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Il business della medicalizzazione dell'infanzia

Il business della medicalizzazione dell’infanzia

Il business della medicalizzazione dell’infanzia

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L’infanzia è diventato un target per l’industria farmaceutica? L’opinione di Christopher Lane

“In nessun campo medico il condition branding (*) viene accettato tanto come nel settore dell’ansia e della depressione,” scrisse Vince Parry una decina di anni fa nella rivista di marketing Medical Marketing and Media. Parry, esperto del settore, chiamò il suo articolo “The Art of Branding a Condition” (L’arte di vendere una malattia). Ansia e depressione sono particolarmente sensibili al “condition branding”, diceva ai colleghi, perché “la malattia mentale raramente si basa su sintomi fisici misurabili e, pertanto, è aperta alla definizione concettuale”.

L’arte di vendere malattie — mettendo correttamente in relazione una malattia con un prodotto farmaceutico — ha prodotto tre strategie chiave:

  • elevare il livello di gravità di una malattia esistente;
  • ridefinire una malattia esistente per ridurre i pregiudizi che la riguardano;
  • sviluppare una nuova malattia per costruire il riconoscimento di un’esigenza di mercato ancora insoddisfatta.

Il candido articolo di Parry mi è venuto in mente dopo aver letto l’eccellente articolo di Aaron E. Carroll pubblicato sul New York Times “Calling an Ordinary Health Problem a Disease Leads to Bigger Problems” (Definire malattia un ordinario problema di salute comporta grossi problemi”). Il Dottor Carroll, professore di Pediatria presso l’Indiana University School of Medicine, ha esposto le conseguenze delle strategie di Parry: sulla salute pubblica, sull’aumento della spesa per la salute e sulla crescente abitudine di ampliare enormemente l’area diagnostica verso disturbi le cui soglie d’età sono state abbassate fino ai più giovani, in alcuni casi in modo drammatico.

La giustificazione utilizzata ruota intorno ad un argomento ancora controverso, in gran parte non provato scientificamente, riguardo al precoce intervento farmaceutico, dove “precoce” si riferisce all’età, piuttosto che all’insorgenza della malattia. Il che ovviamente consente di iniziare ad assumere farmaci in età sempre più giovani e per un grande numero di bambini (settore in crescita: neonati).

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Il Dottor Carroll scrive circa la notevole pressione al ribasso sulla soglia di età per le diagnosi infantili di GERD (gastro-esophageal reflux disease, o malattia da reflusso gastro-esofageo, MRGE), anche se la malattia reale (distinta dai suoi sintomi comuni) è “rara” in quel gruppo di età. “Circa il 50 per cento dei neonati sani ha un rigurgito più di due volte al giorno“, scrive Carroll. “Circa il 95 per cento di loro supera comletamente il problema senza trattamento. Quando la maggior parte dei neonati ha (ed ha sempre avuto) una serie di sintomi che vanno via da soli, non è una malattia: è una varianza della normalità “

Con il precipitare delle soglie di età per tali malattie comunque, e l’accrescersi delle campagne promozionali, “sono stati diagnosticati sempre più casi di bambini con reflusso come aventi una ‘malattia’. L’incidenza della diagnosi di MRGE nei neonati è triplicata dal 2000 al 2005″. Non sorprende venire a sapere da questo pediatra che “molti di quei bambini sono ora in trattamento con farmaci chiamati inibitori della pompa protonica (PPI) :”tra il 1999 e il 2004″, scrive,”l’uso di una forma liquida per bambini di P.P.I. è aumentata di più di 16 volte“.

Considerando l’espansione massiccia nelle prescrizioni appena sopra i cinque anni, ed anche per bambini molto più piccoli, vale la pena ripensare a ciò che afferma Parry sulla creazione della MRGE per gli adulti. La condizione di malattia è stata ideata, egli si vanta, per accompagnare una massiccia campagna promozionale per il farmaco ranitidina.

Uno dei modi più semplici per esagerare la gravità di una malattia, ammette Parry, è stupire il pubblico con gli acronimi. Nel caso della MRGE, il pubblico riteneva in precedenza che i prodotti da banco fossero adeguati nella lotta contro i bruciori di stomaco. Così la necessaria  campagna di marketing doveva elevare… ridefinire… sviluppare la malattia rinominata, per convincere medici e pazienti in altro modo. Altri acronimi e accentuazioni quasi identiche sono state elaborate per promuovere l’IBS ((irritable bowel syndrome, o sindrome dell’intestino irritabile), l’ED (erectile dysfuncion, o disfunzione erettile), il PMDD (premestrual dysphoric disorder, o disturbo disforico premestruale) e il SAD (social anxiety disorder, o disturbo d’ansia sociale), come ho mostrato in modo molto più esteso in Shyness: How Normal Behavior Became a Sickness.   (Leggi l’intervista di psicolinea all’autore)

“Il più grande problema” a proposito della massiccia sovradiagnosi e ipermedicalizzazione dei neonati con MRGE, conclude Carroll , “è che la stragrande maggioranza di questi neonati non erano ‘malati’. Gli abbiamo semplicemente dato una diagnosi ufficiale. Definire questi pazienti come  ‘malati’ può avere conseguenze significative, sia per la salute, sia per il bilancio sanitario della nazione.”

Scusate, medici – soprattutto pediatri: cosa ne è del: “Primo, non nuocere“?

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Fonti e Links:

Carroll, Aaron E. “Calling an Ordinary Health Problem a Disease Leads to Bigger Problems.” New York Times: June 3, 2014.

Lane, Christopher. 2007. Shyness: How Normal Behavior Became a Sickness. New Haven: Yale University Press.

“Medicating Children: Why Controversy Still Flares over ‘Early Detection.’” Psychology Today: September 2, 2010.

“The OECD Warns on Antidepressant Overprescribing.” Psychology Today: November 22, 2013.

