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Author: Dr. Agnes Giard

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Andersen e l'allegoria pessimista della vita

Andersen e l’allegoria pessimista della vita

Andersen e l’allegoria pessimista della vita

Psicolinea for open minded people

Il racconto quasi-autobiografico della Sirenetta dal 19° secolo è ancora fonte di ispirazione per migliaia di bambini che si trovano ad affrontare lo stesso problema: cambiare la loro natura. L’oggetto del loro desiderio rimane inaccessibile. Poi leggono La Sirenetta, perché questa storia parla del loro malessere con parole … senza speranza. Senza soluzioni. Senza rimedi.

Questa è la storia di un uomo che vorrebbe diventare una bellissima sirena … Si mette le sue più belle mutandine di pizzo nero, si epila, in modo da avere il corpo liscio di una ninfa e si inietta la sua dose giornaliera di ormoni … prima di sprofondare in un incubo di 60 minuti. E’ così difficile cambiare identità. Il regista, Kim Kyung-Mook lo sa.

Quando fece il suo primo film a 19 anni (Me and doll playing), egli raccontò come da bambino indossava scarpe e abiti di sua madre per somigliare ad una bambola Barbie … era felice perché tutto sembrava possibile. Nell’adolescenza però… capì che i suoi desideri erano impossibili. Realizzò così A Cheonggyecheon dog,, la storia della sirenetta (1) implementato nella città di Seul, sul fiume Cheonggyecheon: fino al 2005, il fiume era solo una fogna a cielo aperto. Trasportava solo  residui fecali e carcasse di cani morti.

Ora lungo le sue rive si possono vedere i marchi del lusso internazionale: Gucci, Prada e Swatch, che attirano mezzo milione di escursionisti ogni giorno … La città riesce nel suo cambiamento, ma non l’uomo. Alla fine del film, l’eroe si ritrova come la sirenetta di fronte alla schiuma bianca del fiume in cui si dissolvono le sue lacrime. “Tu non potrai mai diventare la bellezza dei tuoi sogni”.

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Dal 2002 parole che curano, orientano e fanno pensare.

Invitato al Black Movie Festival di Ginevra, Kim Kyung-Mook ha detto:

“Quando ho fatto il film, ero abbastanza disperato. La favola di Andersen, La Sirenetta, ha parlato al mio cuore perché descrive perfettamente la mia situazione, quella di un ragazzo che sogna il    principe azzurro, ma a cui il suo corpo impedisce di amare liberamente. Ho avuto l’impressione di essere come questa sirena che vorrebbe avere le gambe al posto della coda di pesce e avrebbe sofferto mille morti pur di essere in grado di cambiare la propria natura… Ella si amputa e soffre invano “.

Il Principe non la guarda nemmeno. Lui è interessato solo agli esseri umani reali. Il sacrificio doloroso della sirena si dissolve in una canzone d’amore dalla musica sciropposa che finisce male. Per Kim Kyung-Mook ecco dove finisce la favola di Andersen. In un pozzo senza fondo di tristezza impossibile da risolvere. “Ora sto meglio”, ha detto. Come a scusarsi per aver fatto un film che finisce male: “Ora sto meglio”

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Certo, Hans Christian Andersen non ha scritto storie molto felici. Forse non ha scritto neanche storie per bambini … ma per aspiranti suicidi. O per persone in difficoltà. Quando non stai bene, diventa quasi un conforto leggere che il mondo è cattivo, che anche i ricchi e famosi possono sprofondare nella depressione e che nessuna storia d’amore finisce lontano dal fallimento. Quando non si sta bene, le canzoni strappalacrime, i drammi all’acqua di rose e i messaggi compassionevoli danno un certo sollievo … Diventa allora facile identificarsi nell’eroe sfortunato: la sirenetta (2), la piccola fiammiferaia, Cristo, o altri. “Non sei solo nella sofferenza”. “Asciugati le lacrime, perché in un’altra vita …”. False promesse. Dolci illusioni. Ci si aggrappa a qualsiasi cosa, quando non va bene. Compresa l’idea, così rassicurante, che qui il mondo è fottuto, ma altrove, in un altro mondo, la tua sofferenza sarà premiata.

Hans Christian Andersen sembra non aver mai fatto altro in vita sua che essere infelice e trasformare questa sfortuna in una pia lezione di abnegazione. La docente di Filosofia della Sorbona, Céline-Albin Faivre, lo descrive come una vera vittima del destino: “romantico e dunque infelice, Andersen lo è integralmente, dice. Quando Andersen padre, un povero calzolaio, si sposò, comprò la bara di un morto, e poi ne fece il suo letto nuziale, dove nacque il futuro orfano Hans Christian. Quale miglior inizio per uno scrittore di fiabe? ” Céline-Albin sembra provare tenerezza verso questo “genio malinconico” dalla figura sgraziata e dal viso allungato.

Hans Christian Andersen era brutto. Era di umili origini. Era omosessuale. Era innamorato del figlio del suo benefattore (3). E il figlio del suo benefattore, al quale scrisse lettere a volte attraversate da confessioni non era interessato a lui … Non potendo vivere liberamente la sua omosessualità, Hans Christian Andersen si masturbava e si divertiva a scrivere racconti crudeli impregnati di morale cristiana. “Ci sono vite la cui storia fa parte del lavoro letterario che seguirà, dice Céline-Albin Faivre. (…) Andersen non fa eccezione a questo principio letterario, spesso misconosciuto. E così ha scritto la sua autobiografia, più volte, sotto diverse forme, intrisa di orgoglio e commovente, malgrado tutto. Era solito dire che la sua vita era stata una favola. Tutti i bambini tristi trovano in questa credenza una consolazione”.

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Per consolarsi di essere così infelice, Hans Christian Andersen ha fatto della sua vita un modello da seguire: ha rifiutato i piaceri della carne, non ha conosciuto l’amore e ha vissuto solo nell’amore dell’infinito sublime che è la fede. “La storia della mia vita, ha scritto, dice al mondo quello che mi ha insegnato: c’è un Dio amorevole che organizza tutto per il meglio.”

