rossi, certa Donna Wold, che poi ispirerà le sue strisce.

Il 7 dicembre 1947 debutta nella carta stampata e precisamente nel “St.Paul Pioneer Press” con una serie di vignette chiamata “Li’l Folks” i cui protagonisti possiamo definirli come i fratelli maggiori di Charlie Brown e c.

La striscia appare solo la domenica nella sezione per donne e l’autore, al diniego di pubblicarla quotidianamente in una sezione aperta a tutti interrompe, nel 1950, la pubblicazione. Li’l Folks suscita però l’interesse di Jim Freeman della United Feature Syndicate. Si decide di cambiare il nome della striscia in “Peanuts” perché troppo somigliante con i titoli di altre due famosi fumetti e cioè “Li’l Abner” e “Little Folks” e ciò dispiace all’inizio al giovane fumettista, perché il nuovo nome sta ad indicare qualcosa di frivolo, leggero che non è ciò che vuole trasmettere alla gente.

I Peanuts escono sei giorni alla settimana e poi dal gennaio ’52 anche la domenica.

Ma chi sono questi “Peanuts”? Sono dei ragazzini che frequentano le elementari: Charlie Brown, Lucy, Violet, Linus, Sally, Piperita Patty, Marcie, Schroeder, Pig Pen, un cagnolino, Snoopy, ed un uccellino, Woodstock. I “grandi” non compaiono mai. Spesso questi personaggi pensano ed agiscono da adulti riflettendone le nevrosi, ma sono spontanei nelle loro manifestazioni e quindi fanno sorridere i lettori che spesso ci si identificano.

Il nome Charlie Brown, che è probabilmente quello di un compagno di scuola, è l’alter ego di Schulz e rappresenta sicuramente qualche cosa di innovativo nel panorama fumettistico degli anni ’50, dominato da azione ed avventura. Tutti si possono riconoscere nel personaggio, nelle sue domande esistenziali, nel suo stoicismo di fronte alle avversità della vita.

Nel 1951, Charles sposa Joyce Halverson con la quale starà ventuno anni insieme, prima di divorziare e da cui avrà cinque figli. Nel 1955 vince il Reuben Award, premio che la National Cartoonist Society assegna al vignettista dell’anno; rivincerà il premio nel 1964.

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Nel 1958 si trasferisce definitivamente in California vicino a San Francisco, dove prima acquista un ranch e poi lo abbandona per stabilirsi più a nord nel complesso che si è fatto costruire dedicato agli sport nordici e invernali e denominato “Redwood Empire Ice Arena”. In questo impero del ghiaccio Schulz fa tutto quello che esula dal lavoro, che svolge a poca distanza, in uno chalet immerso nel verde chiamato Snoopy Place.

Dal 1965 in poi il fumetto dei Peanuts decolla, tanto da meritare la prima copertina sul “Time” e viene citato anche in dizionari prestigiosi come il Webster. I nomi e gli attributi sovversivi dei suoi personaggi entrano nella contro-cultura degli anni ’60; l’organista dei Grateful Dead, Ron McKernan, si fa chiamare Pig Pen, un’altra rock band di san Francisco si costituisce nel 1968 con il nome di Sopwith Camel, l’immaginario aereo pilotato da Snoopy; i soldati americani si fanno stampare sull’elmetto un piccolo Snoopy e gli astronauti dell’Apollo 10 nel 1969 durante la prima circumnavigazione attorno alla luna battezzano i loro moduli “Charlie Brown” e “Snoopy”.

Uno speciale della CBS sui Peanuts, “A Charlie Brown Christmas”, vince un premio molto ambito come l’Emmy televisivo (verrà vinto altre due volte, nel ‘73 e nel ’75). Il successo lascia esterrefatti i critici che hanno pronosticato un flop per l’impiego di doppiatori bambini, per l’utilizzo di musica jazz melanconica come sottofondo e per la durata di appena mezz’ora del cartone; invece il programma raccoglie il 45% di share nell’audience nazionale, dando la definitiva consacrazione al suo autore. Nel 1972 Charles divorzia dalla moglie Joyce, per sposarsi nel 1974 con Jeannie Forsyth.