“Americans Are Being Aggressively Over-Diagnosed.” Psychology Today: September 20, 2011.

“Behavior Drugs Given to Four-Year-Olds Prompt Calls for Inquiry—in the UK.” Psychology Today: March 19, 2011.

“Naming an Ailment: The Case of Social Anxiety Disorder.” Psychology Today: June 11, 2012.

Parry, Vince. “The Art of Branding a Condition.” MM&M: Medical Marketing and Media (May 2003): 44-46.

Prof. Christopher Lane
 
christopherlane.org
 
Traduzione autorizzata, a cura di psicolinea.it
 

Psicolinea for open minded people

 
(*) NdT: “l’idea dietro il ‘condition branding’ è relativamente semplice, scrive Parry, se definisci una particolare malattia e relativa sintomatologia nella mente dei medici e dei pazienti, puoi a questo punto affermare l’esistenza di un trattamento per questa malattia”
tratto da: Melody Peterson, Our Daily Meds: How the Pharmaceutical Companies Transformed Themselves into… Google Books
 
Immagine:
Pexels
 

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La timidezza non è una malattia
Prof. Christopher Lane

Christopher Lane
Professore di Inglese presso la Northwestern University, autore del libro The Age of Doubt. Si interessa di psichiatria, in particolare della storia del DSM e della trasformazione della timidezza in fobia sociale, oltre che di religioni.

Leggi l’intervista rilasciata a psicolinea.

Visita il suo sito web: http://www.christopherlane.org

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  • 13 Giu 2014
  • Prof. Christopher Lane
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Ulric Neisser

Ulric Neisser e la psicologia cognitiva

Ulric Neisser e la psicologia cognitiva


In breve

Ulric Gustav Neisser (si pronuncia Naisser) è stato uno psicologo americano (1928-2012)  nato in Germania e membro della National Academy of Sciences degli Stati Uniti, è considerato il  “padre della psicologia cognitiva “.

Il Dr. Neisser sfidò l’ortodossia dell’orientamento comportamentista, che all’epoca andava per la maggiore, elaborando un suo modello teorico, che fu pubblicizzato nel 1967, attraverso il libro “Psicologia cognitivista” (pubblicato in Italia da Giunti).

In questo modello i processi mentali interni (ignorati dal comportamentismo) non solo erano di grande importanza, ma potevano anche essere studiati e misurati.

Questo fu possibile  grazie ai progressi nella teoria dell’informazione, dei computer e dei metodi sperimentali dopo la seconda guerra mondiale, i quali crearono il terreno adatto per sfidare il comportamentismo, ovvero la tendenza a studiare i soli comportamenti umani, attraverso le loro risposte agli stimoli ambientali, disinteressandosi dei processi mentali.

Una intervista sulla violenza domestica

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Biografia

Ulric Gustav Neisser nacque a Kiel, in Germania, l’8 dicembre 1928. Il padre, Hans Neisser, era un distinto economista ebreo. Nel 1923 aveva sposato  Charlotte (“Lotte”), laureata in sociologia e attiva nel movimento femminista.

Neisser aveva anche una sorella maggiore, Marianne, nata nel 1924. Da bambino il futuro psicolog>o era un bambino paffuto, per questo soprannominato “Der kleine Dickie” (“piccolo Dicky”), in seguito ridotto a “Dick “.

La famiglia Neisser, a causa delle persecuzioni razziali, lasciò la Germania nel 1933, stabilendosi a New York.

Crescendo, Neisser cercò di adattarsi e di avere successo in America (il suo stesso nome, Ulrich divenne Ulric). Da ragazzo si interessò in modo particolare al baseball , il quale si ritiene abbia avuto un “ruolo indiretto ma importante nei suoi interessi psicologici”. 

Frequentò l’Università di Harvard alla fine degli anni ’40, laureandosi nel 1950 con una laurea con lode in psicologia.  Successivamente seguì un master presso il Swarthmore College, dove insegnava Wolfgang Kohler , membro della facoltà e uno dei fondatori della psicologia della Gestalt.

Dopo questa esperienza, Neisser ottenne un dottorato in psicologia sperimentale presso il Dipartimento di relazioni sociali di Harvard, nel 1956, completando una tesi nel sotto-campo della psicofisica .

Successivamente passò all’Università di Brandeis, dove il suo orizzonte intellettuale si ampliò grazie al contatto con il presidente del dipartimento Abraham Maslow .

Neisser provava una “profonda simpatia nei confronti dell’umanesimo idealista” di Abraham Maslow e anche Maslow si mostrava profondamente interessato alla psicologia della Gestalt.

Dopo un periodo presso la Emory University e l’Università della Pennsylvania, Neisser si stabilì definitivamente a Cornell , dove trascorse il resto della sua carriera accademica.

Tra gli altri incontri importanti della vita di Neisser vi fu anche Oliver Selfridge , un giovane scienziato informatico presso i Lincoln Laboratories del MIT . Selfridge era un pioniere della intelligenza artificiale.

Selfridge e Neisser inventarono il “modello del pandemonio”, che descrissero in un articolo pubblicato su Scientific American nel 1950.

Dopo aver lavorato con Selfridge, Neisser ricevette numerose borse di studio per la ricerca sul pensiero, che alla fine lo portarono a scrivere il suo libro più noto “Cognitive Psychology” (1967).

Nel 1976, tuttavia Neisser scrisse un altro libro, Cognizione e realtà, in cui criticava la sua stessa creatura, che non riusciva a catturare la ricchezza della psicologia umana attraverso i suoi metodi di laboratorio, o attraverso la riduzione dell’esperienza reale ai modelli computerizzati della mente.  Si trattava di modelli generalmente relativi a situazioni di laboratorio che potevano avere un interesse teorico, ma non applicativo.