Andersen quindi non comunica altro messaggio, se non quello della rassegnazione. Una rassegnazione bella, commovente e soprattutto … Assoluta. Assolutamente fatale. “I racconti di Andersen sono senza moralina dice Céline-Albin Faivre, non c’è niente lì, se non un cuore puro che si restringe gradualmente, sempre di più, ma continua a lottare per un altrove”. Questo è Andersen, si tratta di una miscela intima di dolore e di estasi che è l’essenza della vita, dice Krotchka nel suo blog d’arte. Il racconto illustra non tanto un discorso morale (purezza e perseveranza premiate) ma un’allegoria pessimista della vita.

Pessimistico? E’ dire poco. Le storie di Andersen, spesso prive dell’happy end, finiscono male come le leggende dei martiri e descrivono con la stessa gioia sadica, le peggiori torture possibili inflitte a degli innocenti: morsi, ustioni, stanchezza, fame, solitudine, freddo, paura, abusi, disprezzo, abbandono … Mentre nella maggior parte dei racconti popolari, gli eroi riescono a superare le difficoltà affrontate con coraggio, nei racconti di Andersen i protagonisti soffrono “per niente”.

I loro sforzi sono vani. Inutile essere coraggiosi o ambiziosi. Condannate ad attraversare ogni girone di questo inferno che è la vita, le vittime di Andersen quasi sempre finiscono per morire, con gli occhi ancora immersi nei loro sogni. Alzando lo sguardo a quel cielo che Andersen descriveva con le parole di un predicatore, come l’unico posto desiderabile in questo mondo. Lassù, dove non si soffre più. Lassù, dove dunque deve essere il paradiso.

Bella lezione di disperazione, davvero. Alla quale si aggrappano migliaia di bambini e adolescenti che considerano il loro corpo come una prigione e come fonte di ogni sofferenza. “Non avrò mai le gambe dei miei sogni” … Mentre se leggessero la storia del brutto anatroccolo, essi saprebbero che … Non è una fatalità.

__________________

Nota 1 / Storia della Sirenetta: La Sirenetta, orfana di madre, vive nelle profondità del mare, con il padre (il re del Mare) e le sue cinque sorelle. La notte dei suoi quindici anni, sale in superficie dell’acqua e si innamora perdutamente di un giovane principe che salva da un naufragio. Per trovarlo, la sirenetta si rivolge ad una strega: ciò che desidera è avere un paio di gambe. La strega impone tre condizioni: in primo luogo, la sirenetta deve accettare di tagliarsi la lingua e diventare muta. In secondo luogo, ad ogni passo, dovrà avere la sensazione di camminare su aghi e lame taglienti. Ultima condizione: se mai il principe si innamorasse di un’altra donna e la sposasse, la sirenetta si trasformerebbe in schiuma. La sirenetta è disposta a fare questi sacrifici e accetta l’offerta. Trova il principe, ma lui non la riconosce. Lui cerca il volto sconosciuto che lo ha salvato dal naufragio. Ma la sirenetta, priva di voce, non può rivelare la sua identità, e il principe finisce per sposare un’ altra. La sirenetta si trasforma in schiuma. Le figlie dell’aria vengono a prenderla in modo che diventi una di loro. Condannata per un certo periodo a diffondere il bene intorno a lei, vive nella speranza di acquisire un’anima eterna e di partecipare, così, alla felicità del genere umano …

Nota 2 / “La Sirenetta è uno dei 166 racconti di Hans Christian Andersen che furono pubblicati nel 1837, nella terza sezione della prima raccolta di storie raccontate ai bambini. Se Andersen ha dedicato molta energia ai suoi racconti, è perché non li considerava solo come mero intrattenimento per i bambini: essi incarnavano le sue teorie estetiche e poetiche, e soprattutto, parlavano della sua anima. “(source : Dossier pédagogique, espace des arts)

Nota 3 / “Ti desidero, come se fossi una bella ragazza calabrese. I miei sentimenti per te sono quelli di una donna. Ma la femminilità della mia natura e il nostro amore deve rimanere segreto”. Nel 1835,  Andersen aveva 30 anni quando scrisse queste parole a Edward Collin, che le riportò nelle sue memorie pubblicate dopo la morte dello scrittore: ” Non ero in grado di rispondere a questo amore, e questo fece molto soffrire Andersen “. (Fonte: Homosexuels et bisexuels célèbres).

Agnès Giard

Articolo originale:
Les contes sexuellement suicidaires d’Andersen, Les 400 culs
Traduzione a cura di Psicolinea.it

Immagine:
Bertall, Wikimedia

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Agnes Giard
Dr. Agnes Giard

Agnès Giard autrice di libri, giornalista e dottore in antropologia, ha lavorato in passato su nuove tecnologie, artisti underground e cultura popolare giapponese, prima di dedicarsi alla sessualità. Nel 2000, è diventata corrispondente per la rivista giapponese SM Sniper con cui lavora da più di dieci anni. Nel 2003 ha pubblicato un libro d’arte in Giappone: Fetish Fashion poi ha iniziato una serie di ricerche che saranno pubblicate in collaborazione con artisti contemporanei giapponesi come Tadanori Yokoo, Makoto Aida, Toshio Saeki, etc. Il suo primo libro, L’Imaginaire érotique au Japon, tradotto in giapponese, è classificato 4 ° tra i libri stranieri più venduti. La sua biografia completa è disponibile qui:
http://sexes.blogs.liberation.fr

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Perché la paura ci fa tremare

Perché la paura ci fa tremare… Di piacere

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Le fantasie e gli scenari sessuali sono praticamente tutti legati a situazioni che non hanno nulla a che fare con il piacere, o con qualcosa di sensuale, ma al contrario sono le situazioni stressanti e pericolose che ci eccitano. Possiamo trovarvi  un collegamento con il mito della Medusa?

Ne L’Irrésistible pouvoir du sexe, lo psicoanalista Gérard Bonnet, analizza la sessualità con piacevole ironia. Il tono è già impostato nell’introduzione:

“Quando si tratta di sessualità, è in primo luogo al sesso genitale che si pensa spontaneamente, che regola l’unione tra i due sessi e apre l’accesso al corrispondente orgasmo.”