Le relazioni con il mondo esterno sono limitate mentre gli obblighi che derivano dal nuovo ruolo di cartoonist famoso nel mondo lo tengono in un continuo stato di ansia e paura. Non che gli dispiaccia essere apprezzato e premiato, ma odia lasciare la sicurezza che gli dà la casa e la routine quotidiana. Sente il bisogno di incontrare gente, di conoscere il mondo, ma il pensiero di prendere l’aereo o di stare negli hotel lo atterrisce. Teme di diventare schiavo del successo e non vuole attrarre attenzione su se stesso; non è abituato ai soldi, alla celebrità e vuole essere libero di continuare la vita di sempre; infatti, continua a disegnare la striscia giornaliera con un semplice pennarello, senza ricorrere a collaboratori.

Negli anni ’80 e ’90 la sua fortuna economica sale alle stelle perché parallelamente alla striscia giornaliera si è sviluppato sin dagli anni ’70 tutto un merchandising fatto di pupazzi, posters, quaderni e diari scolastici, capi di abbigliamento, gioielli etc., un giro d’affari che dà lavoro a migliaia di persone. Schulz figura nella lista dei più ricchi in America insieme con Bill Cosby, Michael Jordan, Michael Jackson, ma lui attribuisce poca importanza ai soldi, dà milioni in beneficenza e insiste nel dire che è rimasto sempre il vecchio Sparky Schulz.

Nel ’90 quando i Peanuts festeggiano i 40 anni, il governo francese nomina Charles Schulz Cavaliere delle Arti e delle Lettere. Poi nel ’99, dopo un ricovero all’ospedale, gli diagnosticano un cancro al colon e la chemioterapia successiva all’operazione lo debilita fortemente, tanto da indurlo al ritiro con un annuncio fatto il 14 dicembre 1999 che lascia tutti i suoi affezionati lettori sgomenti.

Per contratto nessuno può infatti continuare a disegnare i Peanuts. L’ultima strip quotidiana viene pubblicata dai giornali il 3 gennaio 2000 e si tratta di un vero e proprio addio, affidato alla macchina da scrivere di Snoopy. Charles Schulz muore il sabato del 12 febbraio in una sera “buia e tempestosa”, poche ore prima della pubblicazione dell’ultima strip domenicale.

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Si può ben dire che egli ha influenzato generazioni di disegnatori e di lettori. Al contrario di altre figure che appartengono alla cultura di massa americana, come Marshall McLuhan e Andy Warhol, Schulz non ha avuto mai la pretesa di insegnare o di essere una specie di guru: “Io non conosco il significato della vita, non so perché siamo qui. Penso che la vita sia piena di ansie, paure e lacrime. C’è tanto dolore in giro e crudeltà. E io non voglio assolutamente essere colui che spiega agli altri cos’è la vita che a me si propone come un vero e proprio mistero.”

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Dr. Lanfranco Bruzzesi
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Appassionato di musica, collabora con psicolinea per la stesura di biografie di personaggi famosi, in particolare nel mondo della musica. Lanfranco Bruzzesi è inoltre il principale ispiratore dell’Associazione Culturale Ankon Cultura, che ha sede ad Ancona e che organizza conferenze, viaggi ed altri eventi culturali.

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Abebe Bikila, il più grande maratoneta di tutti i tempi

Abebe Bikila, il più grande maratoneta di tutti i tempi

Abebe Bikila, il più grande maratoneta di tutti i tempi


Abebe Bikila può essere considerato come il più grande maratoneta di tutti i tempi e forse fra i più grandi atleti che la storia ricordi. Dopo quasi quattro decenni il suo mito rimane integro e lo si può prendere come esempio dello sport pulito, lontano dal business odierno che spesso relega i personaggi sportivi a puri fantocci nelle mani di multinazionali e tende a bruciarli già in tenera età.