Un’altra pietra miliare nella carriera di Neisser è avvenuta con la pubblicazione, nel 1981, della memoria di John Dean: un caso di studio, ovvero un’analisi della testimonianza di John Dean nello scandalo di Watergate.

Nel 1984 scrisse Memory observed: remembering in natural contexts, dove difendeva, contro le posizioni della prima opera, la necessità di un approccio ecologico allo studio della cognizione (in questo caso della memoria).

IPNOSI CLINICA: una intervista al Dr. Walter La Gatta

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Nel 1995, guidò una task force dell’American Psychological Association che esaminava questioni controverse nello studio dell’intelligence, in risposta in particolare al  libro The Bell Curve. Nel libro si sosteneva che l’intelligenza umana è sostanzialmente influenzata da fattori ereditari e ambientali, ma le condizioni ambientali influiscono sull’intelligenza. Tra essi conta il reddito, il tipo di lavoro, la famiglia d’origine, la razza.

La task force guidata da Neisser produsse un rapporto chiamato “Intelligence: Knowns and Unknowns” in cui si specificavano i dati scientifici conosciuti e sconosciuti dell’intelligenza.

Neisser condusse ulteriori ricerche sulla memoria, occupandosi anche delle testimonianze degli individui sopravvissuti al terremoto in California nel 1989, cercando di studiare l’impatto delle emozioni sulla memoria.

Morì il 17 febbraio 2012 a Itaca, New York. Soffriva di morbo di Parkinson.

Un sondaggio di Review of General Psychology , pubblicato nel 2002, ha classificato Neisser come il 32 ° psicologo più citato del 20 ° secolo.

La psicologia cognitiva

Nel 1967, Neisser pubblicò Cognitive Psychology , che in seguito definì come un attacco ai paradigmi psicologici comportamentali che allora andavano per la maggiore. Il libro conteneva ricerche sperimentali sulla percezione, la memoria e il pensiero e segnò l’inizio di un nuovo tipo di psicologia, il cognitivismo.

La psicologia cognitiva studia il funzionamento della mente come elemento intermedio tra il comportamento e l’attività cerebrale prettamente neurofisiologica.

Il funzionamento della mente veniva assimilato (metaforicamente) a quello di un software che elabora informazioni (input) provenienti dall’esterno, restituendo a sua volta informazioni (output) sotto forma di rappresentazione della conoscenza, organizzata in reti semantiche e cognitive.

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La critica alla psicologia cognitiva

Neisser pensava che la psicologia cognitiva usasse troppo la sperimentazione in laboratorio, distaccandosi eccessivamente dal mondo reale. Infine, e forse soprattutto, provava un grande rispetto per la teoria della percezione diretta e della raccolta di informazioni, che era stato proposto dall’eminente psicologo percettivo JJ Gibson e da sua moglie, Eleanor Gibson .

Neisser era giunto alla conclusione che la psicologia cognitiva avesse poche speranze di raggiungere il suo potenziale senza prendere attentamente nota dell’opinione dei Gibson secondo il quale il comportamento umano poteva essere compreso solo iniziando con un’analisi delle informazioni direttamente disponibili per qualsiasi organismo percettivo.

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La percezione e la memoria

A Neisser viene riconosciuta l’abilità di aver costruito una nuova visione della mente. Egli postulò che la memoria è, in gran parte, ricostruita e non una fotografia istantanea del momento.

Questa nozione nacque dall’analisi di Neisser sulla testimonianza di John Dean, ex consigliere di Richard Nixon . Lo studio mette a confronto i ricordi di Dean, raccolti dalla sua testimonianza diretta, con conversazioni registrate a cui Dean aveva partecipato.

Neisser scoprì che i ricordi di Dean erano in gran parte errati rispetto alle conversazioni registrate. Per prima cosa, scoprì che i ricordi di Dean tendevano ad essere egocentrici, selezionando elementi che enfatizzavano il suo ruolo negli eventi in corso. Ancora più importante, un “ricordo” di Dean era una combinazione di eventi che si erano verificati in momenti diversi.

Come disse Neisser:

“quello che sembra essere un episodio ricordato rappresenta in realtà una serie ripetuta di eventi”.

Neisser suggerì che tali errori di memoria fossero comuni, riflettendo la natura della memoria come processo di costruzione.

Studiò anche le memorie individuali relative all’esplosione dello Space Shuttle Challenger. Immediatamente dopo l’esplosione del Challenger, nel gennaio 1986, Neisser distribuì un questionario alle matricole del college chiedendo loro di scrivere le informazioni chiave in cui i ragazzi specificavano dove avevano saputo di questo evento, in che modo, a che ora, ecc.

Tre anni dopo, Neisser ripropose il test agli stessi studenti per esaminare l’accuratezza della loro memoria. Lo psicologo scoprì che c’erano notevoli errori nelle memorie degli studenti, nonostante la fiducia dei ragazzi nella accuratezza del loro ricordo.

La memoria è dunque una ricostruzione del passato, non una fotografia precisa di quanto ci è accaduto. Le persone in realtà credono di avere dei ricordi, mentre invece hanno solo ricordi di ricordi, perché la mente confonde le cose.

Dr. Walter La Gatta



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Dr. Walter La Gatta

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Psicologo Psicoterapeuta Sessuologo
Delegato Regionale del Centro Italiano di Sessuologia per le Regioni Marche Abruzzo e Molise.
Libero professionista, svolge terapie individuali e di coppia
ONLINE E IN PRESENZA (Ancona, Terni, Fabriano, Civitanova Marche)

Il Dr. Walter La Gatta si occupa di:

Psicoterapie individuali e di coppia
Terapie Sessuali
Tecniche di Rilassamento e Ipnosi
Disturbi d’ansia, Timidezza e Fobie sociali.