Per Gérard Bonnet, alla base della sessualità, c’è dunque una storia di organi che si compenetrano: foro e barra. Orifizio e collettore. Bullone e vite. Facendo riferimento ai principi fondamentali della fisica, i nostri genitali evocano la nascita dell’umanità nella sua forma più binaria. E’ così che abbiamo scoperto di poter creare il fuoco, strofinando un bastone in una cavità. Come nasce la scintilla: un polo positivo che si congiunge ad un polo negativo. La sessualità genitale, è così un pieno che riempie un vuoto… E’ il calore che ci pervade.

Ci sono un numero considerevole di studi sulla questione, che hanno l’obiettivo di insegnare a praticarla nelle migliori condizioni possibili, ha commentato Gérard Bonnet, con molta ironia.

Ciò che conta è che la sessualità non è una questione di piacere, ma di preoccupazione, dice. E questo vale per tutti, perché abbiamo tutti una parte maschile e una parte femminile dentro di noi. Tutti noi, maschi e femmine cresciamo in una società che ci priva dell’ “altro”, costringendoci ad entrare in una sorta di stampo. Da un lato i maschi, dall’altro le femmine. Occorre scegliere. E’ necessario tagliare una parte di noi stessi… Cosa che avviene non senza dolore.

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Anche se il ragionamento di Gérard Bonnet è focalizzato sull’ansia di castrazione, esso si basa su una teoria interessante che molti studi sembrano confermare: ciò che stimola la nostra libido, non è l’evocazione di un campo di margherite in primavera, popolato da cervi e conigli… È piuttosto la sagoma di uno squalo o la testa di una Medusa spaventosa, dai capelli irti come serpenti.

Pioniere di questa teoria fu Freud, che la formulò nel maggio 1922, in un articolo molto breve, pubblicato solo nel 1940, nella rivista Imago. L’articolo si intitola “testa di Medusa”. Gérard Bonnet spiega: “come suo solito, Freud adotta il punto di vista dell’uomo, ma l’esperienza è trasponibile da un sesso all’altro, a seconda di come ci si pone all’interno del discorso. Ci sono più rappresentazioni della testa di Medusa. Esse incarnano sempre in un modo o nell’altro la testa decapitata della Gorgone, una testa orribile da guardare. Questa immagine, dice Freud, rappresenta il sesso femminile come l’uomo se lo immagina, a priori, un sesso castrato, che esprime la differenza sessuale nei suoi aspetti più brutali e più terrificanti, dal suo punto di vista. (…) Ora, nei confronti di questa immagine, la reazione psichica umana è duplice: da un lato vi è orrore, angoscia di castrazione, un’esperienza che è simile, a livello psichico, alla perdita di un organo vitale, a livello biologico. Con rappresentazioni di questo stesso tipo: sangue versato, mutilazioni, esecuzioni, alcuni svengono. D’altra parte, allo stesso tempo, si produce un evento che il mito formula in termini di pietrificazione. Sessualmente, scrive Freud, questo si traduce nell’erezione. Ciò che angoscia al massimo livello, la perdita o la mancanza propria dell’altro sesso, permette al soggetto di reagire, prendendo coscienza, in particolare di quello che ha, dei suoi mezzi. Lo studio clinico ci dice infatti che gli impulsi masturbatori si verificano quando si prova una estrema angoscia, principalmente per rassicurarsi”.

E così, dice Gérard Bonnet, noi avremmo delle «vampate di calore» in presenza di situazioni perturbanti o inquietanti. E’ possibile ? In Occidente, questa teoria sembra pertinente.

Fu l’americano Ramsey, nel 1943, che elencò per primo le situazioni apparentemente non sessuali che possono produrre eccitazione. Curiosamente, questa lista include situazioni angoscianti, umilianti o dolorose. L’erezione (umidità) è allo stesso modo provocata dalle punizioni, dalla paura di essere puniti, dalla boxe, dalla lotta, dall’ avere paura, dalla collera, dagli insulti, dall’essere perseguitati da persone più grandi di età e più forti…

Qualche anno dopo, Kinsey – zoologo specializzato nel comportamento delle vespe delle galle («che raccolse in migliaia di esemplari per concludere, stupito, che non ve ne sono due uguali, come accade anche in due fiocchi di neve, né nell’aspetto, né nel comportamento» 1) – pubblicò in un rapporto il risultato di una minuziosa analisi di massa sulla sessualità umana.  «Invece che raccogliere le vespe, spiega Elisa Brune (ne La révolution du plaisir féminin), Kinsey iniziò a raccogliere prove sulla sessualità attraverso lunghe interviste dettagliate – e scoprì, ancora una volta, con rinnovato stupore, che non ci sono due uguali.  Ottenuto un finanziamento da parte della Fondazione Rockefeller, che gli permise di assumere del personale, raccolse nel corso degli anni migliaia di testimonianze (diciotto chilometri in tutto) che si tradusse poi in due relazioni enormi, una sulla sessualità maschile l’altra sulla sessualità femminile. Questi due studi evidenziano la frequenza e la varietà di attività sessuali insospettabili, sia nelle donne che negli uomini, e un divario enorme rispetto alla morale ufficiale. Per la prima volta, diventata oggetto di studio su larga scala, la realtà sessuale emerge attraverso la cortina di fumo della norma sociale.”

Risultò da questa indagine, tra le altre cose, che i bambini e i pre-adolescenti hanno spesso emozioni palpabili senza alcuna stimolazione manuale: essi si eccitano attraverso una sorta di meccanismo emotivo legato allo stress e allo sconvolgimento. Kinsey descrive più di una dozzina di scenari emozionanti che includono: la paura, la vista di un incidente, parlare in classe, essere interrogati vicino alla cattedra, ecc.