Abebe Bikila nacque nel 1932 in una cittadina chiamata Jato, a circa 130 Km da Addis Abeba. Secondo la tradizione del suo popolo, il ragazzo passò la gioventù a fare il pastore e lo studente. A dodici anni terminò la scuola, la cosiddetta “Qes”ed ebbe già modo di distinguersi nelle attività sportive che vi si svolgevano.

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Poi, nel 1952, il giovane fu reclutato nel corpo della guardia imperiale e nel 1954 si sposò con Yewibar Giorghis con la quale ebbe quattro figli. Trascorse diversi anni nella guardia imperiale prima di potersi distinguere come valente atleta; il suo momento arrivò mentre stava a guardare una parata di atleti etiopici che partecipavano alle Olimpiadi di Melbourne: guardando gli atleti che stavano indossando una uniforme con i nomi scritti sul dorso, chiese chi fossero, e quando gli fu detto che si trattava degli atleti che rappresentavano l’Etiopia alle Olimpiadi, si convinse di volerne fare parte anche lui in futuro.

Nel 1956, all’età di 24 anni, partecipò ai campionati militari nazionali. L’eroe del tempo era certo Wami Biratu, recordman nei 5000 e nei 10.000 metri. Durante la maratona, la folla allo stadio stava aspettando di veder entrare il campione che era partito bene conducendo la corsa, ma, dopo qualche chilometro, il commentatore radiofonico spiegò che era passato a condurre la testa della corsa un giovane atleta ancora sconosciuto di nome Abebe Bikila: questi arrivò distanziando ulteriormente il rivale. Era nata una stella, che in breve polverizzò i records dei 5000 e dei 10.000 metri.

Con questi risultati impressionanti egli si qualificò per le Olimpiadi di Roma: finalmente Bikila riusciva a coronare il suo sogno di indossare la divisa con il nome a rappresentare il suo Paese.

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Tra i favoriti dell’edizione romana dei Giochi c’erano il sovietico Sergej Popov, detentore del record con il tempo di 2h 15’17” e il marocchino Abdesalem Rhadi. Il nostro atleta, sconosciuto fuori dai confini nazionali, fu iscritto alla gara con il nome di Bikila Abebe, scambiando cioè il nome con il cognome. Era una calda giornata romana e la gara si tenne la sera allo scopo di scongiurare la soffocante afa estiva in una disciplina già di per sé massacrante.

Alla partenza Bikila, che prima di quella gara aveva corso solo altre due volte la distanza della maratona, si fece notare perché non calzava scarpe: era a piedi nudi, e rimase indietro insieme al gruppo, poi cominciò a risalire per assestarsi, verso il decimo chilometro, alle spalle del britannico Arthur Keily e del favorito Abdesalem Rhadi.

Al ventesimo chilometro aveva già raggiunto il marocchino e macinava metri su metri apparentemente senza sforzo; al trentesimo chilometro si produsse in un forcing a cui Rhadi non poté resistere: è una scena davvero toccante e suggestiva quella a cui assiste la gente da casa e sul posto, lungo la Via Appia antica, illuminata a giorno dai militari che se ne stanno con le fiaccole ad indicare la strada: l’ossuto atleta di colore sembra volare leggero sul percorso sconnesso e va a vincere a braccia alzate sotto l’arco di Costantino, distanziando il marocchino di 30 secondi con il tempo di 2h 15’ 16”, nuovo record del mondo.

Quando gli fu chiesto come mai avesse corso senza scarpe, Bikila rispose: “Ho voluto che il mondo sapesse che il mio Paese, l’Etiopia, ha sempre vinto con determinazione ed eroismo.” La stampa che già vedeva la possibilità di strumentalizzare l’avvenimento inventò la storia che la federazione etiope era troppo povera per fornire scarpe ai suoi campioni, ma la verità era che l’atleta aveva ricevuto le scarpette solamente il giorno prima, e poiché le trovava scomode, aveva deciso di correre scalzo, come faceva di solito in allenamento.