Per appuntamenti telefonare direttamente al:
348 – 331 4908
(anche whatsapp)
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  • 25 Feb 2020
  • Dr. Walter La Gatta
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Freud Jung e Ferenczi: ricordi e sogni di una traversata indimenticabile (1909)

Freud Jung e Ferenczi: ricordi e sogni di una traversata indimenticabile (1909)

Freud Jung e Ferenczi: ricordi e sogni di una traversata indimenticabile (1909)

Freudiana

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Sopra: Il piroscafo George Washington, che Freud Jung e Ferenczi utilizzarono per andare in America

Nel 1909 sia Freud che Jung furono invitati a tenere un ciclo di conferenze alla Clark University (Worcester, Mass.). Dopo una vacanza con la famiglia sulle Alpi Bavaresi, il alle cinque e mezzo del mattino, Freud giunse il 20 Agosto 1909 a Brema con il treno: qui si incontrò con Jung e Ferenczi.

I tre mangiarono presso l’Essinghaus, un ristorante che si trovava in un antico edificio del porto. Fu in questa occasione che Freud svenne sentendo Jung parlare dei cadaveri trovati nelle torbiere al nord della Germania.

L’indomani i tre colleghi si imbarcarono per la traversata. Cullati dai lunghi giorni di nave e lontani dal ritmo incalzante a cui li costringeva l’attività professionale, i tre passarono molto del loro tempo ad analizzarsi reciprocamente i sogni. Sebbene Ferenczi si sentisse molto inferiore ai suoi compagni di viaggio in questa attività di interpretazione, non aveva timore nel riferire a Freud cosa pensava riguardo ai sogni del Maestro.

Una lezione divulgativa su Freud e il suo libro "Totem e Tabù"

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Ad esempio l’insoddisfazione per l’ambiente viennese che Freud spesso manifestava era, secondo l’analisi di Ferenczi, più una insoddisfazione e preoccupazione per l’ambiente familiare, una ‘insoddisfazione dell’anima’, con le sue implicazioni anche sessuali.

Con Jung non c’era la stessa confidenza. Ricorda Jung:

“Eravamo insieme ogni giorno e analizzavamo i nostri sogni. In quel periodo ebbi alcuni sogni importanti, ma Freud non riusciva a capirne nulla. Non per questo lo criticavo, poiché a volte avviene anche al migliore analista di non saper risolvere gli enigmi di un sogno. Era un insuccesso umano, che non mi avrebbe mai fatto smettere le nostre analisi: al contrario, esse avevano per me un gran valore e la nostra amicizia mi era oltremodo cara. Consideravo Freud una personalità più anziana, più esperta e matura, e mi sentivo come un figlio suo. Ma poi capitò qualcosa che inferse un duro colpo alla nostra amicizia”.

Freud ebbe un sogno, che Jung interpretò come meglio poteva, ma aggiunse che si sarebbe potuto dire molto di più se solo avesse potuto conoscere qualche particolare in più sulla vita privata del Maestro. A queste parole, Freud lo guardò sorpreso, con uno sguardo carico di sospetto, e poi disse: “Non posso mettere a repentaglio la mia autorità”. Come ricorda Jung: “in quello stesso momento l’aveva persa del tutto. Quella frase si impresse come un marchio indelebile nella mia memoria” (C.G. Jung Ricordi, sogni, riflessioni).


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Nonostante queste tensioni, il viaggio fu gradevole e a Freud fece piacere sorprendere un giorno il suo attendente di cabina mentre leggeva il suo libro Psicopatologia della vita quotidiana. Freud annotò che la vita di bordo si svolgeva stranamente quieta e in sordina, fatta eccezione per “il suono lacerante dei corni da nebbia”.

Quando il 29 agosto la George Washington attraccò a New York, Abraham Brill si trovava sul molo ad aspettarla. Si racconta che, vedendo la Statua della Libertà, Freud abbia detto a Jung una fatidica frase: “Ma lo sanno (gli americani) che gli stiamo portando la peste“? Fu Lacan a riferire questa frase, durante una conferenza dal titolo La chose freudienne (Vienna, 1955). Lacan disse di averla appresa direttamente da Jung.

Fonti:
De Lauretis, Soggetti eccentrici, Feltrinelli
Jung C.G. Ricordi, sogni, riflessioni, Rizzoli
Donn L. Freud e Jung, Leonardo

Dott.ssa Giuliana Proietti

Una Conferenza su Edward Bernays e l'invenzione della Propaganda

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Leggi anche: Sigmund Freud e il viaggio in America (1909)

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La Dottoressa Giuliana Proietti, Psicoterapeuta Sessuologa di Ancona, ha una vasta esperienza pluriennale nel trattamento di singoli e coppie. Lavora prevalentemente online.
In presenza riceve a Ancona Fabriano Civitanova Marche e Terni.

  • Delegata del Centro Italiano di Sessuologia per la Regione Umbria
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Oltre al lavoro clinico, ha dedicato la sua carriera professionale alla divulgazione del sapere psicologico e sessuologico nei diversi siti che cura online, nei libri pubblicati, e nelle iniziative pubbliche che organizza e a cui partecipa.

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  • 26 Mar 2008
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Le profezie che si autorealizzano

Le profezie che si autorealizzano

Le profezie che si autorealizzano

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Il concetto di “profezia che si autorealizza” è un fenomeno psicologico che ha importanti implicazioni in diversi ambiti, dalla psicologia sociale all’educazione, dal mondo del lavoro alle relazioni personali. Coniato dal sociologo Robert K. Merton nel 1948, questo termine descrive una situazione in cui una previsione inizialmente falsa o infondata finisce per avverarsi proprio perché le persone agiscono in modo coerente con quella previsione. Cerchiamo di capire meglio di cosa si tratta.

Quale è il meccanismo alla base della profezia che si autorealizza?

La dinamica alla base di questo fenomeno può essere spiegata in termini di interazione tra credenze, comportamenti e risultati. Quando una persona o un gruppo crede fermamente in qualcosa, questa convinzione può influenzare il comportamento, che a sua volta produce effetti coerenti con la profezia iniziale. In altre parole, le aspettative possono in molti casi modellare la realtà.