Raggiunta l’età adulta, dal 10 al 20% degli uomini e il 3-12% delle donne fanno del sadomasochismo il motore della loro sessualità, ma molte più persone di quelle che possiamo immaginare fantasticano su storie di bondage , di stupri o di sesso di gruppo (che comporta l’idea un po’ paurosa di essere in competizione con  rivali o potenziali concorrenti ) …

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Il motore della libido degli adulti rimane dunque legato all’idea del pericolo. Cosa c’è di più rischioso che incontrarsi? Fare l’amore con uno sconosciuto? Andare ad un appuntamento con uno sconosciuto in un hotel?

Nel 1980, uno studio pubblicato negli Archives of Sexual Behavior, da Claude Crépault e Marcel Couture (Université du Québec) accreditava questa tesi: il 46% degli uomini intervistati dicono di sognare di essere rapiti e “violentati” da parte delle donne, il 12% si eccitano all’idea di essere umiliati, il 36% amerebbe consegnarsi agli appetiti sessuali di una donna …
Nel 1985, i ricercatori Arndt, Foehl e Good (1985) sostennero che il 33% delle donne e il 50% di uomini fantasticavano all’idea di violentare o legare la loro partner.Nel frattempo, altri studi sui meccanismi dell’erezione hanno avanzato l’idea che la paura, lungi dall’impedire la tumescenza può addirittura crearla. Nel 1982,  Sarrel e Master raccolsero una serie impressionante di casi di adulti di sesso maschile vittime di abusi sessuali: costretti ad avere rapporti sessuali sotto la minaccia di donne armate o fisicamente violente, sono stati in grado di mantenere l’erezione, nonostante la paura, la vergogna e l’imbarazzo.

Nel 1983, Barlow et al sottomisero alcuni soggetti ad un duplice vincolo: stimoli erotici insieme alla “minaccia di una scossa elettrica” ​​ Curiosamente, questi uomini si eccitarono di più e più a lungo degli uomini che furono sottoposti solo a stimolazione erotica, senza minaccia. Che cosa significa?

Per Gérard Bonnet, la risposta è quasi ovvia: di fronte ciò che li spaventa, gli umani si eccitano come reazione di difesa. Trasformano la paura in energia assorbendo il calore e il piacere di questa paura erotizzata, ritrovando così la fiducia in sé stessi … “Gli atti genitali sono come un catalizzatore per affrontare la differenza sessuale, proprio perché si è in due, due differenti che si rimpallano l’angoscia individuale e si forniscono ampie rassicurazioni” dice.

Al di là della sua funzione primaria (riproduttiva), la sessualità genitale ha la virtù di essere un esorcismo: permette di superare magicamente le angosce. Queste angosce variano nelle diverse culture così come negli individui, naturalmente, e la grande importanza che Bonnet Gérard attribuisce all’angoscia della differenza sessuale non è certamente universale.

Ma l’idea che la sessualità venga usata per affrontare i nostri demoni è probabilmente valida per molte persone. E’ un gioco che consiste nel farsi paura, oh così delizioso.
Ne approfitto per allegare una delle mie scene preferite del cinema.
(Vedi la Versione del film La Bella e la Bestia (1946) in Italiano)

Nota 1/ La révolution du plaisir féminin, Elisa Brune, ed. Odile Jacob

L’irrésisitible pouvoir du sexe, Gérard Bonnet, ed. Payot.

Altre informazioni sul mito della medusa : Alfred Jarry et l’obsession de la castration, Qu’est-ce qui nous met en érection?

Agnès Giard

Leggi l’articolo in francese: Pourquoi la peur nous fait frissonner… de plais, Les 400 culs, Liberation
Traduzione a cura di psicolinea.it
Riproduzione autorizzata

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Agnès Giard autrice di libri, giornalista e dottore in antropologia, ha lavorato in passato su nuove tecnologie, artisti underground e cultura popolare giapponese, prima di dedicarsi alla sessualità. Nel 2000, è diventata corrispondente per la rivista giapponese SM Sniper con cui lavora da più di dieci anni. Nel 2003 ha pubblicato un libro d’arte in Giappone: Fetish Fashion poi ha iniziato una serie di ricerche che saranno pubblicate in collaborazione con artisti contemporanei giapponesi come Tadanori Yokoo, Makoto Aida, Toshio Saeki, etc. Il suo primo libro, L’Imaginaire érotique au Japon, tradotto in giapponese, è classificato 4 ° tra i libri stranieri più venduti. La sua biografia completa è disponibile qui:
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Non lasciarmi, o la necrofilia

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Resta da capire perché Michael S. abbia fatto bollire la testa del suo amante (1). Ha voluto tenerlo con sé? Se è così, possiamo classificare questo comportamento come un atto di necrofilia? “È difficile da dire…” ha risposto Amandine Malivin, storica specializzata nella storia della morte e della sessualità, “si dovrebbe in primo luogo stabilire chiaramente cosa si intende per necrofilia” A partire da quale momento si è necrofili? Nel passaggio all’atto, o quando si fanno fantasie ardite? “Dovrebbe esserci una continuità o una specifica attrazione per i cadaveri con un rifiuto di qualsiasi rapporto tra persone viventi? L’eccitazione erotica prodotta dalla vista dell’inumazione o del funerale (non è così rara) è una forma di necrofilia? Il vedovo che non ha mai sentito attrazione per i morti e viene sorpreso in un ultimo rapporto con la moglie morta è veramente un necrofilo? Che cosa si può pensare degli appassionati di giochi di ruoli in cui uno dei due partner finge di essere morto, o di individui che cercano disperatamente di trovare un/a partner defunto/a nelle caratteristiche vagamente simili di un/a nuovo/a partner vivente? E che dire dei siti Internet girlsandcorpse o postmortempinup? Fino ai casi limite; si conoscono casi di individui che hanno proseguito un rapporto sessuale senza rendersi conto che nel frattempo il/la partner aveva esalato l’ultimo respiro… Ovviamente, ad un certo punto, il rapporto è divenuto necrofilia, anche se è difficile credere che si tratti di una relazione necrofila… Il necrofilo viene definito tale per l’atto che commette o per l’oggetto che suscita in lui un desiderio, senza però mai passare realmente all’atto? Il termine stesso sembra troppo sistematico e copre infatti una moltitudine di abitudini e di atteggiamenti molto diversi e la cui unica similitudine è quella della trasgressione delle norme e della presenza di un legame, che è più comune di quanto si possa pensare, tra morte e sessualità”.