L’atleta etiope divenne in breve una leggenda, la sua fama raggiunse ogni angolo del mondo; molte persone lo consideravano come una rivalsa, seppur minima, di certo mondo povero contro quello ricco che già poteva disporre di sponsor di un certo spessore.

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Quattro anni dopo, nel 1964, le Olimpiadi si svolgevano a Tokio e Abebe Bikila non si presentò al meglio della forma in quanto sei settimane prima era stato operato di appendicite ed era ancora convalescente. Ma gli bastò il calore del pubblico e della stampa e l’aiuto offertogli dai connazionali Mamo e Demssie Wolde per riprendere piano piano gli allenamenti e presentarsi carico per la gara. Stavolta aveva tutti gli occhi puntati su di lui e non deluse gli ammiratori; lo smilzo atleta di Addis Abeba non correva scalzo ma incantava lo stesso tutti rifilando oltre quattro minuti di distacco al secondo arrivato, l’inglese Basily Heatley e stabilendo il nuovo record mondiale di 2h 12’ 11” .

Nel 1968 le Olimpiadi si tennero a Città del Messico e benché si fosse allenato duramente, la fortuna sembrò abbandonare definitivamente Abebe Bikila: al 15° chilometro, a causa di un infortunio fu costretto a ritirarsi consentendo al connazionale Mamo Wolde di vincere la corsa.

Nello stesso anno rimase coinvolto gravemente in un incidente stradale vicino ad Addis Abeba; si salvò per miracolo ma rimase paralizzato proprio a quelle gambe che tante soddisfazioni gli avevano dato e vane furono poi le cure dei migliori medici del mondo nei nove mesi successivi.

L’uomo non si diede per vinto e animato da un incommensurabile spirito competitivo partecipò perfino alle Olimpiadi per paraplegici tenutesi a Londra, vincendo numerose gare. Nel 1970 partecipò in Norvegia ad una gara su un percorso di 25 km trasportato da una slitta e vinse la medaglia d’oro. Poi nel 1973, all’età di 41 anni, Abebe Bikila morì per un’emorragia cerebrale.

Una folla enorme e commossa partecipò al suo funerale e a rendergli omaggio c’era anche l’imperatore Atse Haile Selassie. La sua vita era terminata, ma i ricordi rimanevano e rimangono tuttora nella mente di tutti gli sportivi del mondo che rivedono quel piccolo uomo attraversare le strade di Roma a piedi nudi…

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Appassionato di musica, collabora con psicolinea per la stesura di biografie di personaggi famosi, in particolare nel mondo della musica. Lanfranco Bruzzesi è inoltre il principale ispiratore dell’Associazione Culturale Ankon Cultura, che ha sede ad Ancona e che organizza conferenze, viaggi ed altri eventi culturali.

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  • 7 Ago 2018
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John Belushi, un mito degli ultimi decenni

John Belushi, un mito degli ultimi decenni

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Malgrado abbia fatto una manciata di film e un paio di album musicali a nome dei “Blues Brothers”, John Belushi, forse anche per la morte prematura avvenuta per overdose, si è conquistato un posto fra i miti di questi ultimi decenni.

John nasce a Chicago il 24 gennaio 1949, ma cresce nella periferia e precisamente a Wheaton, nell’Illinois dove i genitori, di origine albanese, si trasferiscono quando ha appena sei anni.

Consegue il diploma nel 1967 ed è già popolare fra i suoi coetanei per la sua attitudine a far ridere nei vari spettacoli organizzati nella scuola. Così, incoraggiato dal suo professore di arte drammatica, decide di abbandonare il suo progetto di diventare allenatore di football per dedicarsi alla carriera di attore, contro il desiderio del padre che lo vorrebbe al suo fianco nella gestione di un ristorante.

Nel febbraio del 1971 và a Chicago per una audizione nella commedia “Seconda città” e viene subito ingaggiato: ha appena compiuto 22 anni e gli altri membri della troupe capiscono che è destinato a rubar loro la scena.