Esempi pratici

Troviamo esempi pratici di profezie che si autorealizzano in molti settori. Vediamone alcuni.

1. Ambito educativo

Un celebre studio condotto da Rosenthal e Jacobson nel 1968 ha dimostrato l’effetto delle aspettative degli insegnanti sulle performance degli studenti. In un esperimento, agli insegnanti venne detto che alcuni studenti avevano un “potenziale intellettivo” particolarmente alto (in realtà questi studenti erano stati scelti casualmente). Alla fine dell’anno scolastico, quegli stessi studenti mostrarono un miglioramento significativo rispetto ai loro compagni. Questo risultato fu attribuito al diverso trattamento che avevano ricevuto da parte degli insegnanti, che li avevano incoraggiati maggiormente.

“Quando ci aspettiamo determinati comportamenti degli altri, è probabile che agiamo in modi che rendono più probabile che si verifichi il comportamento previsto” (Rosenthal e Babad, 1985).

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2. Ambito lavorativo

Nel mondo del lavoro, l’effetto Pigmalione è un esempio di profezia che si autorealizza. I leader che credono nelle potenzialità dei propri dipendenti tendono a fornire loro maggiori opportunità di crescita, feedback positivi e supporto. Di conseguenza, i dipendenti si sentono valorizzati e motivati, migliorando le loro performance e confermando le aspettative positive del leader.

3. Relazioni interpersonali

Anche nelle relazioni personali, le profezie che si autorealizzano possono giocare un ruolo cruciale. Se una persona entra in una nuova amicizia o relazione convinta che l’altro non sia affidabile, potrebbe comportarsi in modo distaccato o sospettoso. Questo atteggiamento può indurre l’altra persona a rispondere in modo meno aperto o affettuoso, confermando così la convinzione iniziale.

4. Effetto placebo

Un esempio  di profezia che si autorealizza è l’effetto placebo. Questo effetto  si riferisce ai miglioramenti nei risultati misurati in soggetti di studi scientifici, o studi clinici, anche quando i partecipanti non avevano ricevuto alcun trattamento significativo, che avrebbe effettivamente potuto produrre un cambiamento. Ad esempio, miglioramenti del mal di testa dopo aver assunto un medicinale, che invece conteneva solo farina. La ricerca sull’effetto placebo ha dimostrato che la convinzione di aver assunto qualcosa di efficace o di dannoso può influire molto sui risultati.

Una falsa credenza, alla pari di un placebo, può provocare conseguenze che fanno sì che la realtà corrisponda alla credenza. In genere, coloro che sono al centro di una profezia che si autorealizza non capiscono che le loro convinzioni hanno causato le conseguenze che si aspettavano o temevano: il tutto avviene a livello completamente involontario.

5. Rapporto con se stessi

Una persona che dubita costantemente della sua capacità di svolgere il proprio lavoro può inavvertitamente sabotare se stessa. Poiché ritiene sicuro che il suo lavoro sia scadente, potrebbe evitare di dedicare molto tempo e sforzi, o evitare di farlo del tutto.

Ad esempio, il depresso può trovarsi a pensare frasi del tipo:

“Sono senza valore”;
“Nessuno mi ama”;
“Non piaccio a nessuno, pensano tutti che io sia un malato”;
“Dato che non piaccio a nessuno, non ho amici.”
“Non valgo niente”

Questi pensieri possono convincere la persona a rinunciare a migliorare le proprie capacità, o aumentare la sua capacità di recupero emotivo. “Dopo tutto,” si arriva a pensare, “che importa? Comunque non funzionerà. “

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Perché è importante conoscere il meccanismo che sta dietro alla profezia che si autorealizza?

Comprendere il fenomeno delle profezie che si autorealizzano può offrire strumenti utili per migliorare la vita quotidiana e le relazioni. Ad esempio permette di:

  • Identificare e mettere in discussione le proprie credenze e aspettative: questo evita comportamenti che confermano previsioni negative.

  • Cercare sempre di esprimere aspettative realistiche o positive, incoraggiando gli altri a dare il meglio di sé

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  • 23 Gen 2025
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Psicoterapia cognitivo comportamentale

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Definizione

La terapia cognitivo comportamentale (abbreviata TCC o CBT, dall’inglese Cognitive Behavioral Therapy) indica un approccio psicoterapeutico finalizzato a promuovere un cambiamento positivo nelle persone, per alleviare alcune forme di sofferenza emotiva e per affrontare numerosi problemi di carattere psicologico, sociale o comportamentale. Questo approccio si basa sull’assunto che i modelli di pensiero utilizzati (definiti  “modelli cognitivi”) dalle persone possano in alcuni casi essere non appropriati, tanto da causare comportamenti disadattivi e risposte emotive disfunzionali.

In che cosa consiste la terapia cognitivo comportamentale

La terapia cognitivo-comportamentale integra le tecniche di modificazione del comportamento comportamentiste (o behavioriste, da behavior, che significa “comportamento” in inglese) con le tecniche tipiche dell’approccio cognitivista. Il trattamento si concentra dunque sulla modificazione dei pensieri e dei comportamenti, sostituendo le risposte comportamentali disfunzionali apprese nell’ambiente con pensieri e comportamenti più funzionali.

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Approccio comportamentista: gli studi classici sul condizionamento

Per poter comprendere l’approccio comportamentista e le sue tecniche occorre conoscere i concetti di base sul condizionamento, che nascono dalle ricerche del fisiologo russo Ivan Pavlov (1849-1936), cui seguì in seguito il lavoro dell’americano BF Skinner (1904-1990). Questi teorici ritenevano che il comportamento potesse essere appreso attraverso premi o punizioni o, per usare il loro linguaggio, attraverso rinforzi positivi e negativi, che influenzano il comportamento.
La ricerca di Pavlov sui riflessi condizionati ha fortemente influenzato non solo la scienza, ma anche la cultura popolare: si pensi all’espressione “il cane di Pavlov”, usata per descrivere qualcuno che reagisce automaticamente a una situazione, invece di utilizzare il pensiero critico.