Per Amandine Malivin, siamo tutti più o meno necrofili, perché la morte è un eccitante. C’è chi sogna di incontrare un bel vampiro. Altri godono all’idea di baciare il loro amato/a in un cimitero. Altri ancora hanno dei brividi di piacere durante la visione di film violenti che mostrano un corpo letteralmente aperto a causa di ripetute penetrazioni…

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In maniera abbastanza significativa, la maggior parte dei necrofili passa all’atto come se si trattasse di un incidente di percorso: a priori, i cadaveri non sono eccitanti per loro. Ma per una sfortunata combinazione di circostanze ci finiscono dentro… “I casi che ho studiato, relativi al XIX secolo, mi hanno permesso di osservare percorsi individuali molto differenti, spesso dei personaggi molto tristi e senza alcun carisma, in ogni caso molto distanti dall’idea del grande pervertito o dell’esteta della morte che spesso si immagina”, ha detto Amandine Malivin. “Nessuno dei miei necrofili aveva una particolare predilezione per i morti. Al massimo alcuni hanno confessato di essersi dedicati a questo per ragioni di facilità o perché si sentivano rifiutati dai vivi. Ma per la maggior parte, essi non spiegano il loro passaggio all’atto, dicono tutti di aver dimenticato, di aver agito sotto l’influenza dell’ alcool o della demenza. Forse bisognerebbe vedere in queste perdite di memoria o di controllo un modo di nascondere la vergogna, un rifiuto di raccontare, o forse è la verità. Nessuno si dichiara necrofilo, non è una questione di desiderio o di piacere”. E’ questo il caso di Michael S. ? Per non cedere al panico, ha conservato la testa del suo amante, come per tenerlo vicino a sé, per evitare simbolicamente che “andasse via”?

1. Carsten lavorava part time in una sauna-gay chiamata Boiler.

Agnès Giard

Leggi l’articolo in francese: Ne me quitte pas, Les 400 culs, Liberation
Traduzione a cura di psicolinea.it
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Perché ci sono così poche donne in prigione?

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Orchesse, streghe, lécheuses de guillotine (nome spregiativo che veniva dato alle donne che accorrevano in piazza quando c’era una esecuzione capitale), virago, amazzoni, arpie, rivoltose, pétroleuses (sostenitrici della Comune di Parigi, accusate di aver provocato diversi incendi a Parigi nel Maggio 1871)…. Al cinema, nella letteratura e nei media, quando le donne sono messe in scena come soggetti violenti, è per rappresentarle come ” isteriche “, vale a dire bisognose di cure. Non si mettono i matti in prigione.

Nell’immaginario collettivo, la violenza maschile è razionale, perché è parte di una logica di difesa territoriale, il maschio uccide per proteggere la propria femmina o il proprio Paese. La femmina, invece, sembra uccidere solo sotto l’effetto della follia uterina, abbandonata completamente ai suoi ormoni e ai suoi istinti squilibrati… La frustrazione probabilmente. In genere si pensa ad una assassina come ad una persona “sessualmente insoddisfatta” o peggio “una frigida squilibrata” che serve ad un tempo per giustificare (la poverina) e per classificarla nella categoria degli ‘”irresponsabili”.

In un libro dal titolo Penser la violence des femmes, le sociologhe Coline Cardi et Geneviève Pruvost hanno raccolto una quantità inedita di particolari storici, antropologici, sociologici, linguistici e letterari, per capire meglio : le donne sono violente come gli uomini? Lo sono in modo diverso? Perché la loro violenza è ignorata? Perché si tende a scusare le criminali, con il pretesto che si tratta di donne (significato: le poverine)?

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“Per capire, è importante per uscire da questa doppiezza apparentemente paradossale che, da un lato, fa della violenza del sesso debole un tabù, ignorando comportamenti ricorrenti e, dall’altro, ipertrofizza la violenza per stigmatizzarne gli eccessi. In entrambi i casi, si tratta di produrre e riprodurre la differenza di genere “, hanno spiegato Coline Cardi e Geneviève Pruvost.

Nel loro libro, l’esistenza di questo tabù, chiaramente denunciato, è oggetto di numerose analisi critiche. “La violenza delle donne può essere uccisa, negata, riqualificata, sotto-stimata. E’ quello che viene definito “violenza fuori ruolo“, ” dicono le autrici, citando numerose ricerche approfondite. “Così ci si interroga regolarmente, per esempio, sull’arrivo di bande di ragazze nei quartieri, vi è preoccupazione per la loro violenza è si dice che non solo è in aumento, ma anche che essa tenderà a diventare simile o addirittura superiore a quella dei maschi. Si mette dunque in scena, soprattutto nei media, una crudeltà molto femminile, e ci si preoccupa di questa indistinzione sessuale che avanza“.

Il tutto, veicolato dai giornalisti, fa si che gli uomini di legge si indignino, si preoccupino e parlino di un fenomeno considerato “nuovo” (che è falso), contribuendo a mascherare una parte della storia e a riaffermare le differenze fra i sessi: ufficialmente, le donne sono considerate di buon carattere e il fatto che alcune di loro commettano atti di violenza estrema è considerato anormale. A volte, si arriva ad attribuire questo “nuovo fenomeno” alla liberazione della donna. Ovviamente, una donna che rivendica gli stessi diritti degli uomini, non può che diventare violenta … Proprio come coloro che desidera copiare.