Lo spettacolo, a contenuto prettamente satirico, si svolge sei giorni alla settimana e permette al nostro di imporsi nelle caratterizzazioni che lo contraddistingueranno in futuro: fa la parte del sindaco di Chicago, di Amleto e soprattutto di Joe Cocker, che lo farà notare a certo Toni Hendra, il quale riesce ad averlo per il suo show “Lemming”, che fino a quel momento non va affatto bene.

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E’ in questo periodo che comincia a fare uso di droghe, amfetamine; quando gli chiedono come fa a rimanere così rilassato sul palco lui risponde “perché quello è l’unico posto dove so ciò che faccio”. La sua performance di Joe Cocker per il nuovo spettacolo fa letteralmente crollare i teatri dagli applausi e la gente accorre da ogni parte per vederlo. La voce sembra essere una perfetta imitazione, i movimenti del corpo, delle braccia e delle mani, assomigliano in modo impressionante a quelli del cantante nel concerto di Woodstock.

Nel 1975 entra nelle case di tutti gli americani con il programma televisivo “ Saturday night live” uno show che coniuga comicità e musica rock e che si impone soprattutto fra i giovani. Nasce qui l’idea dei Blues Brothers sviluppata con l’amico Dan Aykroyd. Intanto John Landis lo vuole nel film “National Lampoon’s Animal House” e, nonostante appaia in una dozzina di scene, è l’artefice del successo del film che oggi è diventato un cult movie proprio grazie al personaggio laido e goliardico di “Blutarski” interpretato da John.

“Animal House” è del 1978 e ad esso seguono “1941-Allarme ad Hollywood” (1979) di Spielberg, in cui interpreta il pazzo pilota ubriacone e bellicoso, “The Blues Brothers (1980) in cui insieme all’amico Dan Aykroyd interpreta personaggi televisivi già noti riuscendo a coinvolgere nel progetto i suoi idoli musicali di sempre, Ray Charles, Bo Diddley, Aretha Franklin, John Lee Hooker e James Brown.

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Ormai John Belushi è una star conosciuta in tutto il mondo.

Sebbene interpreti parti un po’ da …ragazzaccio, nella vita si adopera per gli altri, è un vero e proprio filantropo: aiuta innanzitutto i genitori comprando loro un ranch fuori San Diego, aiuta gli amici di Chicago nei loro affari e aiuta il fratello minore Jim a farsi strada nel cinema (anche Jim diventerà un affermato attore, da lì a qualche anno).

Ma John è di carattere fragile, insicuro, autodistruttivo, diventa sempre più schiavo delle droghe. Farà altri due films più impegnati, “Chiamami Aquila” e “I vicini di casa”, in cui rivela tutta la sua bravura, non solo in ruoli comici.

Il 5 marzo del 1982 viene trovato morto nella camera di un albergo per una overdose di eroina, in circostanze per la verità non ancora del tutto chiarite e simili a quelle che un decennio prima avevano visto privare il mondo della musica rock di artisti come Jimi Hendrix, Janis Joplin, Brian Jones, Jim Morrison: tutti, fatalità, con una “j” nel loro nome.

Nel funerale, a guidare la processione, è il suo amico di sempre Dan Aykroid a bordo della sua motocicletta, con indosso la giacca di pelle nera e jeans neri, e quando la neve comincia a cadere il suo amico cantautore James Taylor nel cimitero canta “That lonesone road”.

È difficile non aver amato la figura tozza ed espressiva di questo cantante-attore dall’agilità impressionante. La sua comparsa sulle scene, anche se rapida come una meteora, è stata un vero evento negli anni ottanta e molti hanno apprezzato il suo carattere straripante, irascibile, eccessivo, perché fuori di quelle regole convenzionali in cui spesso ci sentiamo ghettizzati.

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Concludiamo con alcune

Frasi celebri di John Belushi

“Quando il gioco si fa duro i duri entrano in gioco”

“ Ok ragazzi, abbiamo toccato il fondo! Cominciamo a …scavare”.

“Quando pensi che a nessuno al mondo importi se sei vivo, prova a non pagare per due mesi la rata della macchina”.

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