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Pavlov e la risposta condizionata

Ivan Petrovich Pavlov (Premio Nobel per la medicina nel 1904 per la ricerca sul sistema digerente) fu il primo a descrivere il fenomeno del condizionamento classico.

Nel 1890, Pavlov stava facendo una ricerca sulla funzione gastrica nei cani, in particolare sulla funzione della ghiandola salivare. Notò che i cani di laboratorio tendevano a salivare prima ancora che vedessero il cibo o iniziassero a mangiare. La salivazione era una risposta riflessa, dovuta al fatto che il cane aveva ricevuto per lungo tempo il cibo subito dopo il suono di una campanella. Sentire il suono della campanella dunque produceva in lui l’associazione con il cibo e determinava una risposta non naturale, ma “condizionata” dalla specifica esperienza precedente dell’animale. Pavlov ha scoperto che attraverso quello che ora è chiamato “condizionamento classico”, poteva provocare una salivazione nei suoi cani al semplice suono di una campanella, anche senza la presentazione del cibo.

Questi esperimenti sono stati effettuati ai primi del Novecento in Russia; circolavano traduzioni individuali di queste ricerche fra gli scienziati occidentali, ma esse divennero pienamente note solo nel 1927.

Esperimento del Piccolo Albert

Un altro famoso (anche se eticamente discutibile) esperimento sul condizionamento classico è quello di Watson e Raynor (1920). Questi ricercatori dimostrarono che gli esperimenti condotti sui cani da Pavlov potevano funzionare anche sugli esseri umani. Il piccolo Albert era un bambino di 9 mesi che giocava tranquillamente con un topolino bianco, un coniglio e varie maschere. Albert non mostrava alcuna paura in presenza di questi stimoli.

L’esperimento consisteva nello spaventare il bambino con un forte rumore in presenza di questi stimoli. L’esperimento fu ripetuto più volte, e ogni volta il bambino scoppiava a piangere.  In seguito a questi esperimenti bastava mostrare un topolino bianco al piccolo Albert per ottenere in lui tutti i segni della paura. Watson e Raynor dimostrarono così che il condizionamento classico poteva essere utilizzato per creare una fobia, cioè una paura irrazionale, sproporzionata rispetto all’effettivo pericolo.

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Skinner e il condizionamento operante

La teoria di BF Skinner (1957) si basa sull’idea che se un particolare modello stimolo-risposta (SR) viene rinforzato (premiato), l’individuo viene condizionato a rispondere in un determinato modo. La caratteristica distintiva del condizionamento operante è che l’organismo stesso può emettere risposte e non solo rispondere a stimoli esterni. Il rinforzo è l’elemento chiave di questa teoria, perché è ciò che induce l’organismo a produrre la risposta desiderata.

L’esperimento classico di Skinner riguarda la somministrazione di cibo ad un piccione o a un ratto quando essi, del tutto casualmente, imparano ad abbassare una levetta. Inizialmente il comportamento di abbassare la levetta è casuale, ma a seguito della somministrazione del cibo, la probabilità che il piccione o il ratto premano nuovamente la levetta cresce rapidamente. Si tratta di un modo di controllare il comportamento diverso da quello di Pavlov: il rinforzo ricevuto, in questo caso attraverso l’abbassamento della levetta (per ottenere cibo), non provoca un riflesso condizionato, ma rende più probabile una risposta.

Questi tre esperimenti hanno creato teorie e tecniche ampiamente utilizzate non solo in ambito clinico (per la modificazione del comportamento), ma anche nella scuola e nello sviluppo didattico (gestione della classe e istruzione programmata).

Il comportamentismo come movimento psicologico è nato nel 1913, quando John Broadus Watson pubblicò l’articolo “La psicologia come la vede un comportamentista”. Watson riteneva che tutte le differenze individuali nel comportamento fossero dovute a diverse esperienze di apprendimento e che il processo di condizionamento classico (sulla base delle osservazioni di Pavlov) fosse in grado di spiegare tutti gli aspetti della psicologia umana. Tutto dipendeva insomma da modelli stimolo-risposta, mentre l’esistenza della coscienza veniva negata.

Molta della sperimentazione comportamentista è stata condotta su animali e poi generalizzata agli esseri umani.

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La terapia comportamentale

L’approccio comportamentale si concentra sul comportamento osservabile di una persona nel presente, in netto contrasto con il metodo psicoanalitico di Sigmund Freud (1856-1939), che si concentra invece sui processi mentali inconsci e sulle loro radici nel passato.

La terapia comportamentale è stata sviluppata negli anni cinquanta da parte di ricercatori e terapeuti che erano allora critici nei confronti del prevalere dei metodi di trattamento freudiani, che essi consideravano non scientifici, in quanto facevano leva su aspetti non osservabili del funzionamento mentale. I comportamenti invece sono osservabili e pertanto su di essi poteva essere costruita una psicologia scientifica, vicina alla fisica, basata su dati reali, misurabili, confrontabili.

Con la terapia comportamentale si trattava dunque di cambiare i comportamenti dovuti a reazioni disfunzionali apprese nell’ambiente, attraverso tecniche di desensibilizzazione e di rilassamento.

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La terapia cognitiva

La terapia cognitiva è stata sviluppata dallo psicologo Aaron Beck negli anni sessanta. Questo trattamento psicoterapeutico si basa sul principio per cui la persona che soffre di problemi psicologici ha appreso delle risposte disfunzionali e autolesioniste partendo da modelli di pensiero inappropriati o irrazionali, definiti “pensieri automatici”, che danno alla persona una visione distorta della situazione che si sta vivendo.