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“Questo discorso allarmista – che si è intensificato alla fine del 1990, in particolare con il caso della banda delle ragazze di Tolone (…) non è nuovo. Per citare solo un esempio, ecco quello che si poteva leggere su Le Monde nel 1995:

“Nel pomeriggio di Sabato 13 maggio, a casa di una di loro, nel quartiere Canet di Marsiglia (14 ° arrondissement) le tre ragazze hanno picchiato una delle loro amiche, di 15 anni, con pugni, ginocchiate e bastonate. Le tre ragazze hanno confessato di aver provocato bruciature sul corpo della ragazza con le sigarette, di averle tagliato i capelli e strappato i vestiti, prima di rubarle i gioielli. […]. Alla luce di questi fatti “intollerabili in una società civile”, e coscienti “di fare appello alla legge e alla morale” il giudice minorile ha chiesto un mandato di arresto contro le tre ragazze. […] Al tribunale di Marsiglia, ci si sorprende di “Questo allarmante aumento della delinquenza femminile” e della “violenza estrema dimostrata da queste tre ragazze.” “Non è con l’allegria nel cuore che abbiamo posto delle ragazze così giovani in stato di detenzione, dice il giudice, ma i fatti hanno condotto inevitabilmente a questa severità”.

Come sottolineano le sociologhe di Penser la violence des femmes,  l’espressione di questo “panico morale” è ricorrente da due secoli. “Negli anni Quaranta e Cinquanta negli Stati Uniti, sono stati segnalati casi di violenza irrazionale da parte di ragazze in bande giovanili. Il periodo che seguì la rivoluzione del 1968 e il Movimento di liberazione della donna vide rivivere questi allarmismi. L’argomento è il seguente: l’emancipazione delle donne porterà ad un nuova criminalità femminile, con reati più violenti che tenderanno ad eguagliare quelli degli uomini. A proposito di questa ipotesi, Dvora Groman e Claude Faugeron hanno parlato di una “correlazione spuria”: non solo riproduce l’ideologia di genere, ma è statisticamente falsa perché le cifre rimangono stabili. Ciò vale anche per il periodo attuale: il tasso è rimasto costante. La percentuale di donne, maggiorenni e minorenni, che sono chiamate a comparire in tribunale oscilla tra il 9 e il 15%. “


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Coline Cardi e Geneviève Pruvost definiscono questo un “meccanismo di non riconoscimento dei fatti”. In altre parole: quando i media esagerano la violenza delle donne è per gettare un anatema contro un comportamento ritenuto “anomalo” e “nuovo”.  In realtà, gli atti di delinquenza femminile sono fatti costanti nella storia. Ciò nonostante, agli occhi del pubblico in generale, le donne sono esseri incapaci di fare del male: sono “deboli” fisicamente, non è vero? E sono loro che danno la vita. Come potrebbero tradire la loro natura, fino a questo punto?

Altro argomento comunemente utilizzato da coloro che ritengono che le donne siano persone “non-violente”: le cifre. “Guarda le statistiche. Ci sono molte meno donne in prigione rispetto agli uomini” Questo è vero. Ma per ragioni che sono interessanti da esaminare (1) … Come si fa a mettere in carcere una persona  che per secoli ha ricevuto lo status giuridico di minore e di assistita? Attualmente, le donne non vanno in prigione, ma in strutture detentive “più morbide”, come le case di ” cura ” o gli ospedali psichiatrici. Per Coline Cardi e Geneviève Pruvost, dobbiamo diffidare dei numeri. Dovremmo anche cercare di capire cosa si intenda per “violenza”. “Si tratta di aggressioni? Di insulti quotidiani? Di condotta impropria, umiliante? Da che si chiede agli uomini se essi subiscono violenze, si è visto che rispondono di si circa il 20% di loro, più o meno lo stesso numero delle donne.

Purtroppo, gli stereotipi sono duri a morire. Ufficialmente, le donne non sono violente. Oppure lo sono come gli uomini, perché vogliono copiare il sesso forte… Le poverine.

“Questo stereotipo potente è come un rullo compressore che attribuisce condizioni di non-pericolosità sociale rendendo così le donne depoliticizzate su questo argomento, concludono Coline Cardi e Geneviève Pruvost. Pratiche e discorsi egemonici che naturalizzano, biologizzano, psicologizzano,  psichiatrizzano, etnicizzano, non fanno che riprodurre la gerarchia di genere e implicitamente o esplicitamente difendono il principio della disuguaglianza di genere in termini di potere di esercizio della violenza. Perché la violenza è potere. Si pensi alle restrizioni per l’accesso delle donne – come si fa nei confronti dei colonizzati – alle occupazioni in campo militare e di polizia, posizioni nodali che si basano sul potere delle armi nelle nostre società, ivi comprese quelle democratiche. Se le nostre società sostenessero la non-violenza e portassero avanti sul serio questo progetto politico, la violenza delle donne non sarebbe considerata una forma di emancipazione e non sarebbe necessario formare a questo punto una categoria di genere con la missione di pacificare la morale’.

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LE CIFRE DELLA VIOLENZA FEMMINILE

Coline Cardi e Geneviève Pruvost: “Siamo in effetti di fronte ad una chiara asimmetria sessuale. In tutte le fasi del sistema di giustizia penale, le donne sono largamente sotto-rappresentate in termini statistici: rappresentano il 14% degli individui che hanno avuto problemi con la polizia, il 9% di tutte le persone che hanno avuto problemi con la giustizia e il 3,4% della popolazione carceraria. Come spiegare una tale situazione?

La storia offre su questo punto una parte della risposta e chiede di riconsiderare questa asimmetria. La percentuale delle donne in carcere è stata molto più importante negli ultimi secoli: esse rappresentavano un terzo della popolazione carceraria, alla fine del 18 ° secolo. Si osserva una caduta storica del tasso di donne imprigionate in tutto il 19 ° secolo, che mette a tacere tutti i discorsi sulla presunta “esplosione” attuale della delinquenza femminile. Questo calo è dovuto alla scomparsa di alcuni reati (tra cui i tumulti per la sussistenza) di cui venivano incolpate le donne o la loro depenalizzazione (il “delitto di fagotto”, l’aborto o l’emissione di assegni a vuoto, nel 1991). Questo svela anche il processo storico che ha visto più donne assegnate alla maternità e allo spazio domestico, supponendo altri tipi di controlli.

Un secondo fattore esplicativo porta a guardare al trattamento penale delle donne. A questo livello, vi è un fenomeno di sottostima della criminalità femminile e una forma di protezione della donna, in particolare riguardo al rischio di incarcerazione. In due parole: un giudice è riluttante a mandare una donna in prigione. Questa clemenza è relativa e selettiva. Sul trattamento favorevole nei confronti delle donne vi è l’influenza di stereotipi di genere: coloro che vanno protette sono coloro che soddisfano le aspettative relative al loro sesso. Le (“buone”)  madri e coloro che si presentano come vulnerabili otterranno un migliore trattamento. Una donna senza documenti, senza figli, possibilmente autrice di reati violenti sarà invece trattata come un uomo, o sarà criticata per la sua trasgressione alle tradizionali mansioni di genere.

Anzitutto, dire che le donne sono meno violente perché sono meno presenti in carcere non è sufficiente. Dobbiamo invertire la domanda e chiederci: se le donne violente non sono in carcere, dove sono? Dobbiamo quindi considerare anche il settore della protezione sociale e familiare per poter osservare una devianza femminile equivalente a quella maschile. Se le donne violente vengono trattate in istituzioni diverse rispetto agli uomini, questo richiede di considerare anche le istituzioni  di “cura” così come si fa nelle carceri. Questi luoghi, che sembrano garantire delle forme lievi di pena, non creano altre forme di violenza, come la medicalizzazione e la psichiatrizzazione a oltranza? “.

Agnes Giard

Leggi l’articolo originale:
Pourquoi y a-t-il si peu de femmes en prison ? Les 400 culs, Liberation

Riproduzione autorizzata, traduzione a cura di psicolinea.it.

Immagine:
Fiore S. Barbato, Flickr

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Agnes Giard
Dr. Agnes Giard

Agnès Giard autrice di libri, giornalista e dottore in antropologia, ha lavorato in passato su nuove tecnologie, artisti underground e cultura popolare giapponese, prima di dedicarsi alla sessualità. Nel 2000, è diventata corrispondente per la rivista giapponese SM Sniper con cui lavora da più di dieci anni. Nel 2003 ha pubblicato un libro d’arte in Giappone: Fetish Fashion poi ha iniziato una serie di ricerche che saranno pubblicate in collaborazione con artisti contemporanei giapponesi come Tadanori Yokoo, Makoto Aida, Toshio Saeki, etc. Il suo primo libro, L’Imaginaire érotique au Japon, tradotto in giapponese, è classificato 4 ° tra i libri stranieri più venduti. La sua biografia completa è disponibile qui:
http://sexes.blogs.liberation.fr

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Perché le bionde sono volgari?

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Con il pretesto che gli uomini preferiscono le bionde, si cerca di screditarle. Chiamate “bambole”, “sgualdrine” o peggio ancora “puttane”, esse subiscono una vile campagna denigratoria. Salviamo le bionde, poveri capri espiatori di una campagna diffamatoria che nasconde in realtà il desiderio sessuale.

Si dice che siano cretine e volgari, con grandi seni. In due parole: bambole gonfiabili. Il loro colore dei capelli le classifica d’ufficio nella categoria: “Ehi puttanella, vuoi salire?” Impossibile pensare di apparire serie se si somiglia alla Barbie. Tanto che l’essere bionda, oggi, è un po’ come essere una suora: c’è davvero del gusto per il sacrificio. Nessuno vuole invitarle a mangiare. Non rimangono che i giocatori di calcio o le rock star a volerle sposare. Rifiutate dalle altre ragazze (gelose), infamate dagli uomini (vergognosi), le bionde subiscono tutti gli insulti, nell’indifferenza generale.

Piccolo esempio di battuta misogina: “Perché le bionde non mangiano le banane? Perché non trovano l’apertura dei pantaloni”. Un altro esempio, per riderci su, “Da cosa si capisce che una bionda ha aperto il frigorifero? Dal fatto che ha lasciato un po’ di rossetto sul cetriolo”. Molto divertente. Ridere di cuore a scapito delle bionde. Ma non dimentichiamo che attraverso di loro si gioca, sempre, la simbolica messa a morte dei nostri desideri. Le bionde non sono che le vittime di questo doppio moto contraddittorio di attrazione e di odio che esse creano, perché inconsciamente tendiamo a giudicare colpevoli sempre coloro che provocano il desiderio. Il desiderio è il male. Deve essere vinto ad ogni costo, deve essere sottomesso, distrutto, demonizzato … E tanto peggio se a rimetterci sono le bionde.

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In un libro intitolato Victimes au feminin, Frédéric Elsig sottolinea l’ambiguità delle scene pittoriche che, dal 15° secolo, raffigurano in modo ambiguo il famoso episodio di Andromeda, liberata da Perseo. E’ la storia di una bella ragazza (Andromeda), offerta in sacrificio ad un essere mostruoso, che un bel giovane (Perseo), salva dalla morte, attraverso l’uccisione del drago… Curiosamente, nella maggior parte delle rappresentazioni, le eroine sono bionde, nude, formose e in preda ad un terrore molto simile all’estasi d’amore. Perseo, a cavallo (fallico) trafigge con una lancia (fallico) un drago-serpente con uno zelo che non lascia dubbi sulla natura dell’atto al quale si prepara: questa uccisione è molto sessuale … ” Il successo dell’opera sta sicuramente nella tensione tra il fascino erotico della nudità e la dominazione umiliante”, ha detto Frédéric Elsig, il quale acutamente sottolinea l’ambiguità totale di questa rappresentazione: a chi sono offerte queste bellezze nude e incatenate? Ad un drago mostruoso? O allo sguardo concupiscente del pubblico?

E chi colpisce dunque Perseo con la sua lancia? Il desiderio mostruoso che proviamo per la bella bionda? O quella forma demonizzata della donna: il serpente tentatore? Non vi è, in definitiva alcuna differenza tra la bella e la bestia in queste pitture, che ad un tempo eccitano e condannano il desiderio. Non è altro che l’immagine di una contraddizione, tipicamente umana, che ci porta da una parte a “desiderare” e dall’altra ad “avere paura”. Le donne in generale, soprattutto le bionde, sono spesso rappresentate come vittime di questo mix di attrazione e repulsione che spinge le persone a voler combattere contro di loro. Frédéric Elsig lo riassume in una frase: “Il mostro del mare tematizza la duplice natura della donna, soggetto che è, allo stesso tempo, inquietante, minacciosa e sottomessa, come addomesticata”.