Gli esseri umani pensano in parole: la formulazione dei pensieri diventa dunque molto importante per controllare gli atteggiamenti e i comportamenti. La terapia cognitiva si sforza di cambiare questi modelli errati di pensiero (definiti anche “distorsioni cognitive”), cercando di mettere in discussione la razionalità e la validità delle ipotesi su cui questi pensieri disfunzionali si fondano (credenze, aspettative, ecc.). Il processo terapeutico si basa in gran parte sulla “ristrutturazione cognitiva”: si tratta di una sfida ai propri pensieri, per riconsiderare le proprie ipotesi o credenze, scoprendovi gli aspetti irrazionali che danno vita ai comportamenti disadattivi.

La terapia cognitivo-comportamentale

La terapia cognitivo-comportamentale (o psicoterapia cognitivo-comportamentale) è un approccio psicoterapeutico che mira a risolvere i problemi riguardanti emozioni e comportamenti disfunzionali attraverso una procedura sistematica orientata agli obiettivi.  Questo approccio rappresenta una combinazione di terapia cognitiva e terapia comportamentale  ed è uno dei trattamenti più ampiamente studiati e ritenuti più efficaci, in particolare per il trattamento di ansia e fobie.

L’assunto di base della TCC è che i comportamenti (sia adattivi, sia disadattivi) si verificano a causa della interpretazione che una persona dà di un evento, non tanto per l’evento stesso.
Quando una persona si sente in difficoltà o è particolarmente ansiosa, il suo modo di leggere la realtà può diventare molto negativo. Il lavoro terapeutico fra paziente e terapeuta consiste nel cercare insieme la relazione tra pensieri disfunzionali, emozioni e comportamenti. Ciò consente di migliorare il controllo sulle emozioni negative e di cambiare di conseguenza il modo in cui ci si comporta. Il terapeuta ha il compito di aiutare il paziente a sfidare i pensieri automatici, per sostituirli con altri, più realistici ed efficaci, incoraggiando uno stile del pensiero più aperto, oggettivo e consapevole.

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Setting

La terapia cognitivo-comportamentale è generalmente somministrata in ambulatorio da un terapeuta qualificato. La terapia può essere svolta sia in sedute individuali, sia in incontri di gruppo e dura cinquanta minuti a seduta. In genere una terapia cognitivo comportamentale non supera i sei mesi. In casi eccezionali può durare fino a due anni. Il terapeuta siede davanti al paziente, con o senza scrivania. Non viene usato il lettino, se non per le tecniche di rilassamento.

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L’Alleanza Terapeutica

Nella terapia cognitivo-comportamentale il risultato è frutto della collaborazione tra terapeuta e paziente, per cui è necessario stabilire dal primo momento un rapporto di lavoro confortevole e di fiducia. Quando l’alleanza lascia a desiderare (non c’è feeling fra terapeuta e paziente, non ci si comprende, non ci si sente alleati per uno scopo comune) la terapia è destinata al fallimento.


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Come funziona la TCC

La terapia cognitivo-comportamentale è un’opzione di trattamento per una serie di disturbi psicologici, come depressione, disturbi alimentari, disturbi d’ansia generalizzata, ipocondria, fobie, insonnia, disturbi ossessivo-compulsivi e disturbi di panico. Si tratta di una psicoterapia breve, focalizzata sul sintomo, o su aree problematiche circoscritte.

La premessa principale della TCC è che i problemi si sviluppano come conseguenza di pensieri irrazionali e di comportamenti disadattivi appresi nell’ambiente, che non hanno un impatto positivo sul benessere della persona.

LaTCC parte dempre dalla definizione degli obiettivi: l’intervento terapeutico infatti si propone di essere efficace nel breve termine e limitato nel tempo (la soluzione dei problemi viene pensata in mesi piuttosto che in anni).

I terapeuti cognitivo-comportamentali inoltre non si basano sul proprio giudizio per valutare l’efficacia della terapia: piuttosto, misurano il cambiamento ottenuto dal punto di vista del paziente. Il terapeuta potrebbe chiedere al paziente di fare dei controlli o rispondere a questionari durante la terapia, in modo da monitorare i progressi raggiunti.

Dal punto di vista pratico la TCC si propone di insegnare ai pazienti a relazionarsi in modo diverso con i loro pensieri, le sensazioni fisiche, le emozioni e i comportamenti. Le tecniche possono essere diverse, anche in base alla natura del problema, ma ci si può aspettare di terminare la terapia con un kit di strumenti e di competenze utili per affrontare le situazioni temute.

La TCC riconosce il ruolo che le esperienze passate possano aver avuto nel determinare la personalità, ma allo stesso tempo ritiene che poco si possa fare per cambiare ciò che si è già verificato. Piuttosto, la TCC si concentra sull’identificazione di ciò che la persona si porta dietro, nel presente, da queste esperienze, sotto forma di pensieri e sensazioni su se stessa e sul mondo che la circonda. Quando queste credenze di base vengono ritenute disadattive, ci si propone di modificare nel paziente stile del pensiero, risposte emotive e comportamenti, in modo da permettergli di affrontare la vita in modo più funzionale, con maggiore autostima e auto-determinazione.

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Le critiche alla terapia cognitivo-comportamentale

Molte ricerche hanno dimostrato che la TCC è molto efficace, in molti casi più di altri trattamenti psicologici, ma vi sono anche molte critiche. Ad esempio si è detto che la focalizzazione sul sintomo può essere utile quando la sofferenza del paziente è molto intensa, ma la restrizione dell’interesse terapeutico alla sintomatologia presentata non permette il superamento delle problematiche profonde della persona, per cui è possibile che, risolto il disagio dovuto ad un particolare sintomo, il paziente sviluppi nuovi sintomi in altre aree.

Questo perché, dicono i critici, la TCC tende a cambiare i comportamenti, ma non mira ad una modificazione profonda della personalità. Ciò che si potrebbe rispondere a queste critiche è che neanche le terapie psicodinamiche danno la garanzia di perfetta guarigione, anche se sono particolarmente lunghe e costose.

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Tecniche della terapia cognitivo-comportamentale

Si parte dall’assunto che emozioni, pensieri e comportamenti si influenzano vicendevolmente e quindi tutti sono oggetto di valutazione e considerazione terapeutica.

Test di validità. Il terapeuta chiede al paziente di spiegare in modo razionale alcuni dei suoi pensieri e comportamenti disfunzionali. Se il paziente non è in grado di produrre evidenze oggettive a sostegno dei suoi presupposti, è costretto ad ammetterne la loro non validità e a predisporsi al cambiamento. Esempi tipici di distorsioni cognitive:

– La legge del tutto o niente: le cose non sono sempre o bianche o nere, ma spesso riguardano una zona intermedia o grigia;
– Le generalizzazioni: un evento negativo non è una sconfitta definitiva e irreversibile;
– Uso dei filtri: le informazioni vanno osservate nella loro complessità e non filtrate dai propri pensieri positivi o negativi;
– Ingrandire o minimizzare i fatti: i fatti devono essere analizzati per quello che sono;
– Perfezionismo: è sbagliato voler essere perfetti, dal momento che nessuno lo è;
– Autoaccuse: invece di dirsi “sono uno stupido”, imparare a dirsi “in quella occasione ho agito come uno stupido”.

Test cognitivi. Al paziente viene chiesto di immaginare una situazione difficile vissuta in passato, e poi impegnarsi con il terapeuta per definire come affrontare con successo un problema simile che si sta verificando nel presente o nell’immediato futuro. Obiettivo è quello di cambiare pensieri e comportamenti sulla base dell’esperienza vissuta.

Scoperta guidata. Il terapeuta pone una serie di domande, volte a guidare il paziente verso la scoperta delle sue distorsioni cognitive.

Scrittura del diario. I pazienti tengono un diario dettagliato delle situazioni che si presentano nella vita di tutti i giorni, dei loro pensieri, delle emozioni che provano e dei comportamenti che li accompagnano. Il terapeuta e il paziente poi rivedono insieme il diario, alla scoperta di modelli di pensiero disadattivi e di come questi abbiano influenza sui comportamenti.

Compiti a casa. Al fine di incoraggiare la scoperta di sé e rafforzare gli approfondimenti realizzati in terapia, il terapeuta può chiedere al paziente di fare dei compiti a casa. Questi possono riguardare lettura di libri o articoli adeguati alla terapia o l’applicazione di specifiche strategie. I compiti a casa  forniscono un modo strutturato di aiutare i pazienti a testare i comportamenti cui non sono familiari o a tentare comportamenti familiari in situazioni nuove.

Modeling. Specifici giochi di ruolo permettono al terapeuta di vedere come il paziente potrebbe agire nelle diverse situazioni. Il paziente può quindi modellare il suo comportamento in base alle osservazioni che scaturiscono dalla terapia.

Condizionamento avversivo. Questa tecnica utilizza i principi del condizionamento classico per diminuire il ricorso ad un comportamento che è difficile da cambiare, perché è molto abituale o temporaneamente gratificante. Il paziente viene esposto ad uno stimolo sgradevole mentre è impegnato a pensare al comportamento in questione. In questo modo, il comportamento stesso viene associato a sensazioni spiacevoli, piuttosto che piacevoli, abbassando la sua motivazione a metterlo in atto. Si tratta di un contro-condizionamento che serve a indebolire la risposta disadattiva e a rafforzare una risposta diversa.

Un noto tipo di contro-condizionamento è la “desensibilizzazione sistematica”, che contrasta l’ansia connessa con un particolare comportamento o una determinata situazione inducendo al suo posto una risposta rilassata (ad esempio attraverso il training autogeno).

Modeling. Le persone possono imparare nuove abilità guardando gli altri e poi cercando di emularli, personalizzando gli atteggiamenti osservati.  Ad esempio, osservando un amico che ci sa fare con le ragazze si possono apprendere tecniche di comunicazione e abilità che possono permettere un maggiore successo sociale;

Esposizione. Si chiede al paziente di esporsi gradualmente alle situazioni temute, cominciando dai compiti più semplici, per poi affrontare via via quelli più difficili;

Tecniche di rilassamento. In genere si usano il training autogeno, il rilassamento muscolare progressivo o la respirazione diaframmatica, per imparare ad affrontare l’ansia e lo stress.

Psicoeducazione. A volte può essere utile anche semplicemente informare il paziente sulle normali risposte psichiche e fisiologiche dell’organismo, per evitare che abbia delle aspettative, su se stesso e sugli altri, del tutto irrealistiche;

Ristrutturazione cognitiva. Una volta identificati i vari modelli disfunzionali di elaborazione delle informazioni che sono alla base dei sintomi, si cerca di sostituire questi con altri pensieri e comportamenti, più funzionali alla vita e al benessere del paziente.

Dr. Giuliana Proietti

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Dr. Giuliana Proietti
Psicoterapeuta Sessuologa
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La Dottoressa Giuliana Proietti, Psicoterapeuta Sessuologa di Ancona, ha una vasta esperienza pluriennale nel trattamento di singoli e coppie. Lavora prevalentemente online.
In presenza riceve a Ancona Fabriano Civitanova Marche e Terni.

  • Delegata del Centro Italiano di Sessuologia per la Regione Umbria
  • Membro del Comitato Scientifico della Federazione Italiana di Sessuologia.

Oltre al lavoro clinico, ha dedicato la sua carriera professionale alla divulgazione del sapere psicologico e sessuologico nei diversi siti che cura online, nei libri pubblicati, e nelle iniziative pubbliche che organizza e a cui partecipa.

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