Il desiderio sessuale nella donna infertile
Relazione presentata al Congresso Nazionale Aige/Fiss del 7-8 Marzo 2025 a Firenze. 

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E questo ci riporta alle bionde, che hanno intorno alla testa un cerchio di luce, grazie ai propri capelli, come le martiri con l’aureola… Le scherniamo e le idolatriamo. Le scherniamo, più che le idolatriamo. Il che è totalmente ingiusto perché senza di loro non ci sarebbero altro che delle donne brune e intellettuali (stile Amélie Nothomb), decise a farci leggere Schopenhauer. Con le bionde almeno, non cè il problema del cervello. Che lo abbiano o no, chi se ne frega. A parte qualche bionda ossigenata, le bionde non cercano di dimostrare che ne hanno in testa – parlo del silicone. Lo sanno.

La prima a dare l’esempio si chiamav Jayne Mansfield. “In La Blonde et moi, ricorda il giornalista Hugues Guccione (Max, dicembre 1998), Jayne Mansfield vuole farsi capire bene: lei è bionda. Quando cammina lungo la strada, così bionda, con i suoi grossi seni, i tappi delle bottiglie di latte esplodono e il latte si diffonde ovunque. La prima svampita ufficiale manda un chiaro messaggio. – Sono bionda con le tette grandi – e non ci vuole molto a capire che sono tutt’altro che una macchina eiaculatoria, per esempio. “

La bionda, infatti, ha una missione nella vita: salvare i maschi in difficoltà. È per questo che si fanno crocifiggere. Perché accettano di essere ciò che sono, un oggetto del desiderio, con un culo, due tette e tre fori disponibili. Nella società odierna, questo è imperdonabile. Disprezzata, sacrificata sull’altare del politicamente corretto, la bionda è la strega moderna, messa sul rogo dell’Inquisizione da maschi ipocriti. La verità vera è che essi da secoli si masturbano con l’immagine della bionda.

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Migliaia di anni prima di Cristo, le donne dei Galli per essere belle si decoloravano i capelli con la soda. Nell’antica Grecia, le dee erano tutte esclusivamente bionde. Non c’erano delle more nell’Olimpo. Solo guerriere con un elmo di capelli d’oro, simbolo di ricchezza. Biondo era il colore del divino, quello della luce del sole, del grano maturo, del sesso. Nel 16° secolo sotto l’influenza del Petrarca, i poeti componevano poesie d’amore alla loro donna . “I suoi capelli d’oro sono i lacci dove la mia libertà fu colta di sorpresa”, dice Du Bellay, mentre a Fontainebleau non vengono dipinte che Diane cacciatrici coronate di capelli del colore dei cornflakes Kellogg. E la cosa continua! Da Marilyn Monroe a Lolo Ferrari, le bionde con orgoglio rivendicano il loro status di oggetti offerti alle fantasie più istintuali.

Ma la loro stessa immagine ha qualcosa di astutamente volgare, come se nel nostro mondo monoteista, non fosse più possibile essere desiderabili senza essere allo stesso tempo disprezzabili … Questo è il triste destino delle donne in generale, come il non essere in grado di mostrare il proprio corpo senza che questo vanga accostato al “degrado” o alla “compromissione dell’integrità”. Nel libro Victimes au féminin, un altro antropologo, John Wirth, decodifica brillantemente l’immagine della Vergine che si sviluppa intorno al 12 ° secolo nell’iconografia cristiana: come Adamo, sedotto da Eva ha ceduto al peccato e alla morte, Gesù Cristo, partorito dalla Vergine, diventerà vittima delle grazie femminili… Dopo aver assunto la forma di uomo , egli dovrà assumere “la condizione umana fino alla sua morte”, ha detto Jean Wirth. Le donne che partoriscono agli uomini, non sono forse profondamente colpevoli di offrire loro come prima cosa la morte?

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Nell’iconografia cristiana, Cristo è spesso rappresentato come un unicorno, animale con un corno (fallico) che “i cacciatori non possono catturare e uccidere se non usano una vergine come esca. Catturato, l’animale si rilassa e si lascia trafiggere senza difendersi, come Cristo sulla croce. “Con l’uccisione del dio, la Vergine-generalmente bionda nelle rappresentazioni dell’unicorno, si rende dunque colpevole. Colpevole di attrarre l’uomo, colpevole di generare desiderio, colpevole di causare la morte insieme alla vita, colpevole di partorire fra i sanguinamenti da un buco che è quello del paradiso, colpevole di lasciare il peso del desiderio alle generazioni successive … Colpevole, colpevole mille volte in questa società che non riesce ad accettare la vita. Perché la vita è troppo volgare.

Victimes au féminin, di Francesca Prescendi e Agnes A. Nagy, Georg éditeur, collezione di scienze umane L’Equinoxe.

Agnés Giard

Link all’articolo originale:
Pourquoi les blondes sont-elles vulgaires?, Les 400 culs, Liberation
Riproduzione autorizzata

Immagine:

Sophia Loren e Jane Mansfield, Kndynt 2099, Flickr

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Agnès Giard autrice di libri, giornalista e dottore in antropologia, ha lavorato in passato su nuove tecnologie, artisti underground e cultura popolare giapponese, prima di dedicarsi alla sessualità. Nel 2000, è diventata corrispondente per la rivista giapponese SM Sniper con cui lavora da più di dieci anni. Nel 2003 ha pubblicato un libro d’arte in Giappone: Fetish Fashion poi ha iniziato una serie di ricerche che saranno pubblicate in collaborazione con artisti contemporanei giapponesi come Tadanori Yokoo, Makoto Aida, Toshio Saeki, etc. Il suo primo libro, L’Imaginaire érotique au Japon, tradotto in giapponese, è classificato 4 ° tra i libri stranieri più venduti. La sua biografia completa è disponibile qui:
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